Spese di giustizia: nessuna remissione per l’avvocato che possiede anche terreni (Cass. pen. n. 17633/2013)

Redazione 17/04/13
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Ritenuto in fatto

1. — Con ordinanza deliberata in data 23 aprile 2012, il Magistrato di Sorveglianza di Roma rigettava l’istanza avanzata nell’interesse di F.S. volta a ottenere la remissione del debito ai sensi del DPR 30 maggio 2002, n. 115, relativamente all’importo di Euro 300.468,57 dovute per spese di giustizia.
Il giudice argomentava la propria decisione rilevando che non solo non emergevano prove di una totale indigenza del richiedente, ma al contrario si potevano cogliere indici di una certa agiatezza per il fatto che il F. disponeva di un’attività lavorativa idonea a garantirgli una certa agiatezza (avvocato) e che il medesimo è intestatario di beni immobili come attestato dalla visura della Guardia di Finanza.
2. — Avverso il citato provvedimento, tramite il proprio difensore, ha interposto tempestivo ricorso per cassazione F.S. chiedendone l’annullamento per violazione di legge e vizi motivazionali. In particolare venivano sviluppati dal ricorrente tre motivi di gravame:
a) con il primo motivo di doglianza veniva rilevata la violazione dell’art. 6 D.P.R. 115/2002, art. 606 comma primo lett. b) cod. proc. pen.; erroneamente il giudice, dopo aver riconosciuto la sussistenza del requisito della condotta regolare ha tuttavia negato la rilevanza delle disagiate condizioni economiche ritenendo che le stesse non fossero “gravi”, qualità non richiesta dalla legge. Inoltre il giudice non motiva In merito al dato reddituale accertato anche in rapporto all’ammontare del debito, ma fa riferimento a mere presunzioni e a inconsistenti prospettive di reddito non tenendo peraltro conto dell’impatto del debito sulle condizioni future di vita del condannato;
b) con il secondo motivo di doglianza veniva rilevata la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione adottata dal Magistrato di Sorveglianza in relazione al ritenuto difetto del requisito delle disagiate condizioni economiche, ex art. 606 comma primo lett. e) cod. proc. pen.; il giudice, che motiva evocando potenzialità economiche inespresse e possibili dissimulazioni facendo dunque riferimento a una situazione economica non attuale né effettiva, non ha chiarito per quale motivo il condannato avrebbe potuto adempiere all’obbligazione debitoria senza squilibri e serie compromissioni per il proprio bilancio domestico, non valutando la sostenibilità dello stesso neppure sotto il profilo della suggerita rateizzazione;
c) con il terzo motivo di doglianza veniva rilevata la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione adottata in relazione al ritenuto difetto del requisito delle disagiate condizioni economiche, ex art. 606 comma primo lett. e) cod. proc. pen. e travisamento della prova; il giudice non ha tenuto conto del fatto provato in atti che il F. non presta affatto l’attività di avvocato, ma è un lavoratore dipendente; tale errore è decisivo al fini del mancato riconoscimento del requisito economico.

 

Osserva in diritto

3. — Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
3.1 — Va invero dapprima rilevato come per le disposizioni nella materia di cui trattasi (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 6 sulle spese di giustizia) al fine di ottenere il beneficio richiesto, occorre la contemporanea ricorrenza di due requisiti: la buona condotta e le disagiate condizioni economiche, di talché la mancanza, nel caso concreto, anche di uno solo di tali presupposti già impedisce, di per sé, la concessione della chiesta remissione del debito. È stato quindi mantenuto all’art. 6 del Testo U-nico citato (espressione già criticata dalla dottrina, con riferimento al vecchio art. 56 dell’Ordinamento penitenziario, per la sua genericità). La citata locuzione, infatti, non può identificarsi con quella, dai contorni giuridici maggiormente definiti, dell’insolvibilità (l’impossibilità assoluta di pagare), né con l’insolvenza (la temporanea difficoltà a adempiere) né infine con la condizione di indigenza.
3.2.1. — La Suprema Corte sul tema ha avuto modo di chiarire che ai fini della remissione del debito per spese di giustizia e di mantenimento in carcere, il requisito delle disagiate condizioni economiche richiesto sia dall’abrogato art. 56 della legge n. 354 del 1975, che dal vigente art. 6 D.P.R. n. 115 del 2002, è integrato non solo quando il soggetto si trovi in stato di indigenza, ma anche quando l’adempimento del debito comporti un serio e considerevole squilibrio del suo bilancio domestico, tale da precludere il soddisfacimento di elementari esigenze vitali e compromettere quindi il recupero e il reinserimento sociale (sul punto cfr. Cass., Sez. l, 24 gennaio 2006, n. 14541, rv. 233939, ********; Sez. 1, 23 novembre 2012, n. 48400, rv. 253979, Loreto; n. 5621 del 2009 rv. 242445).
3.2.2. — Ciò rilevato occorre osservare che il Magistrato di Sorveglianza è stato ossequioso di questi principi posto che, pur valutando l’entità dell’importo dovuto, ha approfonditamente valutato l’impatto del soddisfacimento del debito sulle effettive (e non meramente presuntive) capacità patrimoniali del F. valutando la mancanza del requisito delle disagiate condizioni economiche in dipendenza della constatazione che il condannato ha una capacità reddituale che giustifica la sosteni-bilità del debito anche in considerazione delle potenzialità economiche derivanti dal fatto che egli potrebbe svolgere l’attività di avvocato. Sebbene il ricorrente risulti debitore nei confronti dell’erario di una somma ragguardevole è stato chiarito inoltre che i terreni e il fabbricato rurale segnalati dalla Guardia di Finanza come appartenenti al prefato non sono stati né venduti, né messi in vendita, né alcun tentativo è stato posto in essere onde addivenire a una rateizzazione del debito (nel suo complesso o nella parte residua dopo la corresponsione di una prima tranche derivante dalla vendita del terreni e del fabbricato) tenuto conto, trattandosi come sostiene il ricorrente, di lavoratore dipendente, che lo stesso non potrà comunque subire un prelievo stipendiale superiore al quinto.
Sotto questo specifico profilo il giudice ha dunque implicitamente considerato, in esito alla sua valutazione completa ed esaustiva anche delle doglianze difensive, che per il soggetto istante non si verrà a creare un pregiudizio irreversibile, arbitrario e non tollerabile per le sue condizioni economiche future, tenuto conto che le spese di giustizia, secondo i principi sovra esposti, sono pur sempre gli effetti derivanti dal proprio operato deviante sicché la compressione del proprio tenore di vita, nei termini ragionevoli qui rappresentati, sono proporzionati e giustificati dalla condotta anteatta, quale espressione della funzione retribuiva della pena.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

Redazione