Subordinazione di un rapporto autonomo: scatta anche senza controllo del datore se le mansioni sono semplici

Redazione 08/07/13
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Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Palermo, parzialmente riformando la sentenza impugnata, accoglieva la domanda del lavoratore in epigrafe, proposta nei confronti della società Agenzia Ippica del Centro, avente ad oggetto, previo riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con detta società, la condanna della stessa al pagamento di differenze retributive e la declaratoria di nullità del licenziamento intimato oralmente con condanna al pagamento del conseguenziale risarcimento del danno.

A fondamento del decisum la Corte del merito, innanzitutto, rilevava che l’istruttoria espletata dimostrava la sussistenza della sottoposizione al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro sicchè poteva ritenersi la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato.

Quanto alle reclamate differenze retributive la Corte territoriale assumeva che queste trovavano fondamento nei turni settimanali di lavoro predisposti dalla società e nelle dichiarazioni dei testi.

Circa, poi, la dedotta mancata messa a disposizione delle proprie energie lavorative da parte del lavoratore dopo il licenziamento, riteneva la Corte che tanto rilevava nel senso, anche a norma dell’art. 1227 c.c., che andavano riconosciute le retribuzioni maturate dalla data di notifica del ricorso di primo grado essendosi solo da questa data verificata la mora accipiendi del datore di lavoro.

Quanto, infine, all’aliud perceptum la Corte del merito, sul presupposto che il lavoratore non aveva mai negato di aver prestato – nelle more – altra attività lavorativa, procedeva alla relativa deduzione.

Avverso questa sentenza la società ricorre in cassazione sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata che propone a sua volta impugnazione incidentale assistita da due censure.

Motivi della decisione

I ricorsi vanno preliminarmente riuniti riguardando la impugnazione della stessa sentenza.

Con il primo motivo del ricorso principale la società deduce violazione “dell’art. 2094 c.c., e art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per aver la Corte ignorato, nella qualificazione, del rapporto come di lavoro subordinato, i presupposti necessari del relativo vincolo e comunque omesso di motivare, nella ricostruzione delle caratteristiche del rapporto, sugli elementi di prova decisivi prospettati dalla Agenzia Ippica”.

Sostiene in particolare la società che, nella specie, manca l’elemento fondamentale della subordinazione rappresentato dall’obbligo di continuativa messa a disposizione del datore di lavoro, durante l’orario di lavoro, delle energie lavorative senza possibilità di discrezionale rifiuto immotivato.

Essenziale, dunque, afferma la società, sarebbe stato l’accertamento dell’obbligo di presenza quotidiana o secondo scansioni temporali fissate dal datore di lavoro.

Nè, afferma la società, la Corte del merito tiene conto delle specifiche e contrarie prove che erano state indicate nell’atto di appello.

Neppure, sottolinea la ricorrente, la Corte palermitana rileva la totale assenza di prova del potere disciplinare.

La censura è infondata.

Preliminarmente va rilevato che questa Corte, sulla premessa che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, afferma che l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività di impresa (tra le numerose decisioni(V. Cass. 3 aprile 2000 n. 4036; Cass. 9 gennaio 2001 n. 224; Cass. 29 novembre 2002, n. 16697;Cass. 1 marzo 2001, n. 2970, Cass. 15 giugno 2009 n. 13858 e Cass. 19 aprile 2010 n. 9251).

Viene, però, precisato,in tale pronunzie che l’esistenza del vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito; e, proprio in relazione alle difficoltà che non di rado si incontrano nella distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato alla luce dei principi fondamentali ora indicati, si è asserito che in tale ipotesi è legittimo ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di seguito.

E’ stato, di conseguenza enucleata la regula iuris – che va in questa sede ribadita – secondo la quale, nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all’opposto, nel caso di prestazioni lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto intellettuale e creativo, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiar, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.

A tali principi la Corte del merito si è attenuta in quanto, sulla premessa che il lavoratore in causa era addetto a mansioni ripetitive e che tali mansioni, una volta ricevute le istruzioni iniziali, non richiedevano ulteriori direttive e controlli, ha dato rilievo, ai fini di cui trattasi, alle risultanze istruttorie dalle quali emergeva che: i turni settimanali erano predisposti dalla società, ancorchè sulla scorta delle disponibilità inizialmente manifestate dal prestatore di lavoro; una volta predisposti i turni il lavoratore era tenuto a rispettarli e non poteva allontanarsi senza essere autorizzato; in caso d’indisponibilità il lavoratore doveva avvertire preventivamente il preposto; il lavoro veniva svolto nei locali dell’agenzia con l’uso di beni aziendali secondo orari predeterminati; il compenso corrisposto era fisso, senza che vi fosse alcun riferimento al risultato della prestazione; non vi era alcun rischio economico da parte del lavoratore.

E’, quindi, corretta l’affermazione della Corte del merito secondo la quale il rapporto era connotato dal requisito della subordinazione, intesa come sottoposizione del lavoratore al potere organizzativo, di controllo e, all’occorrenza, disciplinare da parte del datore di lavoro non ravvisandosi, peraltro, nelle modalità delle prestazioni lavorative come sopra effettuate margini di autonomia.

Nè e vale la pena di sottolinearlo il mancato esercizio del potere disciplinare è indice di per sè di assenza di potere disciplinare.

D’altro canto in ordine alla valutazione delle emergenze istruttorie non vi è motivazione illogica o non formalmente coerente o, ancora inadeguata, sicchè anche sotto tale aspetto la censura è infondata, non potendo, in tale ambito, il controllo devoluto a questo giudice di legittimità andare oltre.

Con la seconda critica del ricorso principale la società, denunciando violazione dell’art. 36 Cost., e della L. n. 604 del 1966, e L. n. 300 del 1970, rileva che dall’accoglimento del primo motivo – sulla natura non subordinata del rapporto di lavoro – deriva l’inapplicabilità della garanzia costituzionale di cui alla denunciata norma e delle leggi poste a tutela del lavoratore per il caso di licenziamento illegittimo.

La critica, atteso il rigetto del primo motivo, rimane assorbita.

Con il terzo motivo del ricorso principale la società ricorrente, allegando omessa ed insufficiente motivazione su “punto” decisivo della controversia, evidenzia l’erroneità della sentenza impugnata in punto di accertamento del tempo della prestazione lavorativa ed in particolare rileva l’inattendibilità di un teste.

Il motivo è infondato. Va premesso che costituisce principio del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) (in tal senso Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267, Cass. 27 luglio 2008 n.2049 e, da ultimo, Cass. 25 maggio 2012 n. 8298).

In tale ottica si è ribadito da questa Corte che la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono, pertanto, risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito (Cass. 30 marzo 2007 n. 7972).

Neppure, si è ulteriormente rimarcato, il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5); in caso contrario, questo motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 20 aprile 2006 n. 9233).

Sulla base di tali principi non può trovare ingresso in questa sede la censura in esame che, a fronte di una valutazione delle risultanze istruttorie sorretta da congrua motivazione, la quale da conto del percorso logico seguito per addivenire all’accertamento dell’orario di lavoro osservato, mira sostanzialmente a meramente contestare, e la scelta del giudice del merito, tra le complessive risultanze del processo, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, e la concludenza delle emergenze valutate.

Con il primo motivo del ricorso incidentale il lavoratore deduce violazione dell’art. 112 c.p.c., artt. 1362 e 1365 c.c., travisamento dei fatti, violazione dell’art. 24 Cost., art. 1227 c.c., e art. 416 c.p.c., nonchè omessa motivazione su “punto” decisivo.

Prospetta il ricorrente sostanzialmente che la Corte del merito ha errato nell’interpretare il terzo motivo dell’appello della società dove il mero riferimento alla mancata messa a disposizione delle prestazioni lavorative veniva in rilevo quale indicatore di una presunta carenza probatoria.

Assume, poi, il ricorrente incidentale che la Corte non ha tenuto conto che con atto del 15 settembre 2001 impugnandosi il licenziamento venne manifestata la volontà di proseguire il rapporto di lavoro con esclusione, quindi, di ogni colpevole inerzia.

La censura non è esaminabile.

Infatti il ricorrente incidentale pur lamentando l’erronea interpretazione dell’atto di appello e la mancata considerazione di un documento, omette del tutto, in violazione del principio di autosufficienza, di trascrivere nel ricorso il testo e dell’atto di appello e del documento mal considerato (V. Cass. 12 ottobre 1998 n. 10101 e Cass. 25 settembre 2002 n. 13945 nonchè Cass. 19 maggio 2006 n. 11886).

Nè tale ultimo documento risulta depositato secondo quanto stabilito, a pena d’improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, così come modificato dal D.Lgs. del 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7, applicabile ratione temporis.

Con la seconda censura del ricorso incidentale il lavoratore assume violazione dell’art. 112 c.p.c.,travisamento dei fatti,violazione degli artt. 345, 414, 416, 420 e 437 c.p.c., nonchè omessa motivazione su “punto” decisivo.

Sostiene al riguardo il ricorrente incidentale che la deduzione da parte della società dell’aliunde perceptum è tardiva, sicchè la Corte del merito non poteva pronunciarsi sulla questione.

Nè, aggiunge, la circostanza di non voler accettare il contraddittorio equivale ad ammissione sull’avvenuta percezione di altri redditi da lavoro.

La censura alla luce della giurisprudenza di questa Corte è infondata.

E’ principio di diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di risarcimento del danno dovuto al lavoratore l’eccezione, con la quale il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte. Pertanto, allorquando vi è stata allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trame d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass. 26 ottobre 2010 n. 21919).

A tale regula iuris il giudice di appello si è attenuto traendo dalla mancata negazione, da parte del lavoratore, e, quindi, dal silenzio della parte interessata, il convincimento della avvenuta corresponsione di altri redditi tali da incidere sulla quantificazione del danno.

In conclusione i ricorsi vanno rigettati.

La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi li rigetta e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 maggio 2013.

Redazione