Società di capitali: diritto di recesso (Cass. n. 6207/2013)

Redazione 13/03/13
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Svolgimento del processo

Nel marzo 1995, C.M., C.S. e S. O., titolari di azioni di risparmio del Credito Varesino s.p.a., quotate in borsa, i quali non avevano partecipato alle assemblee che avevano approvato l’operazione di fusione per incorporazione con la Banca Popolare di Bergamo s.coop. a r.l. e che pertanto avevano esercitato, a norma dell’art. 2437 c.c., comma 1, (nel testo allora vigente) il diritto di recesso loro riconosciuto dalla società, convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Bergamo la Banca Popolare di Bergamo – Credito Varesino (ora Banche Popolari Unite s.c.a r.l.) deducendo l’illegittimità o erroneità del metodo, seguito dalla convenuta, per calcolare il valore dei titoli da rimborsare (con la conseguente condanna al pagamento dei maggiori importi non corrisposti), sotto due profili: a) quanto alla individuazione nella data della delibera assembleare che aveva approvato la fusione (anzichè nella data di sospensione del titolo da parte della CONSOB a seguito dell’annuncio della deliberazione del progetto di fusione da parte dei rispettivi consigli di amministrazione) del “dies a quo” del semestre di riferimento per il calcolo della media delle quotazioni da utilizzarsi quale parametro di determinazione del valore di rimborso; b) quanto al riferimento al prezzo medio di borsa, registrato in tale semestre, delle sole azioni della categoria di quelle in concreto possedute dai soci receduti, anzichè alla media del valore complessivo di tutte le azioni, indipendentemente dalla categoria, diviso per il numero delle stesse.

La società convenuta si costituì in giudizio chiedendo il rigetto della domanda, che invece il Tribunale accolse, ritenendo: a) che il semestre di riferimento dovesse decorrere non dalla data delle delibere assembleari di approvazione del progetto di fusione bensì da quella in cui i rispettivi Consigli di Amministrazione avevano deliberato di dar corso alla fusione, onde evitare di prendere in considerazione l’influenza sulle quotazioni di mercato determinata dalla notizia del progetto di fusione; b) che il rimborso doveva avvenire sulla base del valore della quota del patrimonio netto, cioè del valore medio di tutte le azioni, diviso per il numero di esse, atteso che l’art. 2437 c.c., comma 1, (nel testo anteriore alla riforma del 2003) non conteneva alcuna differenziazione di trattamento tra le diverse categorie di azioni quotate.

La Corte d’appello di Brescia, investita del gravame proposto dalla Banche Popolari Unite soc.coop. a resp.lim., ha, in riforma della sentenza di primo grado, rigettato la domanda proposta dai soci receduti. Ha ritenuto la Corte territoriale, quanto al primo profilo, che l’art. 2437 c.c., comma 1, nella formulazione qui da applicare, si limita a prendere in considerazione, quali momenti rilevanti, la deliberazione dell’assemblea e la dichiarazione di recesso del socio dissenziente, nessun riferimento ponendo ad atti precedenti, peraltro di per sè inidonei a dar luogo alla fusione. E che, sotto il secondo profilo, non risolutivo deve considerarsi il fatto che la norma ricordata (anteriore alla introduzione nell’ordinamento, nel 1974, della categoria delle azioni di risparmio) non ponga distinzioni tra i diversi tipi di azioni, ed invece insuperabile – in quanto espressione di scelte legislative insindacabili – deve considerarsi il fatto che la norma stessa limiti il riferimento al patrimonio netto, ai fini della determinazione dell’importo da rimborsare, al solo caso in cui la società non sia quotata in borsa, mentre dal riferimento, nell’ipotesi opposta, al prezzo medio dell’ultimo semestre si evince che il recedente non può che conseguire l’importo (medio) corrispondente a quello che avrebbe percepito ove mai avesse venduto le sue azioni sul mercato.

Avverso tale sentenza, depositata il 21 luglio 2005, C. M., C.S. e S.O. hanno proposto ricorso a questa Corte sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso la Banche Popolari Unite s.c.a r.l..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo i ricorrenti censurano, sia sotto il profilo della violazione di norma di diritto (art. 2437 c.c.) sia sotto quello del vizio di motivazione, l’accertamento del dies a quo del semestre di riferimento. Assumono che la interpretazione della Corte non troverebbe fondamento nella formulazione della norma (che non specifica da quale data debba calcolarsi l’ultimo semestre), e d’altra parte sarebbe, oltre che illogica e contraddittoria, contraria alla ratio della norma stessa, che è quella di garantire una valutazione del patrimonio della società non influenzata dalla notizia della fusione. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano, sotto il profilo della violazione di norme di diritto (artt. 2437, 2348 e 2350 c.c., L. n. 216 del 1974, artt. 14 e 15) e sotto quello del vizio di motivazione, il criterio di determinazione del valore di rimborso. Deducono che immotivatamente e erroneamente la Corte ha ritenuto che la norma ha escluso per le azioni quotate il riferimento al valore del patrimonio, visto che il prezzo delle azioni moltiplicato per il loro numero corrisponde al valore del patrimonio sociale come valutato dal mercato in quel momento, e per fare tale valutazione occorre considerare tutte le azioni in circolazione; aggiungono che del pari erroneamente la Corte ha affermato che al socio recedente non può spettare più di quanto ricaverebbe da una vendita delle sue azioni, giacchè il caso in esame non corrisponde affatto ad una libera contrattazione della cessione delle azioni, bensì ad una ipotesi particolare, sulla cui verificazione il socio recedente non ha alcuna possibilità di scelta. Sostengono quindi che il prezzo “medio” sia quello corrispondente all’insieme delle azioni costituenti il capitale sociale, tanto più che ogni azione da eguali diritti (art. 2348) e attribuisce il diritto ad una parte proporzionale del patrimonio netto (art. 2350).

2. Tali censure – esaminabili congiuntamente in quanto connesse – sono prive di fondamento. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Sez. 1 n. 17012/2004), il diritto di rimborso delle azioni spettante al socio che recede da società con azioni quotate in borsa è rigorosamente ancorato dall’art. 2437, nel testo ante riforma, alle quotazioni di mercato registrate nel semestre anteriore al giorno in cui è stata assunta la deliberazione assembleare che legittima il recesso. Le ragioni fondamentali di tale convincimento, che il Collegio condivide, risultano chiaramente esposte nella pronuncia richiamata, e, fedelmente trasfuse nella sentenza della Corte bresciana, resistono alle critiche prospettate in ricorso. 2.1.

Da un lato i ricorrenti, valorizzando oltre misura la mancanza nell’art.2437 di una espressa indicazione circa la data dalla quale far decorrere l’”ultimo semestre” e la ratio della norma di garantire una valutazione del patrimonio della società non influenzata dalla notizia della fusione, non considerano che la norma stessa:

a)ricollega alla assunzione della deliberazione assembleare il sorgere del diritto di recesso; b)individua il prezzo di riferimento ai fini della liquidazione nella media delle quotazioni di mercato del semestre precedente al recesso, il che si giustifica anche e soprattutto con quell’esigenza di contenere il rischio che il calcolo del valore di rimborso sia condizionato dai riflessi eventualmente prodotti sull’andamento delle quotazioni di mercato proprio dall’operazione societaria che ha determinato il recesso del socio.

E’ vero che tale esigenza la riforma del 2003 ha, nel nuovo art. 2437 ter, ampliato retrodatando ulteriormente alla data della convocazione dell’assemblea il “dies a quo” della media semestrale delle quotazioni di mercato. Ma si tratta di altra norma, cui non può certo attribuirsi il valore di interpretazione autentica della precedente norma che regola la controversia in esame. 2.2. D’altra parte, è la norma stessa a prescrivere che il valore di rimborso spettante ai ricorrenti debba essere calcolato in base alle quotazioni di mercato delle azioni (di risparmio) da essi possedute.

Inequivoco in tal senso è il valore espressivo della disposizione là dove afferma che, se le azioni “proprie” dei recedenti sono quotate in borsa, il rimborso delle stesse deve avvenire in base al prezzo medio (di quelle azioni) dell’ultimo semestre, ed in caso contrario in proporzione del patrimonio sociale risultante dall’ultimo bilancio. Il riferimento, che i ricorrenti propongono, ad una media tra le quotazioni di borsa di tutte le categorie di azioni emesse dalla società non trova fondamento nel testo normativo, che impone, nei casi di azioni di società quotata (il che costituisce indefettibile presupposto della emissione di azioni di risparmio: L. n. 216 del 1974, art. 14), di tener conto dei soli parametri di mercato, e preclude quindi in tali casi ogni valutazione basata sulla frazione di patrimonio netto corrispondente alle azioni possedute dal socio receduto. E’ vero che la norma, al momento della sua formulazione, non poteva tener conto della successiva introduzione della speciale categoria delle azioni di risparmio, privilegiate nella ripartizione degli utili e nel rimborso del capitale ma prive del diritto di voto e di convocazione dell’assemblea. Ma, anche qui, la scelta chiara del legislatore è nel senso che, ove le azioni possedute dal socio receduto siano quotate nel mercato dei titoli, il valore di rimborso a lui spettante deve tener conto esclusivamente delle indicazioni di prezzo fornite dal mercato stesso in relazione a quelle azioni. Nè il titolare di azioni di risparmio può dolersi del fatto che in tal modo si possa pervenire ad una determinazione di un rimborso inferiore a quello spettante ai titolari di azioni ordinarie: non può, in particolare, dolersi di una violazione dell’art. 2348 c.c., atteso che il principio secondo cui tutte le azioni emesse dalla società attribuiscono uguali diritti trova espressa deroga, nel caso delle azioni di risparmio, nel disposto della L. n. 216 del 1974, art. 14, comma 4.

3. Si impone pertanto il rigetto dei primi due motivi di ricorso, e tale statuizione esonera il Collegio dall’esame del terzo motivo, con il quale i ricorrenti, per l’ipotesi di cassazione della sentenza impugnata, hanno reiterato i motivi posti a base del loro appello incidentale contro la sentenza di primo grado.

4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, in Euro 2.700,00 – di cui Euro 200,00 per esborsi – oltre accessori di legge.

Redazione