Studi di settore: non si possono applicare all’impresa in difficoltà finanziaria (Cass. n. 27166/2013)

Redazione 04/12/13
Scarica PDF Stampa

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

R.M. e M.G. proponevano ricorso dinanzi alla CTP di Lecco avverso l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate di Lecco, sulla base dei parametri di cui al DPCM 29-1-1996 (come modificato dal DPCM 27-3-1997, ai sensi dell’art. 3, commi 181 e 183, L. 549/1995), aveva rilevato per l’anno 1996 uno scostamento di euro 11.208,14 tra quanto dichiarato e quanto risultante dai detti parametri, rideterminando di conseguenza il reddito da lavoro autonomo dei detti contribuenti.
A sostegno del ricorso adducevano, tra l’altro, lo scarso rendimento deil’impresa, costituita da due esercizi commerciali di ristorazione.
L’adita CTP rigettava il ricorso.
Con sentenza depositata il 27-7-2006 la CTR Lombardia, in accoglimento dell’appello dei contribuenti, riformava l’impugnata decisione; in particolare la CTR evidenziava che quest’ultimi, sin dal primo grado, avevano fornito elementi indiziari di indubbia gravità e concordanza, idonei come tali a contrastare l’applicazione dei parametri; nello specifico, riteneva chiaro indice di difficoltà finanziaria la documentata circostanza che le unità immobiliari destinate agli esercizi commerciali in questione, ed altre unità immobiliari, fossero state oggetto di esecuzione forzata, evidentemente a causa del mancato pagamento di alcune rate di mutuo; riteneva, invece, non significativi al riguardo, in senso contrario, né il constatato aumento (da un anno all’altro) del costo del venduto né il fatto che i due locali fossero aperti da diversi anni.
Avverso detta sentenza proponevano ricorso per Cassazione il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate, affidato a due motivi; i contribuenti non svolgevano attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti, deducendo -ex art. 360 n. 3 cpc- violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 181, L. 549/95, rilevava che detta norma spostava sul contribuente l’onere probatorio di dimostrare che il reddito effettivamente perseguito era inferiore a quello risultante dall’applicazione dei parametri; nel caso di specie, invece, nulla in senso contrario ai parametri era stato dimostrato dai contribuenti ed il Giudice aveva sostituito le risultanze dell’accertamento con proprie valutazioni di fatto (inerenti l’aumento da un anno all’altro- del costo del venduto ed il fatto che i due locali fossero aperti da diversi anni).
Il motivo è infondato.
Siffatto motivo, invero, in primo luogo non coglie la ratio decidendi dell’impugnata statuizione, che, come sopra evidenziato, ha ritenuto valida la giustificazione addotta dai contribuenti (scarso rendimento dell’impresa nel periodo considerato, a causa di difficoltà finanziarie) non per le su esposte “valutazioni di fatto”, ma perché ha riscontrato la effettiva sussistenza delle denunciate “difficoltà finanziaria” attraverso la prodotta documentazione attestante che le unità immobiliari destinate agli esercizi commerciaii ove si svolgeva l’attività in questione (ed altre unità immobiliari) erano state “oggetto di esecuzione forzata portata a termine con decreti di trasferimento e precetti per rilascio, a seguito di pignoramento promosso dal Credito Fondiario C.”.
Il motivo è, comunque, infondato anche nel merito.
Per costante e condiviso principio di questa S.C., invero, “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la speciñca realtà dell’attività economica nei periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità delfaccertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (Cass. Sez. Unite 26635/2009; conf., tra le tante altre successive, Cass. 12558/2010 e Cass. 13594/2010).
Nel caso di specie la CTR ha fatto, nel complessop corretto uso di tali principi, esaminando (come su precisato) in concreto la specifica situazione del contribuente sulla base delle giustificazioni dallo stesso presentate, e ritenendo che la stessa fosse idonea a contrastare l’applicazione dei parametri.
ll secondo motivo, con il quale i ricorrenti deducevano -ex art. 360 n. 5 cpc- motivazione insufficiente e, in particolare, rilevavano che l’onere motivazionale era stato assolto solo in apparenza, è inammissibile, e, comunque, infondato.
La complessiva doglianza è, infatti, materialmente priva del “momento di sintesi”, richiesto in tutte le ipotesi di vizio sussumibile nel n. 5 dell’art. 360 c.p.c.; ed invero, per costante e condiviso principio di questa Corte, nel caso previsto dall’articolo 360, primo comma, n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo del ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, sia la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, sia le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, sia un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), e cioè un’indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo e che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità; ciò anche quando l’indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della formulata censura, attesa la “ratio” che sottende la disposizione indicata, associata alle esigenze dellattive del filtro di accesso alla S.C., la quale deve essere posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito.
Il motivo è, comunque, infondato, atteso che, come sopra già evidenziato, la CTR ha ben motivato il suo convincimento in ordine alla sussistenza ed alla validità delle giustificazioni addotte dai contribuenti al fine di superare il dato risultante dalla mera applicazione dei parametri.
Alla stregua di quanto sopra, pertanto, il ricorso va rigettato.
Nulla per le spese, non avendo i contribuenti svolto in questa sede attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma in data 27-6-2013 nella Camera di Consiglio della quinta sez. civile.

Redazione