Transfer pricing, l’onere della prova grava sull’amministrazione

Redazione 06/04/16
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Corte di Cassazione, sez. V Civile, sentenza 27 gennaio – 6 aprile 2016, n. 6656
Presidente Di ***** – Relatore ********

Svolgimento del processo

L’Agenzia delle Entrate di Milano ha notificato alla BOLTON MANITOBA SPA un avviso di accertamento, per l’anno 2001, a seguito di una verifica effettuata da funzionari della Direzione Regionale.
L’Agenzia delle Entrate ha, tra l’altro contestato, alla Bolton di non aver contabilizzato 575.454,87 Euro per ricavi derivanti da operazioni intercorse con imprese controllate. In particolare, la Bolton ha sostenuto i costi affrontati dalla ICS Link, operante nella Repubblica Ceca, per la pubblicità di prodotti che la Bolton distribuisce all’estero, assumendo però di avere ricavato dalle vendite introiti inferiori alle spese sostenute. L’Agenzia ha dunque presunto che la differenza tra il costo sostenuto e il ricavo avuto costituisce un trasferimento di reddito all’estero, fatto al fine di eludere la tassazione italiana.
Inizialmente, l’Agenzia ha contestato anche la illegittima deduzione di altri costi. Su questi ultimi, come su quello oggetto di ricorso, sia la Commissione Provinciale che quella Regionale hanno accolto il ricorso della società Bolton.
Ricorre per Cassazione l’Agenzia, soltanto relativamente ai ricavi presunti derivanti da operazioni con le società controllate, chiedendo l’annullamento della sentenza per difetto di motivazione.
Secondo la ricorrente la Commissione regionale avrebbe apoditticamente aderito alla tesi della ricorrente, senza dare conto della sua fondatezza, ed avrebbe errato nell’attribuire all’Amministrazione l’onere della prova.
Resiste con controricorso la società Bolton.

Motivi della decisione

1.- Con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia denuncia difetto di motivazione per violazione dell’art. 360 n. 5.
La ragione del ricorso sta nel fatto che la Bolton avrebbe compiuto un’operazione antieconomica, vendendo dei beni, tramite la consociata estera, ad un prezzo minore rispetto a quello di costo. Secondo l’Agenzia si tratterebbe di una operazione fittizia, nel senso che i beni sarebbero invece stati venduti ad un diverso e maggiore prezzo, ed il ricavo ottenuto non sarebbe stato denunciato come tale.
Secondo l’Agenzia la spesa sostenuta da Bolton per fare pubblicità ai prodotti da distribuire all’estero, spesa consistente nel rimborsare ICS dei costi sostenuti per tale promozione, è superiore ai ricavi avuti dalle vendite.
La differenza tra quanto ricavato dalle vendite e quanto effettivamente speso per realizzarle non sarebbe effettiva, ma costituirebbe un reddito che Bolton ha occultato facendolo passare come costo.
L’Agenzia giunge a tale conclusione assumendo che non è criterio di normalità economica che i costi per la proposizione di prodotti da vendere superino i ricavi delle vendite stesse.
E dunque fa applicazione dell’art. 76, comma 5 del DPR n. 917 del 1986 (previgente), secondo il quale: “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti“.
In sostanza, la norma presuppone che si sia appurato che la società ha prodotto un reddito all’estero.
Richiamando un orientamento di questa Corte (Cass. n. 182 del 2001, tra le altre), l’Agenzia sostiene che nel caso di operazione antieconomica, che il contribuente non sappia adeguatamente giustificare, è legittimo l’accertamento dell’Agenzia, e che il giudice tributario per poter annullare tale accertamento, deve specificare, con validi argomenti, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie.
La sentenza impugnata di fatto giustifica l’antieconomicità, secondo l’Agenzia, semplicemente limitandosi a dire che: “appare sostenibile la strategia di marketing adottata dalla ricorrente per la produzione e commercializzazione dei propri prodotti nel mercato della Repubblica Ceca“.
Motivazione che, secondo la ricorrente, insufficiente o meramente apparente.
1.1.- Il motivo va rigettato.
L’onere di dimostrare che un’operazione economica realizzata all’estero, fatta tramite una controllata o controllante avente per l’appunto sede all’estero, costituisce reddito, è posto a carico della Amministrazione, per consolidato orientamento di questa Corte (Cass. 13.10.2006, n. 22023; Cass. 16.5.2007, n. 11226).
La decisione impugnata ha correttamente ritenuto a carico dell’Agenzia l’onere di provare che la differenza tra il costo sostenuto per la pubblicità ed il ricavo delle vendite fosse fittizio, costituendo in realtà un reddito realizzato all’estero e come tale da considerarsi fiscalmente prodotto in Italia.
Va ribadita la regola per cui la prova dell’elusione, e dei suoi presupposti, grava sull’Amministrazione che intende operare le conseguenti rettifiche.
Da questo punto di vista è irrilevante la giurisprudenza citata in tema di costi deducibili, e che pone l’onere di dimostrare la deducibilità in capo al contribuente, poichè non si tratta qui di costi deducibili, ma dell’assumere come reddito occulto una differenza tra costi e ricavi realizzati all’estero.
Con apprezzamento di fatto non censurabile in Cassazione, la Commissione ha ritenuto che l’Agenzia non ha adeguatamente dimostrato perchè, sulla base dei valori normali delle merci vendute, il ricavo avrebbe dovuto essere superiore alla spesa sostenuta per vendere, ritenendo invece che l’Agenzia abbia agito sulla base di una presunzione non convincente: quella per cui la spese sostenute per la pubblicità avrebbero dovuto far conseguire alla società ricavi perlomeno pari alla spesa affrontata.
La motivazione fa, sia pure sinteticamente, la comparazione tra due presunzioni: quella usata dall’Amministrazione e quella, di segno contrario, per cui sarebbe piu’ verosimile che in fase di start up il costo per promuovere il prodotto sia superiore ai ricavi delle vendite.
Fatto valere come vizio di motivazione il motivo è infondato, poichè la decisione impugnata dà conto del ragionamento che l’ha indotta ad assumere quella decisione, ossia la presunzione per cui i costi di pubblicità non sono costi di produzione, e possono superare il prezzo del prodotto reclamizzato.
In sostanza, la ricorrente Agenzia assume un impiego non corretto delle regole di esperienza su un fatto determinante.
In generale, non può ritenersi insufficiente, però, la motivazione quando si comprende quali siano state le ragioni che hanno giustificato la decisione assunta. La sentenza impugnata mostra di motivare perchè ritiene che non è presumibile che da un costo di pubblicità debba ricavarsi necessariamente un guadagno almeno di pari ammontare, in quanto ritiene non correlato quel costo al ricavo dovuto alle vendite.
Nel vecchio teso dell’art. 360 c.p.c., applicabile ratione temporis a questo caso, l’insufficienza della motivazione, quando, come nella fattispecie, è denunciata l’omessa considerazione di un fatto controverso, vale come indice della mancata considerazione di quel fatto. E ciò nel senso che è da ritenersi trascurato un fatto controverso e rilevante quando non vi sia su di esso (rectius sulla sua rilevanza) una motivazione sufficiente.
Nel caso di impiego di regole di esperienza, il vizio denunciato presuppone che il giudice non abbia adeguatamente illustrato quali siano tali regole e come lo hanno portato a far ritenere provato (o non provato) il fatto controverso e decisivo.
In realtà, il giudice di merito adduce una ragione che sta al fondo della regola di esperienza utilizzata per valutare il fatto controverso.
Da un lato infatti ritiene che l’Agenzia non abbia sufficientemente dimostrato il valore normale delle merci, ma soprattuto, dall’altro, assume che dal costo di pubblicità non si può dedurre, come ha fatto l’Agenzia, che si debba avere, necessariamente, pena la non economicità della operazione, un ricavo corrispondente o maggiore, trattandosi di due voci non correlate, nel senso che la spesa di pubblicità non necessariamente assicura ricavi tali da coprirla.
Il giudice di merito ha dunque motivato sulle ragioni che lo hanno indotto a ritenere non fondata la presunzione cui ha fatto ricorso l’Agenzia.
Il ricorso, basato su questo unico motivo, va pertanto respinto, e le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in complessive 7 mila Euro, oltre spese prenotate a debito.

Redazione