Sequestro preventivo per equivalente dei beni di proprietà del commercialista ideatore della dichiarazione fraudolenta (Cass. pen. n. 6309/2013)

Redazione 08/02/13
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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 22 marzo 2012 il Tribunale di Lecco ha respinto l’istanza di riesame del decreto di sequestro preventivo del 27 gennaio 2012 emesso dal gip dello stesso Tribunale a carico di T.F., indagato, quale ideatore in entrambi i reati e autore materiale del primo, in concorso con R.N., legale rappresentante di Ferramenta Venerota S.r.l., dei reati di cui all’art. 110 c.p., e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, (perchè, per consentire alla S.r.l. di evadere *** e imposte dei redditi tramite fatture per operazioni inesistenti, dichiarava elementi passivi fittizi nelle dichiarazioni per tali imposte 2004-2007) e artt. 81 cpv. e 110 c.p., e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, (per avere emesso fatture per operazioni inesistenti per consentire alla S.r.l. di evadere le suddette imposte).

L’ordinanza rileva, tra l’altro, che adduceva il ricorrente l’erronea disposizione del provvedimento cautelare reale, poichè il dettato della seconda parte del primo comma dell’art. 322 ter c.p., avente ad oggetto appunto la confisca per equivalente, ne prevede l’operatività esclusivamente per il prezzo del reato, con conseguente inoperatività della confisca per equivalente, e dunque del sequestro preventivo ad essa finalizzato, per il profitto derivante dalle fattispecie di reato di cui alla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143. Osserva il Tribunale che tale problematica è stata oggetto di specifica valutazione della giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass., sez. 3^, 26 maggio 2010 n. 25890 e Cass., sez. 3^, 7 luglio 2010 n. 35807) e risolta nel senso che il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, può essere disposto non solo per il prezzo, ma anche per il profitto del reato, l’integrale rinvio alle disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p., contenuto nella L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, consentendo di affermare che, per i reati tributari, non solo il primo ma anche l’art. 322 ter c.p., comma 2, è applicabile.

2. Avverso l’ordinanza è stato proposto ricorso basato su due motivi: nullità dell’ordinanza per violazione dell’art. 322 ter c.p., in relazione all’art. 321 c.p.p., per avere ritenuto, in tema di reati tributari, legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato, e assoluta carenza della motivazione sul fumus commissi delicti con conseguente violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3.

Osserva il ricorrente, riguardo al primo motivo, che la confisca per equivalente è sanzione penale (come riconosciuto da S.U. 6 ottobre 2009 n. 38691), per cui è necessario rispetto del principio di legalità, senza quindi interpretazione estensiva, tanto meno in malam partem, anche a costo di svuotare l’efficacia operativa dello strumento di fronte a formule normative che, proprio in tema di reati tributari, appaiono sicuramente poco felici. Ma dinanzi all’eccezione di inapplicabilità ai reati contestati della confisca per equivalente il Tribunale si è limitato a richiamare giurisprudenza di legittimità secondo la quale sussiste integrale rinvio dalla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, all’art. 322 ter c.p., per cui sarebbe applicabile di quest’ultima norma non solo il primo ma anche il secondo comma, rilevando pertanto non solo il prezzo ma anche il profitto del reato. Tale orientamento ha evidenziato altresì che l’interpretazione della norma limitante la confisca per equivalente al prezzo del reato ne sancirebbe l’inapplicabilità ai reati tributari nonchè l’illogicità del dettato normativo (Cass. sez. 3^, 11 ottobre 2010 n. 42462).

Afferma il ricorrente che il suddetto orientamento va rivisto, essendo configurabile anche il prezzo del reato nei reati tributari.

Secondo l’accusa, infatti, il commercialista T. ha concorso con la legale rappresentante della società in questione: poichè T. è stato pagato per l’assistenza professionale sussiste un prezzo del reato, per cui comunque non si priverebbe l’istituto della confisca per equivalente di efficacia operativa nei reati tributari.

Inoltre l’art. 322 ter c.p., comma 2, è una norma speciale e residuale rispetto al comma 1. E’ vero che la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, si riferisce all’intero art. 322 ter c.p.; ma se la confisca ha natura sanzionatoria penale, non vi è spazio per una interpretazione estensiva in malam partem, in considerazione del principio di precisione, corollario del principio di legalità (come evidenziano le già citate S.U. 2009 n. 38691). Poichè l’art. 322 ter c.p., differenzia i casi in cui è possibile confiscare il prezzo da quelli dove è possibile sequestrare il profitto, non si vede come ai reati tributari siano applicabili indifferentemente entrambi i commi, costituendo ciò proprio una interpretazione estensiva in malam partem. In conclusione, nella fattispecie la confisca può riguardare solo il prezzo perchè esiste un prezzo del reato e in tal modo si adotta l’interpretazione più restrittiva, cioè quella che va sempre scelta.

Il secondo motivo lamenta che l’ordinanza non enuncia le ragioni a sostegno del fumus commissi delicti con riferimento alla posizione di T. nonostante nella richiesta di riesame fosse stato compiutamente illustrato il fondamento della insussistenza del concorso contestatogli nel delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, (unica fattispecie cui è applicabile la disciplina del sequestro preventivo finalizzato a confisca per equivalente) asseritamente commesso il (omissis), e dunque relativo all’anno di imposta 2007. Il Tribunale si limita, “quanto al ruolo dell’indagato nella vicenda”, a richiamare la C.N.R. 7375 del 21 ottobre 2008, pagine 106-107. Le pagine citate si occupano esclusivamente dell’anno di imposta 2003 di Venerata S.r.l. (quindi, di una società diversa): pertanto il Tribunale, nella sua pressochè inesistente motivazione, richiama una società e un anno di imposta inconferenti. Nell’istanza di riesame era stato evidenziato che diversi professionisti si erano occupati delle due società per l’anno di imposta 2007. Per quanto il Tribunale del riesame non sia vincolato ai motivi addotti dal ricorrente, ciò non giustifica l’assoluta mancanza di ogni riferimento ai numerosi puntuali elementi di fatto e logici addotti nel ricorso, integrando ciò, anzi, una violazione di legge – e precisamente dell’art. 125 c.p.p., comma 3 – che consente ex art. 325 c.p.p., comma 1, ricorso dinanzi al giudice di legittimità.

Motivi della decisione

3. Il ricorso è infondato.

3.1 Quanto al primo motivo, come rileva proprio il ricorrente ed è evidenziato nell’ordinanza impugnata, l’applicabilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente ai reati tributari non solo per quanto concerne l’ipotesi del prezzo, ma anche per quella del profitto del reato, è già stata affrontata da una giurisprudenza che può definirsi consolidata; giurisprudenza rispetto alla quale le osservazioni svolte nel ricorso non sono idonee a consentire mutamento. Lo stesso ricorrente, infatti, ammette che la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, si riferisce all’intero art. 322 ter c.p.; nè può attribuirsi alcuna incidenza all’opinione che il legislatore abbia effettuato il riferimento nella sua interezza “assai poco scrupolosamente” (ricorso, pagina 7), non essendo, questa, sede per valutazioni dottrinarie de jure condendo.

Poichè, dunque, il rinvio integrale rende applicabili ai reati tributari entrambi i commi dell’art. 322 ter c.p., la loro applicazione non costituisce interpretazione estensiva, per cui non si pone alcun problema di violazione del principio di legalità.

D’altronde, il rapporto tra il primo e il secondo comma della norma non comporta, nel caso dei reati tributari, l’inapplicabilità di entrambi, giacchè la differenza tra profitto e prezzo del reato (e quindi la sussistenza dell’uno e/o dell’altro) discende dalla natura del reato stesso (cfr. Cass., sez. 3^, 7 luglio 2010 n. 35807, che trae fondamento dei reati tributari proprio da S.U. 25 giugno 2009 n. 38691) e non si pone pertanto su un piano astratto ed esterno alla fattispecie criminosa (non sussiste infatti una norma che definisca la nozione di profitto del reato, locuzione utilizzata in maniera meramente enunciativa nelle varie fattispecie in cui è inserita, assumendo quindi un’ampia “latitudine semantica” da colmare in via interpretativa, occorrendo allo scopo non solo una correlazione diretta del profitto con il reato ma altresì una stretta affinità del profitto con l’oggetto del reato stesso:cfr. ancora S.U. 25 giugno 2009 n. 38691, nonchè S.U. 2 luglio 2008 n. 26654). E, nelle fattispecie criminose tributarie, la giurisprudenza ha individuato il profitto come integrato da qualsiasi vantaggio patrimoniale derivante dalla imposta evasa (da ultimo Cass. sez. 3^, 2 dicembre 2011-16 gennaio 2012 n. 1199 e Cass. sez. 5^, 10 novembre 2011-17 gennaio 2012 n. 1843); non si vede pertanto il motivo per ritenere inapplicabile a tali fattispecie criminose il sequestro preventivo in quanto finalizzato alla confisca per equivalente di un profitto nel caso concreto di indubbia sussistenza.

Nè infine, si osserva ad abundantiam, porta alcuna incidenza interpretativa in senso contrario il recente intervento del legislatore sull’art. 322 ter c.p., comma 1, laddove le parole “o profitto” sono state inserite a chiudere appunto il suddetto comma dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, art. 1, (in probabile correzione di precedente omissione, dato che in precedenza il comma già si riferiva a “beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo”).

3.2 Riguardo al secondo motivo, il Tribunale ha sì affermato che “quanto al ruolo dell’indagato nella vicenda è sufficiente richiamare quanto esposto a pagg. 106-107 della menzionata C.N.R.”;

tuttavia una lettura corretta della motivazione non consente di estrapolare tale frase da quanto immediatamente la precede, giacchè il giudice di merito esamina, a ben guardare, globalmente a pag. 6 dell’ordinanza il quarto motivo del gravame, relativo appunto alla insussistenza dell’astratta configurabilità del reato e comunque di qualsiasi contributo causale di T. in ordine proprio al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, commesso il (omissis) (cfr. pag. 3 dell’ordinanza). La motivazione, pertanto, non è “pressochè inesistente”, nè tanto meno circoscrivibile alla frase suddetta. Per quanto sinteticamente, infatti, sul piano fattuale l’ordinanza contiene un ulteriore rilievo a proposito delle pagine 101 ss. della stessa C.N.R., e, in punto di diritto, rievoca gli stretti confini della cognizione sommaria in ipotesi di impugnazione di cautela reale affermati da S.U. 23 febbraio 2000 n. 7, nel senso della preclusione della valutazione della sussistenza degli indizi di colpevolezza e della loro gravità, limitandosi il controllo alla compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale. Pur essendosi aperti alcuni spiragli che ampliano detto controllo, la giurisprudenza a tutt’oggi non ha abbandonato questa rigorosa impostazione: il vaglio non attiene alla fondatezza degli elementi di fatto, ma solo alla verifica della corrispondenza tra il fatto per cui si procede e la fattispecie criminosa (Cass., sez. 2^, 14 febbraio 2007 n. 12906), essendo il fumus commissi delicti da intendersi come astratta configurabilità del reato ipotizzato, senza estendere la cognizione agli indizi di colpevolezza (Cass., sez. 2^, 17 aprile 2007 n. 19457), a meno che da questi emergano elementi percepibili ictu oculi (Cass., sez. 4^, 21 maggio 2008 n. 23944) ovvero di immediato rilievo (Cass., sez. I, 11 maggio 2007 n. 21736).

E nel caso di specie quanto adduceva il ricorrente non poteva qualificarsi come tale, cioè come ineludibile nella sottile cognitio fattuale riservata al Tribunale del riesame di una cautela reale:

ciò si evince già dalla stessa contestazione, che attribuisce a T. non solo il ruolo di autore materiale ma altresì quello di ideatore, imputandogli così un radicale costruttivo contributo alla condotta criminosa, e integrando un’evidenza inversa rispetto a quanto prospettato dal ricorrente, che rimane riconducibile tutt’al più solo all’attività di autore materiale. Il vizio motivazionale, in conclusione, non sussiste, giacchè non sussistevano i presupposti per oltrepassare la verifica del fumus commissi delicti così come configurata dalla giurisprudenza che il Tribunale invoca come supporto del contenuto della motivazione stessa.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto, a ciò conseguendo la condanna alle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione