Spaccio di droga e uso di gruppo: necessaria la prova sul mandato degli altri per il consumo di gruppo (Cass. pen. n. 17136/2013)

Redazione 15/04/13
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Presidente Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Roma riformava solo in punto di determinazione della pena finale, che veniva ridotta, e confermava nel resto la pronuncia di primo grado del 22/11/2011 con la quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cassino aveva condannato S.A. e P.S. per avere, il (omissis), in concorso tra loro, detenuto a fine di spaccio gr, 118 di sostanza stupefacente del tipo eroina, divisi in 138 distinte confezioni, idonea alla preparazione di circa 110 dosi singole, e gr. 7,92 di sostanza stupefacente del tipo cocaina, divisa in dodici involucri, idonea alla preparazione di circa sedici dosi singole.
Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali avessero dimostrato la colpevolezza dei due imputati in ordine al reato loro ascritto, non potendo essere dato alcun credito alla dichiarazione del solo A. di aver acquistato quelle droghe per farne consumo di gruppo; come i due imputati non potessero beneficiare del riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309 del 1990, né delle circostanze attenuanti generiche; e come la pena inflitta dal primo giudice dovesse essere ridotta esclusivamente per adeguarla all’entità del fatto e alla complessiva personalità dei due imputati.
2. Avverso tale sentenza hanno presentato ricorso entrambi gli imputati, con distinti atti sottoscritti dal loro unico difensore avv. C. C., ma aventi analogo contenuto, i quali hanno dedotto i seguenti tre motivi.
2.1. Vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà, per avere la Corte di appello negato qualsivoglia credito all’affermazione resa dall’A. di aver acquistato quelle droghe per poterne fare consumo di gruppo assieme ad altre quattro persone, di cui aveva fatto il nome, e per non avere tenuto conto del mancato rinvenimento nell’abitazione dei prevenuti di materiale atto alla pesatura, al taglio e alla divisione delle sostanze stupefacenti.
2.2. Vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà, per avere la Corte territoriale ingiustificatamente negato ai due imputati il riconoscimento dell’attenuante del fatto di lieve entità, già in passato riconosciuto agli stessi da altro Giudice in relazione ad un diverso, ma analogo episodio delittuoso, e per non avere tenuto conto dell’accertato stato di tossicodipendenza della P. e del fatto che anche l’A. era abituale assuntore di droga.
2.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 133 cod. pen. e 62 bis cod. pen., e vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà, per avere la Corte distrettuale erroneamente negato ai due imputati il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che ben potevano essere concesse in ragione dello stato di tossidipendenza dei prevenuti, delle loro precarie condizioni di vita individuali e familiari, del fatto che l’A. avesse tenuto un ottimo comportamento processuale e che la P. , che, come per il compagno, aveva pure avviato un percorso di recupero dalla tossidipendenza, aveva un solo precedente penale specifico.

Considerato in diritto

1. Ritiene la Corte che i ricorsi siano inammissibili.
2. Il primo motivo, comune ai ricorsi formulati nell’interesse dell’A. e della P., è inammissibile perché presentato per far valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
I ricorrenti solo formalmente hanno indicato, come motivo delle loro impugnazioni, il vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione della decisione gravata, ma non hanno prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; né essendo stata lamentata, come pure sarebbe stato astrattamente possibile, una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte del procedimento.
I ricorrenti, invero, si sono limitati a criticare il significato che la Corte di appello di Roma aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante la fase delle indagini. E tuttavia, bisogna rilevare come i ricorsi, lungi dal proporre un “travisamento delle prove”, vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, sono stati presentati per sostenere, in pratica, una ipotesi di “travisamento dei fatti” oggetto di analisi, sollecitando un’inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente.
Questa Corte, pertanto, non ha ragione di discostarsi dal consolidato principio di diritto secondo il quale, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ad opera dell’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria vantazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le tante, Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. S, n. 39048 del 25/09/2007, ********, Rv. 238215).
La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede una stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità: avendo la Corte laziale spiegato come, a fronte del silenzio serbato durante le indagini dalla P. , il solo A. aveva riferito come parte delle due sostanze stupefacenti rinvenute nella loro autovettura fosse destinata al consumo di gruppo, indicando, però, in maniera generica, i nomi dei potenziali consumatori, senza fornire alcun altro dato che potesse permetterne una compiuta identificazione, e, comunque, offrendo una versione difficilmente compatibile con l’accertata disponibilità di ben due diversi tipi di droghe, ciascuna delle quali di rilevante entità ponderale, ed entrambe già divise in differenti numerosi pacchetti pronti per lo spaccio (v. pagg. 4-5 sent. impugn.).
Soluzione, questa, conforme al consolidato indirizzo della giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, in tema di reati concernenti sostanze stupefacenti, la non punibilità della codetenzione implica la prova rigorosa – nella fattispecie assente – che la droga sia stata acquistata o detenuta da uno dei partecipanti al gruppo su preventivo mandato degli altri, in vista della futura ripartizione e destinazione al consumo esclusivo dei medesimi ed attraverso una partecipazione di tutti alla predisposizione dei mezzi finanziari occorrenti (così, tra le tante, Sez. 4, n. 7939 del 14/01/2009, *********, Rv. 243870; Sez. 5, n. 31443 del 04/07/2006, ********, Rv. 235213; Sez. 4, n. 34427 del 10/06/2004, Inglese, Rv. 229693; Sez. 6, n. 28318 del 03/06/2003, ******, Rv. 225684; Sez. 4, n. 10745/11 del 29/11/2000, Catania, Rv. 218778).
3. Il secondo motivo, anch’esso comune ai due ricorsi, è manifestamente infondato.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale, ai fini della concedibilità o del diniego della circostanza attenuante del fatto di lieve entità di cui all’art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309 del 1990, il giudice è tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi normativamente indicati, quindi, sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), che quelli che attengono all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa), dovendo conseguentemente escludere il riconoscimento dell’attenuante quando anche uno solo di questi elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di ‘lieve entità’ (così, ex plurimis, Sez. 4, n. 6732/12 del 22/12/2011, P.G. in proc. ********, Rv. 251942; Sez. 4, n. 43399 del 12/11/2010, *********, Rv. 248947;. 4, Sentenza n. 38879 del 29/09/2005, *****, Rv. 232428).
Di tale regala iuris la Corte di appello di Roma ha fatto corretta applicazione chiarendo, con motivazione congrua, nella quale non sono riconoscibili lacune o vizi di manifesta illogicità, dunque con argomenti non censurabili in questa sede, come la condotta dell’A. e della P. non potesse essere qualificata in termini di ridotta offensività ovvero di scarso allarme sociale in ragione della duplice natura della droga sequestrata e della quantità globale di ciascuno dei due tipi di stupefacenti, destinati a soddisfare un consistente numero di destinatari (v. pag. 5 sent. impugn.).
Né una carenza o altro difetto nella motivazione sono rilevabili per la mancata considerazione di taluni elementi segnalati in sede di appello, asserita mente favorevoli agli imputati (quale il loro stato di tossicodipendenza), in quanto è pacifico negli indirizzi esegetici di questa Corte che il provvedimento impugnato non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti ed a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, si da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (così Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, ******, Rv. 250900; Sez. 2, n. 13151 del 10/11/2000, *********, Rv. 218590).
4. Anche il terzo motivo, comune ad entrambi i ricorsi, è manifestamente infondato.
I ricorrenti hanno preteso che, in questa sede di legittimità, si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali i Giudici di merito hanno esercitato il potere discrezionale loro concesso dall’ordinamento ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche. Esercizio che deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all’esistenza dei presupposti di applicazione delle relative norme di riferimento.
Nella specie del tutto legittimamente la Corte territoriale ha ritenuto di negare all’A. e alla P. un’ulteriore riduzione della pena finale irrogata dal giudice di primo grado, avendo – con motivazione completa e congrua – escluso che i prevenuti meritassero un giudizio di speciale benevolenza, tenuto conto delle oggettive gravi caratteristiche della loro condotta (già considerate ai fini della esclusione della live entità del fatto) e delle precedenti condanne per reati di analoga natura che gli imputati avevano rispettivamente già subito in passato (v. pag. 5 sent. impugn.).
5. Alla inammissibilità dei ricorsi consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento in favore dell’erario delle spese del presente procedimento ed ciascuno a quello in favore della cassa delle ammende di una somma, che si stima equo fissare nell’importo che segue.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quella della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Redazione