Studi di settore: applicabili anche a chi svolge l’attività professionale come secondo lavoro (Cass. n. 19710/2013)

Redazione 28/08/13
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso proposto dinanzi alla CTP di Avellino B. G., di professione geometra, impugnava l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate di ****** lrpino, in applicazione dei parametri di cui al DPCM 29-1-1996 (come modificato dal DPCM 27-3-1997}, aveva rìdeterrninato il reddito dichiarato per l’anno 1996 (da una perdita di lire 830.000 a maggiori compensi per lire 24.894.000), con conseguenti maggiori imposte IRPEF, IVA, CSSN e contributo straordinario per l’Europa.
L’adita CTP accoglieva il ricorso.
Con sentenza depositata il 31-1-2006 la CTR di Napoli, sez. distaccata di Salerno, in parziale accoglimento dell’appello deIl’Ufficio, determinava un reddito di euro 3.500,00; in particolare la CTR riteneva innanzitutto legittimo il DPCM in questione, in quanto lo stesso non aveva natura intrinseca di regolamento e quindi non doveva essere munito del previsto parere del Consiglio di Stato; rilevava, inoltre, nel merito, che nel ricorso introduttivo il contribuente, dopo avere precisato di essere divenuto sin dal 1991 lavoratore dipendente, avere sostenuto di avere mantenuto la titolarità della partita IVA solo per la riscossione di crediti pregressi ed aveva dichiarato che nell’anno 1996 aveva sostenuto spese per lire 1.540.000 a fronte di riscossioni per compensi di lire 840.000; ciò posto, non sembrava alla CTR “ragionevolmente plausibile”, anche perchè il contribuente non aveva dato al riguardo giustificazioni, mantenere la partita IVA ed adempiere all’onere della dichiarazione dei redditi solo per riscuotere i crediti pregressi e per conseguire una perdita; concludeva che, tuttavia, essendo il contribuente lavoratore dipendente, l’attività di lavoro autonomo era comunque marginale e secondaria, sicchè poteva equamente attribuirsi allo stesso un reddito da lavoro autonomo di euro 3.500,00.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione ii contribuente, affidato a tre motivi; resisteva con controricorso l’Agenzia.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il contribuente, deducendo “violazione e falsa applicazione della L. 549/95 n. 3 comma 186, adottata nel rispetto della L. 23-8-1988 n. 400 art. 17”, nonchè omessa, insufficiente e contradditoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 cpc), rilevava che il DPCM in questione era atto di normazione secondaria e, come tale, doveva essere adottato nel rispetto della procedura di cui al citato art. 17, e quindi essere preceduto dal parere del Consiglio di Stato.
Siffatto motivo è infondato.
Per consolidata e condivisa giurisprudenza di questa S.C., invero, “in tema di accertamento tributario, il D.P.C.M. 29 gennaio 1996 (sulla “Elaborazione dei parametri per la determinazione di ricavi, compensi e volume d’affari sulla base delle caratteristiche e delle condizioni di esercizio sull’attività svolta”, determinati ai sensi dell’art. 3, comma 181, della legge 28 dicembre 1995, n. 549) non viola l’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, per essere stato emanato senza il parere preventivo del Consiglio di Stato, in quanto non è un atto di natura regolamentare – né attuativo di legge, ai sensi dei primo comma, né delegificante, ai sensi del comma 2 -, non essendo espressione di una potestà normativa, secondaria rispetto a quella legislativa, attribuita all’amministrazione, e non disciplina in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma è solo un provvedimento amministrativo a carattere generate, in quanto espressione di una semplice potestà amministrativa, essendo rivolto alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili” (Cass. 16055/2010; v. anche 17086/2012; 27656/2008).
Con il secondo motivo il contribuente, deducendo -ex art. 360 n. 3 cpc- violazione e falsa applicazione dell’art. 3, commi 179-189 della L. 549/95, rilevava che con i parametri il legislatore ha precostituito una presunzione iuris tantum di maggior reddito, ponendo a carico del contribuente l’onere di provare ché, nel caso concreto, il risultato doveva essere diverso da queilo ottenuto con l’utilizzo dei parametri stessi; nella fattispecie in esame il contribuente aveva allegato e comprovato una molteplicità di elementi tali da giustificare, nella concreta situazione personale, lo scostamento dai parametri e la loro non applicazione (ridotta attività professionale nel corso del periodo d’imposta considerato; in particolare: esercizio di attività marginale e sussidiaria svolta esclusivamente per il recupero dei credito, progressiva riduzione del reddito nel corso degli anni e cessazione dell’attività dopo pochi anni dall’avvio).
Con il terzo motivo il contribuente, deducendo -ex art. 360 n. 5 cpc- omessa, insufficiente e contradditoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, rilevava che la CTR, pur avendo affermato che l’attività di lavoro autonomo svolta da esso contribuente era marginale e secondaria in quanto lo stesso era lavoratore dipendente, gli aveva attribuito “equamente” un reddito da lavoro autonomo, applicando, per la determinazione del detto reddito da lavoro autonomo, i coefficienti presuntivi di cui ai parametri, coefficienti elaborati con riferimento si all’attività di un lavoratore medio, ma comunque in via principale ed esclusiva; sosteneva, inoltre, che in tema di IVA non era consentito far ricorso a criteri di equità.
I motivi, da esaminarsi congiuntamente in quanto tra loro collegati, sono infondati.
Per condiviso principio di questa Corte “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbiigatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha i’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione deil’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” presceito e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” ai caso concreto, da dimostrarsl daIl’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla soia base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (Cass. sez. unite 26635/2009).
La CTR ha fatto corretto uso di tali principi valutando proprio la specifica e concreta condizione del contribuente e le ragioni dallo stesso addotte per giustificare lo scostamento (v. valutazione della situazione contabile e giudizio di non plausibilità); la stessa CTR ha affermato, poi, proprio in esito a tale valutazione, che “l’attività di lavoro autonomo svolta dal contribuente è marginale e secondaria (perché lavoratore dipendente)” e che quindi allo stesso può essere attribuito “equamente” un reddito di lavoro autonomo di euro 3.500,00.
Siffatta “rideterminazione” del reddito, da non confondere con la c.d. “equità sostitutiva” (che è consentita nei soli casi previsti dalla legge ed attribuisce ai giudice il potere di prescindere nella fattispecie dal diritto positivo: Cass. 4442/2010), è pienamente legittima (anche in materia di IVA, non essendovi specifiche ragioni in contrario} ed anzi imposta al giudice tributario dalla natura del relativo giudizio, il quale, come è noto, non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento”, ma tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio, ed impone quindi ai giudice tributario di esaminare nei merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (conf. Cass. 13034/2012); ciò anche in attuazione del principio della flessibilità degli strumenti presuntivi, che trova origine e fondamento nell’art. 53 Cost., non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere dalla capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica (conf. Cass. 2411/2006); nel caso di specie, pertanto, la CTR, desi dalle risultanze processuali lo svolgimento, da parte del contribuente, di una ridotta e marginale autonoma attività professionale, correttamente non ha annullato in toto l’accertamenlno fondato sui parametri (che presupponevano ovviamente lo svolgimento, dal punto di vista quantitativo, di urfordinaria attività professionale), ma, in applicazione dei su riportati principi, ha rideterminato equamente il reddito, tenendo presente lo svolgimento ridotto dell’attività professionale.
In conclusione, pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese di lite relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento dei compensi di lite relativi al presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 2.500,00, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma in data 31-1-2013 nella Camera di Consiglio della sez. tributaria.

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