Telecom deve rimuovere i propri impianti potenzialmente pericolosi per la salute umana (Cass. n. 20340/2013)

Redazione 04/09/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 26-9-1997 U.L. , proprietario di un appartamento sito in (omissis), a confine con via (omissis) dove insisteva un fabbricato di proprietà della s.p.a. Telecom Italia adibito a Centro di Telecomunicazioni per il settore Roma Belle Arti, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma la suddetta società e, premesso che essa sia all’interno che all’esterno di tale edificio aveva commesso abusi edilizi consistenti nell’ampliamento della cubatura consentita, nell’eliminazione di un parcheggio al cui mantenimento la sua dante causa SIP si era impegnata nei confronti del Comune di Roma con atto d’obbligo del 12-11-1969, nell’installazione sul lastrico solare di condizionatori d’aria, fonti di immissioni intollerabili di rumore, nella costruzione di un traliccio, dell’altezza di oltre 20 metri, montante ripetitori per telefoni cellulari che originavano emissioni di radiazioni nocive per la salute, ne chiedeva la condanna alla rimozione di tali opere, al ripristino dello stato dei luoghi ed al risarcimento del danno.
Si costituiva in giudizio la Telecom Italia eccependo preliminarmente, in relazione alle domande di rimozione del traliccio e delle antenne e di conseguente risarcimento danni, il proprio difetto di legittimazione per avere ceduto tali strutture alla s.p.a Telecom Italia Mobile (TIM), costituita con atto per notaio ****** di Torino del 28-6-1995, a seguito di scissione parziale e trasferimento del ramo di azienda relativo ai servizi di telecomunicazione mobile e, pertanto, chiedeva di essere autorizzata a chiamare in causa la predetta società alla quale la causa era comune, e dalla quale intendeva comunque essere garantita per il caso di accoglimento delle domande attrici; nel merito chiedeva il rigetto di tutte le domande proposte dall’U. in quanto infondate.
Disposta la chiamata in causa, la società TIM eccepiva l’esclusiva responsabilità della Telecom Italia in ordine alla domanda risarcitoria, e chiedeva il rigetto delle altre domande.
Il Tribunale adito con sentenza n. 46041/2002, ritenute la violazione dell’art. 872 c.c. a causa dell’altezza del suddetto traliccio – qualificato come una costruzione – in rapporto alla distanza dall’edificio vicino, la nocività per la salute – anche sotto il profilo del principio di precauzione -delle irradiazioni provenienti dalle antenne poste sul traliccio stesso, l’abusività dei denunciati interventi urbanistici ed edilizi anche con riguardo al mutamento di destinazione del garage, nonché la sussistenza e la risarcibilità dei danni conseguiti dall’attore, condannava la TIM alla rimozione del traliccio porta antenne, condannava la Telecom Italia alla rimozione del gruppo refrigeratori contrassegnato dalla sigla GF1, e condannava entrambe le società in solido al pagamento in favore dell’U. della somma di Euro 125.904,69 oltre interessi legali dal giorno della pubblicazione della sentenza.
Proposta impugnazione da parte della TIM si costituiva in giudizio la Telecom Italia aderendo alle censure della suddetta società, eccependo la novità in appello della domanda di dichiarazione di sua esclusiva responsabilità e di manleva proposta dalla stessa TIM e proponendo appello incidentale avverso i capi della sentenza non impugnati con l’appello principale.
Si costituiva in giudizio l’U. chiedendo il rigetto di entrambe le impugnazioni.
La Corte di Appello di Roma con sentenza del 17-5-2006 ha rigettato l’appello incidentale, ha accolto per quanto di ragione l’appello principale e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha condannato la TIM a rimuovere la cella n. 3 della stazione radio base Belle Arti sita in (omissis) , ed a ridurre l’altezza del traliccio porta antenne della stessa stazione nei limiti dell’inclinata risultante dall’applicazione dell’art. 19 del Regolamento Edilizio del Comune di Roma.
Avverso tale sentenza la Telecom Italia, anche quale incorporante per fusione della TIM, ha proposto un ricorso per cassazione articolato in sedici motivi cui l’U. ha resistito con controricorso; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 3 primo comma lett. b) e 4 secondo comma lett. a) della legge 22-2-2001 n. 36, dell’art. 86 settimo comma del D. LGS. 1-8-2003 n. 259, dell’art. 3 commi 2 e 3 del D.P.C.M. 8-7-2003 e dell’art. 3 del D.M. 10-9-1998 n. 381 nonché contraddittoria motivazione; la società Telecom censura la conferma della sentenza di primo grado, sia pure limitatamente alla rimozione della cella n. 3 della stazione radio base, rilevando che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello, la CTU aveva richiamato valori sensibilmente inferiori al limite di 6 V/m, e solo due volte superiori ad esso; inoltre il rispetto del limite normativo originariamente stabilito dal D.M. n. 381 del 1998 e successivamente ribadito dal D.P.C.M. 8-7-2003 costituiva in sé applicazione del cosiddetto principio di precauzione, escludendo che le emissioni elettromagnetiche in esso contenute potessero costituire illecito.
Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 844-2043 e 2058 c.c, artt. 1 sesto comma lett. a) n. 15 della legge 31-7-1997 n. 249, 3 della legge 22-2-2001 n. 36, 4 del D.M. 10-9-1998 n. 381 e del D.P.C.M. 8-7-2003 nonché omessa e/o contraddittoria motivazione, assume che il giudice di appello ha apoditticamente ritenuto corretta nella specie l’applicazione del principio di precauzione senza minimamente confutare le argomentazioni difensive in senso contrario svolte dall’esponente circa il fatto che un minimo ed episodico superamento del limite di 6 V/m non poteva avere rilevanza in assenza della prova della nocività delle emissioni elettromagnetiche derivanti dalla stazione radio base; ai fini quindi della valutazione della intollerabilità delle immissioni in oggetto il giudicante non aveva contemperato le esigenze della produzione con quelle della proprietà.
Le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, sono infondate.
La Corte territoriale ha attribuito rilevanza al fatto che, in presenza di valori massimi e di valori efficaci dei campi magnetici provenienti dall’edificio di proprietà della Telecom Italia, mediati su ogni sei minuti di rilevamento strumentale, i secondi erano risultati superiori al livello di 6 v/m di presunta pericolosità ex art. 3 del D.M. 10-9-1998 n. 381, ed i primi alla stessa soglia di 41 v/m, ed ha aggiunto che tali valori massimi, pur non avendo avuto carattere di continuità per tutto l’arco temporale dalle ore 10,57 alle ore 11,57 del 27-6-2001, erano stati presenti in ogni frazione di sei minuti, e che la loro durata non era stata irrilevante, in quanto dalla loro media con valori minimi non registrabili strumentalmente, sempre per ogni sei minuti, erano risultati valori efficaci prossimi ed anche superiori ai 6 v/m.
Il convincimento espresso dalla sentenza impugnata è corretto in presenza di una specifica normativa relativa ai valori limite di esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici connessi al funzionamento ed all’esercizio dei sistemi fissi delle telecomunicazioni e radiotelevisivi operanti nell’intervallo di frequenza compresa tra 100 kHz e 300 GHz (vedi art. 1 del D.M sopra richiamato recante norme per la determinazione dei tetti di radiofrequenza compatibili con la salute umana); tale normativa evidenzia che, allo stato delle conoscenze scientifiche, l’esposizione ai campi elettrici e magnetici prodotti da tali sistemi, nell’ipotesi di superamento di determinati limiti massimi, è considerata fonte di possibili effetti negativi sulla conservazione dello stato di salute; avuto riguardo quindi alla fondamentale finalità della prevenzione delle malattie, che è alla base della suddetta normativa, la stessa ha lo scopo di impedire qualsiasi comportamento contrastante, (anche se il rispetto dei limiti previsti non è sufficiente a rendere di per sé lecita la condotta che vi si uniformi in presenza del concreto accertamento di possibili effetti negativi derivanti dalla condotta stessa sulla base di conoscenze scientifiche acquisite nel momento in cui deve essere valutata la situazione del caso concreto, vedi Cass. 27-7-2000 n. 9893).
La richiamata disciplina è quindi riconducibile al principio di precauzione, inteso come punto di riferimento di carattere generale per legittimare l’adozione di misure legislative e/o regolamentari tendenti alla previsione di determinati limiti e modalità in ordine all’esercizio di attività od alla realizzazione di prodotti che possano presentare dei pericoli per la salute sulla base delle conoscenze scientifiche acquisite, operando un contemperamento tra le esigenze della tutela della salute ed altri interessi di carattere economico di volta in volta presi in considerazione; in tal modo il legislatore individua la soglia dei rischi accettabili connessi all’esercizio di tali attività, come nella fattispecie in materia di esposizione ai campi elettromagnetici, con la conseguenza che il superamento dei limiti di volta in volta prefissati comporta una presunzione di pericolosità per la salute umana, e dunque legittima la tutela di tale fondamentale diritto avente valenza costituzionale ai sensi dell’art. 32 della Costituzione.
La sentenza impugnata si è appunto adeguata a tale principio, avendo ritenuto la pericolosità delle immissioni elettromagnetiche provenienti dall’edificio di proprietà dell’attuale ricorrente non anche in assenza del superamento della soglia di attenzione, ma all’esito dell’accertamento di un numero di casi in cui tale superamento era avvenuto sufficiente ad autorizzare, alla luce della disposizione dell’art. 4 secondo comma del D.M. n. 381/1998, secondo cui non devono essere superati “indipendentemente dalla frequenza” i valori di attenzione “mediati su un qualsiasi intervallo di sei minuti”, un giudizio probabilistico del superamento di essi anche in ore ed in giorni diversi da quelli in cui l’accertamento era stato operato; pertanto il rilevato superamento dei valori di attenzione previsti escludeva la possibilità di contemperare le esigenze della proprietà con quelle della produzione per giungere a conclusioni diverse da quelle oggetto di impugnazione.
Con il terzo motivo la Telecom Italia, deducendo violazione e falsa applicazione di tutte le disposizioni di legge già richiamate con il precedente motivo nonché omessa motivazione, sostiene che la sentenza impugnata avrebbe dovuto contemperare la tutela della salute con l’esigenza dell’esponente di continuare ad erogare il servizio radiomobile con tutte le celle costituenti la stazione radio base, e quindi disporre misure parimenti idonee allo scopo, come l’ordine di contenimento delle emissioni elettromagnetiche entro i limiti di legge o la sostituzione dell’impianto con uno dotato di minore impatto visivo o ambientale; inoltre rileva che, in mancanza di una prova concreta del danno, l’U. non avrebbe potuto essere risarcito in forma specifica con la condanna alla rimozione della cella n. 3.
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Sotto un primo profilo si rileva che la ricorrente non ha dedotto di avere richiesto di limitare la tutela invocata dall’U. al contenimento delle emissioni entro i limiti di legge, e comunque la disposta rimozione deve essere intesa con riferimento al solo impianto che determinava il superamento dei valori di attenzione.
Per il resto la censura è infondata, posto che la tutela accordata dall’art. 844 c.c. (ovvero dalla norma che legittima la condanna alla rimozione della cella n. 3) ha natura reale (Cass. S.U. 15-10-1998 n. 10186).
Con il quarto motivo la ricorrente, deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e contraddittoria motivazione, rileva che la Corte territoriale ha reso una errata valutazione ed anzi un travisamento delle risultanze peritali, laddove ha ritenuto che il superamento dei limiti consentiti fosse imputabile al funzionamento della cella n. 3, ed inoltre ha contraddittoriamente disatteso le conclusioni del CTU, secondo cui i valori anomali accertati non potevano essere connessi con i campi elettromagnetici generati con i sistemi di emissione delle antenne TIM, ma erano imputabili a fattori esogeni, riconducibili alla presenza imprevista di un campo elettromagnetico posto nelle immediate vicinanze dello strumento.
La censura è infondata.
La sentenza impugnata ha ritenuto sfornita di qualsiasi riscontro oggettivo l’ipotesi formulata dal CTU a giustificazione della presenza di campi elettrici così elevati, evidenziando che il fenomeno sembrava trovare spiegazione nella relazione dello stesso CTU con riferimento al volume di traffico rilevato nella stessa ora per ciascun sistema di cui era dotata la cella n. 3, avuto riguardo alle tabelle ed ai grafici di cui alle pagine 36-37 e 38 della relazione, da dove era emerso che i suddetti valori si erano verificati in concomitanza con un elevato volume di traffico in relazione ai canali occupati nella stessa ora, ovvero dalle ore 11,00 alle ore 12,00 del 27-6-2001; il giudice di appello ha quindi fornito delle argomentazioni logiche e sufficienti in ordine al suo dissenso dalle vantazioni sul punto espresse dal CTU, ricavandole da elementi emergenti dalla stessa relazione tecnica; tale convincimento è quindi immune di profili di censura sollevati, considerato altresì che il diverso assunto del CTU è riconducibile ad un mero dato ipotetico, come tale non oggetto di alcuna verifica certa.
Con il quinto motivo la Telecom Italia, deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. ed omessa motivazione, rileva che la Corte territoriale non ha esaminato la richiesta della ricorrente di disporre la rinnovazione della CTU per accertare le cause dello sporadico superamento dei valori di emissioni consentite riscontrate dal perito a carico della stazione radio base.
La censura è infondata.
Premesso che la mancata pronuncia su di una istanza istruttoria non integra una violazione dell’art. 112 c.p.c. (posto che tale vizio riguarda l’omessa pronuncia su di una domanda o una eccezione), e può essere censurata solo nella misura in cui si risolve in un vizio di motivazione della sentenza che non l’abbia disposta, si rileva che la sentenza impugnata ha implicitamente disatteso l’istanza di rinnovo della CTU sulla base delle considerazioni già espresse in ordine alla ritenuta esaustività degli accertamenti svolti ai fini del decidere; inoltre la Corte territoriale ha evidenziato che non risultava che il consulente ed i tecnici della TIM avessero sollevato obiezioni o riserve in ordine alla idoneità della strumentazione utilizzata dal CTU e dai suoi collaboratori per i rilievi effettuati.
Con il sesto motivo la ricorrente, denunciando omessa e/o insufficiente motivazione e violazione e falsa applicazione del D.P.R. 6-6-2001 n. 380, della legge 28-2-1985 n. 47 e del D.P.R. 24-7-1977 n. 616, sostiene che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto abusiva la realizzazione del piano attico dell’edificio in questione e la costruzione di un traliccio; invero non è stato considerato che il suddetto intervento, realizzato su area del demanio statale, era stato autorizzato dal Ministero dei Lavori Pubblici del 12-3-1983, emanato d’intesa con il Comune di Roma e la Regione Lazio ai sensi dell’art. 81 del menzionato D.P.R., norma erroneamente disattesa dal giudicante, posto che le centrali telefoniche erano all’epoca opere di interesse statale, e che a quel tempo la SIP era concessionaria del pubblico servizio telefonico; inoltre il traliccio e l’impianto di condizionamento non costituivano una pertinenza della sopraelevazione, ma dell’intero edificio.
Con l’ottavo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 112 c.p.c, omessa e/o insufficiente motivazione e violazione degli artt. 871-872 c.c. e dell’art. 3 paragrafo 8 delle NTA del PRG del Comune di Roma approvate con delibera della Giunta Regionale del Lazio del 22-5-1979 n. 3765.
La Telecom Italia assume che erroneamente il giudice di appello ha ricompreso nell’ambito delle illiceità urbanistiche che avrebbero provocato danno all’U. anche l’installazione sul terrazzo dell’edificio di quattro gruppi refrigeratori e dei relativi pannelli fotoassorbenti, ed ha ritenuto irrilevante la sanatoria intervenuta riguardo all’impianto di condizionamento in questione; rilevato che la sentenza impugnata non aveva esaminato l’appello incidentale con cui l’esponente aveva sostenuto che i detti impianti erano conformi alla normativa sostanziale applicabile alla fattispecie, ed aveva altresì affermato che dette apparecchiature rientravano negli impianti tecnologici al servizio di edifici previsti dall’art. 3 delle suddette NTA, la ricorrente assume che la Corte territoriale avrebbe dovuto esaminare la legittimità o meno delle predette apparecchiature sulla base non di norme di carattere amministrativo, ma soltanto di norme di natura sostanziale richiamate dagli artt. 871 ed 872 c.c..
Le enunciate censure, da esaminare contestualmente in quanto parzialmente connesse, sono fondate.
La sentenza impugnata ha ritenuto il carattere abusivo della realizzazione del piano attico dell’edificio di proprietà della attuale ricorrente rilevando che correttamente il giudice di primo grado aveva disapplicato il D.M. 12-3-1985 del Ministro dei Lavori Pubblici che aveva autorizzato la SIP, dante causa della Telecom Italia, all’aumento di cubatura dell’edificio stesso, in quanto la SIP non poteva essere considerata parte dell’amministrazione statale e, per altro verso, l’immobile di sua proprietà non era qualificabile come demaniale.
Il giudice di appello ha affermato altresì il carattere abusivo dei condizionatori e dei pannelli assorbenti installati sul terrazzo dell’edificio in questione in quanto non compresi nella sanatoria intervenuta in data 26-3-1994.
Orbene, premesso che con riferimento alle suddette realizzazioni è pacifica l’insussistenza di violazioni delle norme sulle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e delle norme integrative di esso, si rileva che, al fine di attribuire una tutela di natura risarcitoria al privato che ai sensi dell’art. 872 c.c. deduca la violazione di norme di edilizia che non riguardino le distanze tra costruzioni, occorre accertare la violazione di norme di tale natura, come ad esempio di quelle previste in tema di altezza e volumetria degli edifici (Cass.7-3-2002 n. 3340; Cass. 31-5-2010 n. 13330); nella fattispecie invece la Corte territoriale non ha proceduto ad un tale fondamentale accertamento, essendosi limitata a verificare l’assenza della licenza o concessione edilizia da parte della Telecom Italia o della sua dante causa SIP riguardo alle suddette opere, trascurando di considerare che nelle controversie tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie non conformi alle prescrizioni di legge o degli strumenti urbanistici locali viene sempre e soltanto in rilievo la lesione di diritti soggettivi attribuiti ai privati dalle norme medesime, anche se trattasi di norme non integrative di quelle dettate dal codice civile in materia di distanze tra le costruzioni, mentre la rilevanza giuridica della concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra l’amministrazione ed il richiedente (Cass. S.U. 12-6-1999 n. 333), con la conseguenza che resta irrilevante la mancanza di licenza o di concessione edilizia qualora la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino (Cass. 30-3-2006 n. 7563).
Pertanto con riferimento alle suddette opere occorre accertare, ai fini della decisione in ordine alle domande dell’U. di natura risarcitoria, se esse siano state realizzate o meno in violazione di norme di edilizia ai sensi dell’art. 872 c.c..
Con il settimo motivo la Telecom Italia deduce omessa o carente motivazione e violazione o falsa applicazione degli artt. 817-872 e 873 c.c, 4 della L. 28-2-1985 n. 47, 2 del D.P.R. 6-6-2001 n. 380, 1 e 2 del D. LGS. 23-1-1982 n. 9, 48 della L 5-8-1978 n. 457, 2 del D.P.R. 19-9-1997 n. 318, 231 del D.P.R. 29-3-1973 n. 156, 4 della L. 31-7-1997 n. 249 e 19 del Regolamento Edilizio del Comune di Roma approvato con delibera n. 5261 del 18-8-1934.
La ricorrente rileva che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello, il traliccio porta -antenne non configurava una costruzione in senso tecnico, e quindi non era soggetto alla normativa di carattere urbanistico, potendo essere realizzato con una semplice autorizzazione, come prescritto dall’art. 7 del D.L. 23-1-1982 n. 9; per le stesse ragioni non poteva applicarsi nella fattispecie l’art. 19 del Regolamento Edilizio del Comune di Roma.
La censura è infondata.
La sentenza impugnata ha escluso che il traliccio in oggetto potesse essere configurato una pertinenza dell’edificio sul quale era stato installato, essendo caratterizzato da un’altezza, una consistenza ed un impatto ambientale superiori all’edificio stesso; inoltre ha rilevato che il traliccio, in considerazione della sua altezza, non rispettava la distanza dagli edifici come disciplinata dall’art. 19 del Regolamento Edilizio del Comune di Roma, norma che, disciplinando il “distacco” tra edifici, regolava l’altezza degli edifici non in assoluto, ma in rapporto alla distanza degli edifici e, quindi, doveva ritenersi integrativa dell’art. 873 c.c..
Tale convincimento deve essere condiviso.
Deve invero rilevarsi che ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative la nozione di “costruzione” comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo, e che si è ritenuto che integrasse la nozione di “costruzione”, ai predetti fini, un traliccio metallico alto oltre trenta metri con annessa cabina, destinata alla diffusione radiomobile (Cass. 27-10-2008 n. 25837); di conseguenza il traliccio in questione, definito quale costruzione in relazione alle sue caratteristiche strutturali, era soggetto all’osservanza delle menzionate norme del Regolamento Edilizio di Roma integrative di quelle codicistiche in materia di distanze, norme che invece non erano state rispettate.
Si deve comunque osservare che la soggezione ad autorizzazione gratuita, e non a concessione, ai sensi dell’art. 7 secondo comma lett. a) del D.L 23-1-1982 n. 9 convertito in L. n. 94 del 1982, concerne le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici di edifici già esistenti, e che il concetto di pertinenza urbanistica, rilevante al fine di fruire del regime di autorizzazione edilizia prevista dalla suddetta norma, differisce da quello di cui all’art. 817 c.c., in quanto esso è caratterizzato sia da un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè da un nesso che non consenta, per natura e struttura dell’accessorio, altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, sia dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui inerisce, per cui soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un’opera di rilevanti dimensioni che modifica l’assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla “res principalis”, indipendentemente dal vincolo di servizio o d’ornamento nei riguardi di essa (Cons. di Stato 2-2-2012 n. 615).
Infine deve rilevarsi che il suddetto traliccio non era un accessorio dell’edificio su cui era stato installato, ma uno strumento dell’attività industriale che in esso si svolgeva.
Con il nono motivo la ricorrente, deducendo violazione dell’art. 112 c.p.c., omessa o insufficiente motivazione e violazione e falsa applicazione dell’art. 9 dodicesimo comma del D.L. 25-3-1996 n. 154 e dell’art. 13 della legge 28-2-1985 n. 47, rileva che la Corte territoriale non ha esaminato il motivo di appello con il quale l’esponente aveva affermato di aver presentato ex art. 9 sopra menzionato una denuncia di esecuzione di opere di manutenzione straordinaria per adeguamento tecnologico al piano di copertura dell’edificio comprendente tra l’altro la realizzazione di una nuova e differente installazione dei gruppi refrigeratori.
Tale motivo resta assorbito all’esito dell’accoglimento dell’ottavo motivo di ricorso.
Con il decimo motivo la Telecom Italia, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. 24-7-1977 n. 616, assume che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che l’atto d’obbligo con il quale la SIP si era impegnata a destinare una parte del piano terreno a garage avrebbe potuto essere disatteso legittimamente soltanto in presenza di una nuova espressa volontà in tal senso da parte del Comune di Roma; in tal modo non è stato considerato che il provvedimento autorizzatorio ex art. 81 del D.P.R. n. 616/1977 aveva sostituito il precedente atto d’obbligo, con la conseguente perdita di efficacia anche della parte di quest’ultimo avente ad oggetto la destinazione a garage.
La censura è fondata.
La sentenza impugnata ha affermato, con riferimento al mutamento di destinazione del locale garage ed alla conseguente totale soppressione dell’area destinata a parcheggio, che sarebbe occorsa una delibera del Comune per modificare l’atto d’obbligo assunto dalla SIP, e che l’obbligo di riservare spazi a parcheggio era previsto dagli artt. 17 e 18 della L 6-8-1967 n. 765.
In proposito deve rilevarsi che la convenzione stipulata tra un Comune ed un privato costruttore con la quale questi, al fine di conseguire il rilascio di una concessione o di una licenza edilizia, si obblighi ad un “facere” o a determinati adempimenti nei confronti dell’ente pubblico (quale, ad esempio, la destinazione di un’area ad uno specifico uso) non costituisce un contratto di diritto privato, né ha specifica autonomia e natura di fonte negoziale del regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, configurandosi come atto intermedio del procedimento amministrativo volto al conseguimento del provvedimento finale, dal quale promanano poteri autoritativi della Pubblica amministrazione; ne consegue che l’atto d’obbligo non può qualificarsi come contratto a favore di terzi ai sensi dell’art. 1411 c.c. (Cass. 23-2-2012 n. 2742); inoltre l’elusione del vincolo di destinazione dell’area di parcheggio ai sensi dell’art. 41 “sexies” della legge n. 1150 del 1942 comporta un danno risarcibile a favore dei soggetti privati del diritto di godimento dell’area di parcheggio loro attribuito da una norma pubblicistica incidente sul regime della proprietà privata (Cass. 4-2-2000 n. 1248), ovvero dei proprietari di unità immobiliari comprese all’interno dell’edificio condominiale, e non a favore di terzi non proprietari di tali immobili, come appunto l’U. .
Con l’undicesimo motivo la ricorrente, deducendo violazione degli artt. 872-2043 e 2058 c.c. nonché omessa ed insufficiente motivazione, sostiene che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la permanenza di parte del traliccio, comunque abusiva, rendeva superfluo l’esame del motivo di gravame relativo alla incompatibilità della condanna al risarcimento del danno con quella avente ad oggetto la rimozione dell’intero traliccio; infatti, una volta disposta la parziale riduzione in pristino della stazione radio base per cui è causa, non restava uno spazio per ravvisare ancora un illecito, fonte di una obbligazione risarcitoria per equivalente.
La censura è fondata.
Il giudice di appello ha ritenuto che la permanenza di parte del traliccio rendeva superfluo l’esame del motivo di impugnazione relativo alla incompatibilità della condanna al risarcimento del danno con quella alla rimozione dell’intero traliccio.
Tale convincimento non tiene conto che l’unica violazione accertata delle norme edilizie era quella relativa all’altezza del traliccio, e che a seguito della condanna alla riduzione di tale altezza nei limiti ritenuti conformi al Regolamento Edilizio del Comune di Roma, avrebbe dovuto essere liquidato soltanto il danno relativo al periodo intercorrente tra la costruzione del traliccio e la sua normalizzazione.
Con il dodicesimo motivo la Telecom Italia, denunciando violazione degli artt. 2697-2056-1223 1226 c.c. nonché omessa pronuncia, assume che non era stato esaminato il motivo di appello con il quale si era dedotta la totale mancanza di prova del pregiudizio patrimoniale asseritamente subito dalla controparte per effetto delle opere realizzate dall’esponente ritenute abusive; inoltre, ai fini dell’accertamento della lamentata violazione del valore di mercato dell’immobile, sarebbe stato essenziale conoscerne il prezzo d’acquisto e farne valutare da un perito il valore attuale.
Con il tredicesimo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 872-2043 e 2059 c.c., rileva che il giudice di appello erroneamente ha riconosciuto alla controparte il risarcimento di un danno per la ridotta possibilità di fruizione del panorama; infatti, subordinatamente a quanto già rilevato nel precedente motivo di ricorso, la ricorrente osserva che, non avendo l’U. allegato una intenzione di vendita dell’immobile di sua proprietà, allo stesso era stato accordato il risarcimento di un danno non patrimoniale in difetto dei presupposti previsti dal’art. 2059 c.c..
Entrambe le enunciate censure restano assorbite dall’accoglimento del sesto e dell’ottavo motivo di ricorso, in quanto soltanto all’esito dell’accertamento della violazione di norme di natura edilizia può essere riconosciuto un danno conseguente ad un deprezzamento dell’immobile di proprietà dell’U. .
Con il quattordicesimo motivo la Telecom Italia, deducendo omessa e/o insufficiente motivazione, censura la sentenza impugnata, quanto alla liquidazione del danno per il mutamento di destinazione del garage, per aver affermato che l’asservimento di aree private a parcheggio in conformità della normativa di cui alla legge ponte è finalizzata ad assicurare una maggiore disponibilità di spazi pubblici; invero la presenza di un garage non obbliga il proprietario ad utilizzarlo.
La censura è fondata.
Il convincimento della Corte territoriale sopra enunciato, oltre a non superare gli assorbenti rilevi già esposti in sede di esame del decimo motivo, non è idoneo a spiegare come l’intasamento degli spazi pubblici per effetto del parcheggio delle autovetture possa incidere sul valore di un immobile vicino, posto che il proprietario del garage non ha l’obbligo di utilizzarlo.
Con il quindicesimo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 844 c.c. ed omessa e/o insufficiente motivazione, rileva che erroneamente la sentenza impugnata ha affermato che la possibilità dell’entrata in funzione del quarto gruppo refrigeratore, affidato alla discrezionalità della società proprietaria, era oggettivamente idonea a determinare immissioni sonore oltrepassanti la soglia della tollerabilità; invero per l’applicabilità dell’art. 844 c.c. non è sufficiente l’astratta possibilità di immissioni moleste, ma è necessaria l’attualità o almeno la seria probabilità del loro verificarsi.
La censura è infondata.
Il giudice di appello ha ritenuto che la possibilità dell’entrata in vigore del gruppo refrigeratore GF1, affidato alla discrezionalità della società proprietaria, era oggettivamente idonea a determinare immissioni oltrepassanti la soglia della tollerabilità e che, ai fini dell’operatività del divieto di immissioni nocive, non era necessario che esse si fossero già verificate laddove, come nella specie, fosse stata accertata l’idoneità della loro fonte a produrle.
Orbene tale statuizione, basata sulla eventualità della messa in funzione da parte dell’appellante del suddetto gruppo refrigeratore già ritenuto idoneo alla produzione di immissioni oltre i limiti di tollerabilità, è frutto di un accertamento di fatto sulla concreta ed effettiva possibilità di un tale evento sorretto da logica e sufficiente motivazione, come tale incensurabile in questa sede.
Con il sedicesimo motivo la ricorrente, deducendo violazione dell’art. 844 c.c. ed omessa e/o insufficiente motivazione, censura la sentenza impugnata per aver disposto la rimozione del gruppo refrigeratore contraddistinto con la sigla GF1 trascurando completamente gli interessi dell’esponente che, per avere la sicurezza di poter gestire il servizio telefonico, aveva la necessità di un gruppo di riserva da mettere in azione per il caso di avaria degli altri, senza quindi contemperare gli opposti interessi.
La censura è infondata.
Il giudice di appello ha affermato che gli inconvenienti prospettati dall’appellante in ordine alla rimozione del gruppo refrigeratore GF1 potevano essere scongiurati anche dall’installazione di gruppi frigoriferi del tipo ELN di minore rumorosità, così come indicato nella prima relazione del CTU; pertanto sono state così contemperate le esigenze della Telecom Italia con quelle della controparte ai sensi dell’art. 844 c.c., considerato d’altra parte che la valutazione di tale contemperamento deve essere operata tenendo conto che il limite della tutela della salute è intrinseco nell’attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, dovendosi ritenere prevalente rispetto alle esigenze della produzione il soddisfacimento ad una normale qualità della vita; pertanto il suddetto contemperamento può avvenire soltanto adottando quei rimedi tecnici che consentano l’esercizio dell’attività produttiva nel rispetto del diritto dei vicini a non subire immissioni superiori alla normale tollerabilità (Cass. 8-3-2010 n. 5564), come appunto nella fattispecie.
In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, e la causa deve essere rinviata per un nuovo esame delle questioni oggetto dei motivi sesto ed ottavo nonché per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

P.Q.M.

La Corte accoglie il sesto, l’ottavo, il decimo, l’undicesimo ed il quattordicesimo motivo di ricorso, dichiara assorbiti il nono, il dodicesimo ed il tredicesimo, rigetta tutti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa per un nuovo esame delle questioni oggetto del sesto e dell’ottavo motivo nonché per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

Redazione