Smaltimento dei rifiuti (Cass. n. 1690/2013)

Redazione 15/01/13
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Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Lecce – Sezione Distaccata di Galatina, ha affermato la penale responsabilità di G..P. , dirigente dell’Ufficio tecnico comunale del Comune di Sternatia, che ha condannato alla pena dell’ammenda, per la violazione dell’art. 256, comma 1 lett. a) e b) d.lgs. 152/06 perché aveva adibito a deposito di rifiuti, anche pericolosi, (carcasse di frigoriferi, onduline in amianto, pneumatici, plastica, batterie esauste, sanitari, stoffa, vetro e RSU) un’area di circa 6.000 metri quadrati di proprietà comunale in assenza di titolo abilitativo.
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione.
2. Con un unico motivo di ricorso deduce la violazione di legge, rilevando che essendo l’area adibita ad “ecopiazzola” avrebbe dovuto tenersi conto della definizione di tali strutture fornita dall’art. 183, comma 1, lett. mm) d.lgs. 152/06 e della disciplina dei centri di raccolta introdotta, come disposto dal citato articolo, con D.M. 8.4.2008 il quale prevede, in via transitoria, nell’art. 2, comma 7 la possibilità per i centri di raccolta già operanti di conformarsi alle disposizioni del decreto medesimo nel termine di 60 giorni dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della delibera del Comitato nazionale dell’Albo gestori ambientali di cui al precedente comma 5, termine non ancora scaduto alla data di commissione del reato (24.7.2008).
Aggiunge che, in ragione della sua qualifica, egli si sarebbe limitato alla gestione del servizio di raccolta dei rifiuti urbani secondo le direttive impartitegli dall’organo politico dell’ente di appartenenza, che con delibera di Giunta aveva disposto la creazione dell’ecopiazzola, con decisione che non avrebbe potuto in alcun modo sindacare, dovendovisi inevitabilmente adeguare, cosicché non avrebbe potuto essergli addebitata alcuna responsabilità per i fatti oggetto di contestazione.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente individuare il regime giuridico delle cosiddette “ecopiazzole” o “isole ecologiche”.
La definizione di tali aree è stata introdotta nel d.lgs. 152/06 ad opera del d.lgs. 4/2008 (in vigore dal 13.2.2008), il quale ha disposto, con l’art. 2, comma 20, la modifica dell’art.183 del “codice ambientale”, il quale alla lettera cc) contemplava i “centri di raccolta”. Ciò è verosimilmente avvenuto, come osservato da accorti commentatori, in ragione dei principi fissati dalla giurisprudenza di questa Corte e di cui meglio si dirà successivamente.
A seguito delle modifiche poi apportate alla richiamata disposizione, la definizione di “centro di raccolta” è ora contenuta nella lettera mm) del citato articolo, nella quale si legge che si intende come tale un’”area presidiata ed allestita, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, per l’attività di raccolta mediante raggruppamento differenziato dei rifiuti urbani per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento”.
L’art. 183 d.lgs. 152/06 stabiliva, fin dall’origine, che alla disciplina dei centri di raccolta doveva provvedersi con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza unificata Stato – Regioni, città e autonomie locali, di cui al decreto legislativo 28.8.1997, n. 281.
Ciò avveniva con il D.M. 8.4.2008, recante “Disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dall’articolo 183, comma 1, lettera cc) del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche” (in G.U. n. 99 del 28.4.2008) nel quale i “centri di raccolta” venivano individuati nell’articolo 1.
I titoli abilitativi richiesti venivano indicati nel successivo articolo 2, che individuava anche la disciplina transitoria per i centri già in attività, mentre gli allegati fornivano l’indicazione dei requisiti tecnico – gestionali dei centri medesimi ed i modelli di “scheda rifiuti”.
Con Deliberazione del 29.7.2008 (in G.U. n. 206 del 3.9.2008) il Comitato nazionale dell’Albo nazionale gestori ambientali ha indicato criteri e requisiti per l’iscrizione all’Albo nella categoria 1 per lo svolgimento dell’attività di gestione dei centri di raccolta di cui al D.M. 8.4.2008. È questo il provvedimento al quale si riferisce il ricorrente nel ricordare la disciplina transitoria di cui all’art. 2, comma 7 del D.M., osservando che, alla data di commissione del reato indicata nell’imputazione, il termine per l’adeguamento non era ancora scaduto.
Il D.M. 8 aprile 2008, tuttavia, è stato successivamente dichiarato improduttivo di effetti con nota dell’Ufficio Legislativo del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare del 4 novembre 2008, con la quale veniva reso noto che esso, al momento della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, non poteva produrre effetti in quanto era privo dei necessari riscontri da parte degli organi di controllo. Con la medesima nota il predetto Ufficio legislativo precisava anche che l’inefficacia del d.m., perdurando al momento dell’adozione della citata deliberazione 29.7.2008, si era riverberata sulla delibera stessa ed invitava il Comitato nazionale a voler formalizzare il ritiro in autotutela della deliberazione stessa, cosa che avveniva con deliberazione del 25.11.2008 (in G.U. n. 295 del 18.12.2008).
Con successivo D.M. 13.5.2009 sono state apportate modifiche al decreto 8.4.2008, sostanzialmente ampliando le categorie di rifiuti conferibili rispetto all’originaria elencazione, nonché dilatando i termini della disciplina transitoria di cui all’art. 2, comma 7, termini ulteriormente prorogati al 30 giugno 2010 dall’articolo 8, comma 4-ter, d.l. 30.12.2009, n. 194, convertito nella legge 26.2.2010 n. 25.
In seguito, con Deliberazione del 20 luglio 2009, il Comitato nazionale dell’Albo nazionale gestori ambientali (in G.U. n. 180 del 5.8.2009) ha nuovamente fissato criteri e requisiti per l’iscrizione all’Albo nella categoria 1 per lo svolgimento dell’attività di gestione dei centri di raccolta.
L’art. 1 del D.M. 8 aprile 2008, come modificato dal successivo D.M. 20.7.2009, individua i “centri di raccolta” comunali o intercomunali come “costituiti da aree presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di raccolta, mediante raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli impianti di recupero, trattamento e, per le frazioni non recuperabili, di smaltimento, dei rifiuti urbani e assimilati elencati in allegato I, paragrafo 4.2, conferiti in maniera differenziata rispettivamente dalle utenze domestiche e non domestiche anche attraverso il gestore del servizio pubblico, nonché dagli altri soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al ritiro di specifiche tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche”.
4. Dall’esame di tale disposizione e della definizione di cui all’art. 183 lett. mm) del d.lgs. 152/06, emerge chiaramente che la qualificazione di una determinata struttura come “centro di raccolta” presuppone la rispondenza a determinati requisiti riguardanti, in primo luogo, le caratteristiche dell’area destinata allo scopo, che si richiede essere opportunamente “allestita” e “presidiata”, quindi organizzata per garantire un corretto e controllato svolgimento delle attività, come si ricava anche dalla indicazione dei requisiti tecnico gestionali contenuta nell’allegato 1 al D.M., ove si specificano le modalità di localizzazione del centro di raccolta, le sue caratteristiche costruttive e strutturali e le modalità di conferimento che prevedono l’esame visivo effettuato da un addetto e di deposito, rispetto al quale sono fissati limiti temporali e gestione.
Risultano dettagliatamente specificate, inoltre, le attività che possono espletarsi nel centro, con esclusione, quindi, di ogni altra attività, indicando modalità e natura dei rifiuti, nonché la loro provenienza, riferendosi la disposizione al conferimento, in maniera differenziata, dalle utenze domestiche e non domestiche e dagli altri soggetti tenuti al ritiro di specifiche tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche.
Di non minor rilievo è poi la elencazione (punto 4 allegato 1 al D.M.) delle tipologie di rifiuti conferibili al centro di raccolta ed indicate in modo tassativo.
I rifiuti conferiti devono inoltre essere collocati in aree distinte del centro per flussi omogenei, attraverso l’individuazione delle loro caratteristiche e delle diverse tipologie e frazioni merceologiche, separando i rifiuti potenzialmente pericolosi da quelli non pericolosi e quelli da avviare a recupero da quelli destinati allo smaltimento.
5. Il regime autorizzatolo è stabilito dall’art. 2 del D.M., ove si specifica che la realizzazione o l’adeguamento dei centri di raccolta deve essere eseguito in conformità con la normativa vigente in materia urbanistica ed edilizia, prevedendo che il Comune territorialmente competente ne dia comunicazione alla Regione e alla Provincia.
Viene inoltre precisato che l’allestimento e la gestione dei centri devono avvenire in conformità alle disposizioni di cui all’allegato I, che costituisce parte integrante del decreto, ad eccezione dei centri costituiti unicamente da cassoni scarrabili destinati a ricevere rifiuti non pericolosi di provenienza domestica ai quali è richiesto il rispetto solo di alcuni requisiti dell’allegato I, specificamente indicati.
Il soggetto che gestisce il centro deve essere inoltre iscritto all’Albo nazionale gestori ambientali nella Categoria 1 “Raccolta e trasporto dei rifiuti urbani” di cui all’articolo 8 del decreto del Ministro dell’ambiente 28 aprile 1998, n. 406, in base ai criteri, modalità e termini per la dimostrazione della idoneità tecnica e della capacità finanziaria stabiliti con deliberazione del Comitato nazionale dell’Albo gestori ambientali.
Infine, si è già detto, in precedenza, della disciplina transitoria di cui all’art. 2, comma 7 del d.m. in esame.
6. Così inquadrato il regime dei centri di raccolta, occorre ricordare brevemente quanto osservato, nel tempo dalla giurisprudenza di questa Corte sul tema delle “ecopiazzole” o “isole ecologiche”.
Antecedentemente alla introduzione della definizione di “centro di raccolta” nel d.lgs. 152/06, con atteggiamento di estremo rigore, si era sempre ritenuto, anche sotto la vigenza del d.lgs. 22/97, che le piazzole comunali destinate alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani avessero natura di centri di stoccaggio, in quanto vi si effettuano attività di smaltimento, consistente nel deposito preliminare in vista di altre operazioni di smaltimento definitive o attività di recupero, consistente nella messa in riserva, ritenendo, di conseguenza, che neppure la possibilità per i comuni di esercitare in regime di privativa la gestione dei rifiuti urbani ed assimilati avviati allo smaltimento, allora prevista dall’art. 21 del d.lgs. 5.2.1997 n. 22, potesse escludere che le attività di smaltimento o di recupero esercitate fossero soggette alle autorizzazioni regionali previste dall’art. 28 del citato d.lgs. n. 22/97, o alle procedure semplificate provinciali ex artt. 31, 32, 33 dello stesso decreto (Sez. III n. 26379, 18 luglio 2005; Sez. III n. 34665, 28 settembre 2005).
Veniva anche esclusa l’applicabilità del regime di favore riferito al deposito temporaneo, rilevando che nel concetto di luogo di produzione dei rifiuti non rientra l’intero territorio comunale rispetto ai rifiuti prodotti dai suoi cittadini, ma lo stesso si estende al massimo sino a ricomprendere siti infrastrutturali collegati tra loro all’interno di un’area delimitata, individuando l’attività svolta come stoccaggio soggetto, quindi, ad autorizzazione (Sez. III n. 45084, 12 dicembre 2005. V. anche Sez. III n.7285, 22 febbraio 2007).
La qualifica delle isole ecologiche come aree ove vengono svolte operazioni di stoccaggio, soggette quindi la corrispondente regime autorizzatorio, veniva avallata in due note del Ministero dell’ambiente (3 novembre 1998 avente ad oggetto “Gestione delle ecopiazzole comunali per la raccolta differenziata dei rifiuti urbani – Dlgs 22/1997 e successive modifiche ed integrazioni”; 5 agosto 1999 avente ad oggetto “Gestione delle ecopiazzole comunali”) mentre la giurisprudenza amministrativa qualificava l’attività come raccolta, con pesatura e raggruppamento (o separazione) dei vari tipi di rifiuto conferiti dai cittadini diversa, quindi, dalle fasi di smaltimento o di recupero (Cons. Stato Sez. V n.609, 17 febbraio 2004) e la dottrina assumeva posizioni contrastanti, in alcuni casi condividendo ed in altri avversando tali posizioni.
Successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 152/06, richiamando l’orientamento precedentemente espresso, si è nuovamente affermato che le “ecopiazzole” necessitano della prevista autorizzazione, in quanto centri di stoccaggio in cui si svolge una fase preliminare alle attività di smaltimento o di recupero dei rifiuti (Sez. III n. 12417, 20 marzo 2008; Sez. III n. 9103, 28 febbraio 2008; Sez. III n. 10259, 9 marzo 2007).
7. A seguito dell’introduzione nel d.lgs. 152/06 della già ricordata definizione di “centro di raccolta”, questa Corte ha preso atto della modifica normativa, osservando, in una prima occasione (Sez. III n.7950, 1 marzo 2011), che dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 4/2008 e del d.m. 8.4.2008, come modificato dal successivo del 13 maggio 2009, le piazzole comunali destinate alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani non necessitano più della autorizzazione regionale o provinciale, non venendo ivi svolta alcuna attività di stoccaggio.
Tale assunto, espresso peraltro in modo estremamente sintetico in ragione delle specifiche esigenze del caso esaminato, è stato successivamente ribadito in maniera più articolata (Sez. III n.17864, 9 maggio 2011, non massimata) dando anche atto delle critiche mosse dalla dottrina all’indirizzo interpretativo in precedenza consolidatosi ed affermando che, al fine di verificare la necessità o meno dell’autorizzazione regionale per le c.d. ecopiazzole, occorre in concreto anzitutto verificare se si sia in presenza di un centro di raccolta dei rifiuti e se il centro sia rispondente ai requisiti indicati dai decreti ministeriali di riferimento, dovendosi escludere, in caso affermativo, la necessità di autorizzazione regionale e, dunque, la configurabilità del reato per il mancato rilascio. Solo nel caso in cui si verifichi la non rispondenza alle previsioni indicate o si accerti l’effettuazione presso il centro di raccolta di attività che esulano dalla funzione propria di essi si potrà valutare la necessità dell’autorizzazione regionale traendo le necessarie conseguenze sul piano penale dalla sua mancanza.
8. Tale principio è pienamente condivisibile e deve essere nuovamente ribadito con ulteriori precisazioni.
È evidente che, a seguito dell’introduzione nel d.lgs. 152/06 della definizione di “centro di raccolta”, non può più essere seguito l’orientamento che attribuiva in passato alle “ecopiazzole” la qualifica di centri di stoccaggio di rifiuti soggetti al corrispondente regime autorizzatorio, poiché tali aree sono ora normativamente individuate, ma è altrettanto evidente che, una volta determinata la nozione di “centro di raccolta”, la soggezione alla relativa disciplina introdotta con i decreti ministeriali di cui si è detto in precedenza deve ritenersi riservata esclusivamente a quelle aree che presentino caratteristiche corrispondenti a quelle indicate nell’art. 183, lettera mm) del d.lgs. 152/06.
9. Deve conseguentemente escludersi che, al di fuori dell’ipotesi contemplata dal legislatore, la predisposizione di aree attrezzate per il conferimento di rifiuti astrattamente riconducibili ad un generico concetto di “eco piazzola” o “isola ecologica” possa ritenersi sottratta alla disciplina generale sui rifiuti, poiché l’intervento del legislatore ha ormai definitivamente delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, una regime autorizzatorio e gestionale che, come si è visto, consente il conferimento ai centri di raccolta di un’ampia gamma di rifiuti in maniera controllata. In tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con quanto indicato dal legislatore dovrà procedersi ad una valutazione dell’attività posta in essere secondo i principi generali in materia di rifiuti.
10. Nel caso in esame, il Tribunale, pur richiamando la sola giurisprudenza di questa Corte antecedente all’introduzione della definizione di cui all’art. 183, lett. mm) d.lgs. 152/06 è comunque giunto a conclusioni corrette circa la qualificazione dell’attività svolta in assenza di valido titolo abilitativo, legittimamente ritenendo configurabile l’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 256, comma 1 lett. b) d.lgs. 152/06 per l’illecita gestione di rifiuti effettuata nell’area definita “ecopiazzola”.
Invero, come emerge dal tenore del provvedimento impugnato, l’area in questione non presentava alcuna delle caratteristiche richieste per i centri di raccolta come attualmente definiti, configurandosi, invece, quello che il giudice del merito definisce dapprima un “deposito incontrollato di rifiuti di vario tipo” (pag.1 della sentenza) precisando successivamente (pag.3) che all’atto del sopralluogo il sito “risultava essere profondamente degradato, con rifiuti sparsi su tutta l’area in maniera indiscriminata” nonostante la difesa avesse documentato il periodico prelievo di rifiuti da parte di ditte autorizzate.
Va peraltro evidenziato che, dalla descrizione dei rifiuti, pericolosi e non, gestiti nell’area, emerge la presenza di tipologie non contemplate dall’allegato 1 al d.m. del 2008, come, ad esempio, le onduline in amianto di cui al capo di imputazione.
11. L’assenza delle condizioni di legge per la collocazione dell’area nell’ambito dei centri di raccolta e l’accertata effettuazione di illecite attività di gestione esclude anche la possibilità di ritenere applicabile, nella fattispecie, la disciplina transitoria di cui all’art. 2, comma 7 D.M. 8 aprile 2008, come modificato dal successivo D.M. 20.7.2009, poiché detto articolo si riferisce espressamente ai “centri di raccolta di cui all’articolo I” del medesimo decreto, descritti, come si è già detto, quali “aree presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di raccolta, mediante raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli impianti di recupero, trattamento e, per le frazioni non recuperabili, di smaltimento, dei rifiuti urbani e assimilati elencati in allegato I, paragrafo 4.2, conferiti in maniera differenziata rispettivamente dalle utenze domestiche e non domestiche anche attraverso il gestore del servizio pubblico, nonché dagli altri soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al ritiro di specifiche tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche”, caratteristiche che il sito per cui è processo certamente non possedeva.
Ne consegue l’infondatezza della deduzione formulata in ricorso circa l’applicabilità al caso in esame della richiamata disciplina transitoria.
12. A conclusioni analoghe deve pervenirsi per quanto attiene all’ulteriore questione concernente la responsabilità del ricorrente prospettata in ricorso richiamando una decisione di questa Corte (Sez. III n. 19882, 11 maggio 2009).
La menzionata decisione riguarda l’individuazione del soggetto sul quale incombe l’onere di richiedere l’autorizzazione alla gestione dei rifiuti, individuato in quell’occasione nel sindaco in relazione al fatto che, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’ordinamento degli enti locali, il quale ha conferito ai dirigenti amministrativi autonomi poteri di organizzazione delle risorse, permane comunque in capo al sindaco sia il compito di programmazione dell’attività di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, sia il potere di intervento nelle situazioni contingibili e urgenti, sia il dovere di controllo sul corretto esercizio delle attività autorizzate (dalla motivazione emerge, inoltre, che risultava provato il personale compimento di atti di gestione da parte del sindaco).
Si tratta di un principio certamente condivisibile ma non pertinente al caso in esame, poiché risulta accertato in fatto dal giudice di merito, con richiami agli esiti dell’istruzione dibattimentale e, segnatamente, alla deposizione di un teste ed alla documentazione acquisita al fascicolo, che, quantomeno nell’ultimo periodo, le attività di gestione presso il sito erano state direttamente disposte dal ricorrente, “autorizzandole” quale responsabile del servizio (pag.1 della provvedimento impugnato). La condotta posta in essere era dunque del tutto idonea a configurare il reato contestato.
13. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Redazione