Tentato omicidio: valutazione della congruità della riparazione del danno (Cass. pen. n. 26388/2013)

Redazione 17/06/13
Scarica PDF Stampa

Ritenuto in fatto

1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza dell’1-2-2012, a conferma di quella emessa dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Monza, ha condannato B.M. a pena di giustizia per reati di tentato omicidio – ritenuta la desistenza volontaria – sequestro di persona e atti persecutori nei confronti di A.R., sua ex fidanzata.
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto personalmente ricorso per Cassazione l’imputato, lamentando l’illogicità della motivazione spesa per escludere l’attenuante di cui all’art. 62, n. 6, cod. penale. Deduce che la somma di Euro 5.000, chiesta dalla persona offesa e da lui corrisposta nella misura richiesta, è idonea ad integrare le condizioni per il riconoscimento dell’attenuante suddetta.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato, sotto il profilo di seguito esaminato.
La sentenza impugnata chiarisce che l’imputato ha corrisposto alla persona offesa quanto da lei richiesto a titolo di risarcimento. Tuttavia, aggiunge, “l’entità della somma corrisposta alla persona offesa (Euro 5.000,00) appare oggettivamente piuttosto modesta in relazione ai danni cagionati alla parte offesa”.
È evidente che nel giudizio della Corte territoriale vengono in rilievo due valutazioni: quella della persona offesa e quella del giudicante. Inoltre, che si tratta di valutazioni tra loro (apparentemente) divergenti, in quanto la persona offesa sembra paga di quanto ha ricevuto, mentre la Corte d’appello giudica il risarcimento insoddisfacente.
Non v’è dubbio che l’attenuante di cui all’art. 62, n. 6, cod. pen. abbia carattere oggettivo, quanto al suo contenuto, nel senso che non rileva, ai fini del suo riconoscimento, il ravvedimento del reo, né rilevano le condizioni personali del reo, ma unicamente l’integralità del risarcimento, che deve essere tale da assicurare l’integrale ristoro dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dalla persona offesa. La considerazione dell’integrante del risarcimento è talmente esclusiva che – così è stato ritenuto sia dalla Corte Costituzionale che da questa Corte – nemmeno il più evidente tra gli indici di ravvedimento, quale in astratto potrebbe essere il trasferimento spontaneo di tutti i beni dell’imputato a favore della persona offesa, varrebbe a rendere operante l’attenuante se il riequilibrio patrimoniale non risultasse pieno. È questo il segno che nel conflitto di interessi tra reo e vittima del reato, regolato dall’art. 61 c.p., n. 6, prima parte, l’interesse della vittima non lascia alcuno spazio a pur eloquenti manifestazioni di ravvedimento del reo, per le quali soccorrono oggi altri istituti del diritto penale (Corte Cost. 20/23.4.1998 n. 138).
In questo modo è superato, però, solo uno dei problemi che si pongono all’interprete, giacché l’altro problema – rilevante nella specie – è quello di stabilire chi sia il soggetto chiamato a valutare l’integralità del risarcimento ai fini che interessano. Assume rilievo, a questo riguardo, la considerazione che nel sistema del codice penale l’obbligazione di risarcimento ha natura civilistica, essendo rivolta ad assicurare la reintegrazione, dal punto di vista patrimoniale, della vittima del reato. La sola variante che l’articolo 62 introduce al regime delle obbligazioni nascenti dal reato, rispetto al diritto civile, è che agli effetti dell’attenuante non sono consentite dilazioni di pagamento né sono ammessi modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento. Sicché, a meno di significativi scostamenti dalla misura che appare adeguata – secondo i criteri di commisurazione elaborati dalla giurisprudenza civilistica – alla natura del reato e delle conseguenze che ne sono derivate, le richieste eventualmente formulate dalla persona offesa non possono ritenersi irrilevanti sotto il profilo che interessa, trattandosi del soggetto chiamato in primis a valutare la gravità del danno e la congruità del risarcimento. Pertanto, se, come costantemente affermato da questa Corte, la generica dichiarazione liberatoria della persona offesa non può fornire la prova di una riparazione del danno effettiva, integrale e volontaria (cfr. Cass. Pen. Sez. 1, 5.5.1995. n. 3310. Cass. Pen. 8-4-2010, n. 19663. In senso conforme: Cass. pen., sez. 1, 5 maggio 1995 n. 6679, Cass. pen. n. 9582 del 1991, Cass. pen. n. 7147 del 1989, Cass. pen. n. 4050 del 1983), nemmeno è possibile prescindere del tutto da essa, dovendosi tener conto dei riflessi soggettivistici insiti nella valutazione del danno e nelle modalità della riparazione (sia nel senso che la valutazione della congruità non può essere rimessa al giudizio esclusivo – o al capriccio – dell’offeso, sia nel senso che la valutazione dell’interessato debba rimanere indifferente al giudicante). Quindi, ove una valutazione di congruità sia fatta – in maniera implicita o esplicita – dalla vittima del reato, il giudice è tenuto a motivare adeguatamente in ordine ai motivi per cui ritiene inadeguata quella valutazione e inidoneo il risarcimento, non senza considerare che nessuno può essere costretto ad accettare un risarcimento che ritenga, per avventura, eccessivo rispetto all’effettivo danno patito (né per questo al reo può essere negata l’attenuante in parola).
Non risulta che la Corte d’appello di Milano si sia attenuta a tale criterio, avendo escluso, in maniera sbrigativa, che la somma corrisposta dal B. sia inadeguata alla natura del danno, pur avendo rilevato che corrisponde alla richiesta della persona offesa. La sentenza va pertanto annullata sul punto con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello competente, che si atterrà al principio sopra espresso.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nel solo punto del mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, cod. pen. e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano per nuovo giudizio su di esso.

Redazione