Si applica la tutela reale se ad essere licenziato è uno “pseudo dirigente” (Cass. n. 20763/2012)

Redazione 23/11/12
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Modena, M.L. riferiva: di essere stato assunto, nel gennaio 1991, dalla s.p.a. Cisa-Cerdisa, con la qualifica di dirigente e le mansioni di responsabile della conduzione tecnica e produttiva dello stabilimento n. (omissis); di aver svolto le sue mansioni sino al 31 marzo 2000, allorquando venne licenziato; che il provvedimento risolutorio era stato giustificato con l’intervenuta fusione per incorporazione della Cisa-Cerdisa nel gruppo ceramico *********.

Ciò premesso, il M. conveniva in giudizio la società datrice di lavoro, chiedendo che si accertasse che il rapporto inter partes era stato di natura pseudo dirigenziale, e che il recesso intimatogli era privo di giustificato motivo oggettivo, con la condanna della società convenuta, previa sua reintegrazione nel posto di lavoro, al risarcimento del danno nella misura pari alle retribuzioni perdute a partire dalla data del licenziamento.

In subordine, il ricorrente chiedeva la condanna della società datrice al pagamento dell’indennità supplementare conseguente l’ingiustificatezza del licenziamento quale dirigente.

Costituitasi in giudizio, la s.p.a. Gruppo Ceramiche Ricchetti, deduceva che il ricorrente era stato un effettivo dirigente, avendo espletato le relative mansioni ed essendosi assunte le conseguenti responsabilità, sicchè, nel caso di specie, non era applicabile la normativa limitativa dei licenziamenti. Il Tribunale, in accoglimento della domanda principale, dichiarava l’illegittimità del licenziamento, e, per l’effetto, ordinava alla società convenuta di reintegrare il M. nel suo posto di lavoro, con condanna al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni globali di fatto dovute dalla data del recesso all’effettiva reintegrazione.

Il Tribunale prendeva, anzitutto, in esame la definizione di dirigente, contenuta nell’art. 1 del c.c.n.l. per i dirigenti di aziende industriali, secondo cui “sono dirigenti i prestatori di lavoro che ricoprono nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano le loro funzioni al fine di coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell’impresa”; quindi rilevava, ai sensi del secondo comma del medesimo articolo, che il dirigente può anche essere preposto ad un ramo autonomo dell’impresa o ad altri importanti uffici o servizi, dovendo tuttavia, in ogni caso, essere dotato di ampi poteri direttivi e, dunque, dovendo svolgere le sue mansioni “con un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale, concorrendo alla promozione, al coordinamento ed alla gestione della realizzazione degli obiettivi dell’impresa”.

Il Tribunale accertava che dall’istruttoria espletata, non era risultato che il ricorrente fosse dotato di “quell’elevato grado di autonomia e potere decisionale, nonchè di quegli ampi poteri direttivi che ne giustificherebbero l’inquadramento nella categoria dei dirigenti”.

Avverso tale sentenza proponeva appello il Gruppo Ceramiche Ricchetti s.p.a.; resisteva il M..

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 13 dicembre 2007, respingeva il gravame, condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite.

Quest’ultima propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

Resiste il M. con controricorso.

Motivi della decisione

Il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata della presente sentenza.

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 604 del 1966, art. 10.

Lamenta che esso stabilisce con chiarezza che “le norme della presente legge si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell’art. 2095 c.c.”, escludendo così chiaramente dal suo ambito di applicazione i prestatori di lavoro cui sia stata attribuita la qualifica di dirigente, così com’era pacifico nella specie. Deduce che anche a voler considerare il M. un dirigente non apicale o convenzionale, ad esso spettava unicamente la tutela obbligatoria.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la contraddittorietà della motivazione circa un fatto decisivo e controverso, e cioè la effettiva qualifica del M., ed in particolare se egli dovesse considerarsi un dirigente convenzionale (sottratto alla tutela reale), ovvero uno pseudo dirigente, che dirigente non è, e come tale è soggetto al regime vincolistico sui licenziamenti.

3. I motivi, che per la loro connessione possono congiuntamente esaminarsi, sono infondati.

Non v’è infatti alcun dubbio che, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, la disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alla L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970 non è applicabile, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 10, neppure ai dirigenti convenzionali, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori (cfr. Cass. sez. un. n. 7880/07), ad eccezione, tuttavia, degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro che dirigenti non sono, non essendo le mansioni da essi espletate riconducibili in alcun modo alla nozione ordinamentale o contrattuale del dirigente (ex plurimis, Cass. 13 dicembre 2010 n. 25145; Cass. 17 gennaio 2011 n. 897).

Nella specie la Corte di merito, pur utilizzando indistintamente la locuzione “dirigenti convenzionali” e “pseudo dirigenti”, ha ritenuto ed accertato, così come fatto dal Tribunale, che il M. non fosse affatto un dirigente e dunque fosse il realtà uno pseudo dirigente e non un dirigente convenzionale (così del resto, esplicitamente, a pag. 20 della sentenza impugnata), non svolgendo alcuna mansione che, per potere decisionale ed autonomia organizzativa, fosse in grado di concorrere, in alcun modo, alla promozione, al coordinamento ed alla gestione degli obiettivi dell’impresa. Ha conseguentemente e correttamente ritenuto applicabile al M. la tutela cd. reale, difettando la prova della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

4. Il ricorso deve pertanto rigettarsi. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, pari ad Euro 40,00 per esborsi, Euro 4.000,00 per compensi, oltre accessori come per legge.

Redazione