Sequestro preventivo: basta l’omesso versamento Iva per il sequestro dei beni (Cass. pen. n. 19099/2013)

Redazione 03/05/13
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Svolgimento del processo

1. D.V.M. ha presentato ricorso per cassazione nei confronti dell’ordinanza con cui il tribunale del riesame di Udine ha confermato il decreto di sequestro preventivo per equivalente di un immobile ed un orto nel limite massimo di Euro 105.030 del Gip presso il Tribunale di Tolmezzo in relazione ai reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 10 bis e 10 ter, per omesso versamento dell’***.

2. Con un primo motivo, volto a dedurre violazione di legge e mancanza assoluta di motivazione, lamenta che il Tribunale abbia sic et simpliciter individuato il profitto del reato nell’ammontare dell’Iva dichiarata e non versata in tal modo sovrapponendo due distinti concetti, ovvero il debito verso l’Erario, pari all’ammontare dell’Iva dichiarata e poi non versata e il profitto del reato, pari all’ammontare dell’*** incassata e poi non versata; nella specie, invece, nè D.V. in persona nè la Di Vora Mauro & ****** avrebbero mai incassato l’Iva non versata. Facendo ciò, inoltre, il Tribunale ha travisato il motivo del riesame, che era volto a sostenere non l’assenza del fumus delicti ma, appunto, del profitto.

3. Con un secondo motivo denuncia l’apparenza di motivazione in ordine all’accertamento del valore dei beni sequestrati. A fronte del motivo di riesame che denunciava la violazione del principio della necessaria equivalenza tra il valore dei beni sequestrati e l’entità del profitto ricavato dal reato, il Tribunale ha argomentato nel senso che la confisca per equivalente sarebbe assimilabile ad una qualsiasi ipoteca sicchè all’indagato spetterebbe l’eventuale differenza sul ricavato della vendita degli immobili confiscati.

Analoga motivazione apparente il Tribunale ha fornito circa la doglianza con cui si assumeva che il valore commerciale dell’immobile era ben superiore a quello del profitto, facendo leva sul valore catastale che, però, come da giurisprudenza di legittimità, ben può recedere di fronte al valore commerciale ove quest’ultimo sia debitamente provato.

4. Con un terzo motivo deduce l’errata interpretazione circa il non ritenuto ostacolo al sequestro della ricomprensione del bene in un fondo patrimoniale, rammentando la pronuncia di questa Corte (Sez. 3, n. 18527 del 03/02/2011) secondo cui, ai fini della operatività del sequestro preventivo, è necessaria la analitica motivazione dell’effettiva disponibilità del bene in capo all’indagato. Premesso che deve ritenersi dotato di copertura costituzionale il divieto di disporre la confisca di beni appartenenti a soggetti estranei alla commissione del reato, rileva che il coniuge uti singulus è comunque privo della disponibilità dei beni oggetto del fondo patrimoniale quand’anche ne sia l’unico proprietario; censura inoltre le ragioni poste alla base dell’orientamento di legittimità che ha ritenuto estranei alle esigenze di tipo pubblicistico e sanzionatolo i limiti di sequestrabilità e pignorabilità stabiliti dalle leggi civili ricordando in particolare che con la costituzione del fondo il bene cessa di appartenere al singolo coniuge, sia egli proprietario o meno dello stesso, per diventare patrimonio separato, appartenente a tutto il nucleo familiare. La giurisprudenza ha riconosciuto del resto l’assenza di disponibilità dei beni conferiti nel caso analogo del trust perchè costituenti patrimonio separato rispetto a quello del proprietario (Sez. 5, n. 13276 del 24/01/2011, ****, Rv, 249838).

5. Con un quarto motivo deduce la violazione di legge e la mancanza assoluta di motivazione circa la subordinata richiesta di revoca della misura cautelare per la documentata esistenza di disponibilità liquide facilmente confiscabili in capo alla curatela fallimentare, non essendosi lo Stato ancora insinuato nel fallimento e non essendo quest’ultimo di ostacolo al sequestro preventivo (come da Sez. Un. n. 2951 del 24/05/2004).

Motivi della decisione

6. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, assoggetta a sanzione penale chiunque, nei limiti previsti dall’art. 10 bis, non versi l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. La condotta del reato in esame, di natura omissiva e a carattere istantaneo, consiste, dunque, nel non versare all’Erario la somma dovuta sulla base della dichiarazione annuale (cfr. Sez. 3, n. 6293 del 14/1/2010, dep. 16/2/2010, *****, non massimata). L’obbligo di indicazione nella dichiarazione annuale e, conseguentemente, di versamento dell’Iva, è stato, soprattutto sino ad oggi, ordinariamente svincolato, fatti salvi i casi di applicabilità del regime di “Iva per cassa” di cui al D.L. 29 novembre 2008, n. 185, conv. in L. 28 gennaio 2009, n. 2, di recente rimodulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 32 bis, convertito in L. n. 134 del 2012, dall’effettiva riscossione delle somme – corrispettivo delle prestazioni effettuate. Ciò posto, proprio la strutturazione del reato in termini di condotta omissiva svincolata dall’effettivo incasso rende manifesto l’errore di prospettiva del ricorrente nell’avere circoscritto il profitto del reato alla sola somma incassata e non versata senza considerare altresì, il profitto necessariamente insito nel risparmio economico comunque derivante dal mancato versamento dell’imposta. Se, infatti, non può disconoscersi validità all’affermazione, già resa da questa Corte, secondo cui il profitto può certamente coincidere con l’importo dell’IVA incassata (Sez. 3, n. 30140 del 16/05/2012, non massimata), è altresì indubitabile la pari validità del principio, già enunciato in precedenza, secondo cui il profitto del reato tributario può essere altresì individuato nel risparmio di imposta (cfr., con riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, Sez.3, n. 1199 del 01/12/2011, Galiffo, Rv. 251893); e, nella specie, non vi può essere dubbio che un tale risparmio venga ad essere sicuramente concretizzato anche dal mancato versamento dell’Iva dovuta, come correttamente evidenziato dal Tribunale.

7. Anche il secondo motivo è infondato.

Pur dovendo convenirsi, in linea di principio, con il ricorrente, sulla necessità, che il giudice del riesame deve sempre considerare, che il valore dei beni assoggettati alla misura reale coincida con l’ammontare del profitto (vedi, tra le tante, Sez. 5, n. 2101 del 09/10/2009), non si può ritenere che, nella specie, una tale equivalenza sia stata violata.

Il Tribunale del riesame, premesso che il sequestro è stato disposto sino alla concorrenza dell’importo di 105.030 Euro, ha ritenuto di dovere commisurare il valore dell’immobile in sequestro alla rendita catastale quale unico parametro oggettivo e di dovere pertanto disattendere il diverso, più elevato, valore di 242.958 Euro (tale quindi da superare l’entità del profitto) risultante da una stima effettuata da un tecnico della Difesa. Tale operato è corretto.

Se infatti non può trascurarsi che questa Corte ha progressivamente ampliato i limiti cognitivi del giudizio di riesame delle misure cautelari reali, prescrivendo che il giudice, pur nella considerazione dell’astratta configurabilità del reato addebitato, non possa prescindere dagli elementi offerti dalla Difesa con i quali deve necessariamente confrontarsi (cfr, da ultimo, Sez. 3, n. 19594 del 26/01/2011, Cinturino, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 6656 del 12/01/2010, *********, Rv. 246185; Sez.3, n. 27715 del 20/05/2010, *******, Rv. 248134), è altresì innegabile che nessuna attività di ordine istruttorio può essere svolta nel giudizio del riesame; sicchè, tenuto conto di detto limite, connaturato alla finalità del giudizio in questione, e alla relativa fase processuale, bene ha fatto il Tribunale, posto di fronte ai due differenti valori, ad attenersi a quello espresso dalla rendita catastale di cui ha correttamente evidenziato, a differenza, implicitamente, dell’altro, inevitabilmente dipendente da valutazioni soggettive e condizionato all’andamento del “mercato immobiliare”, l’oggettività. Nè il precedente di questa sezione citato sia dalla ordinanza impugnata che dal ricorso (Sez. 3, n. 10438 del 08/02/2012, P.M. in proc. Genovese, Rv. 252344) ha, evidentemente, affermato che il tribunale del riesame non possa non attribuire, proprio per la sua natura oggettiva, maggiore affidabilità al parametro catastale rispetto a quello discendente, appunto, da valutazioni soggettive, come tali variamente interpretabili.

Di qui, considerato anche che il ricorso per cassazione avverso le misure cautelari può avere unicamente ad oggetto la violazione di legge e non anche la mancanza della motivazione, la legittima sottoposizione a sequestro, fondata su un apparato argomentativo che non può certo definirsi apparente, senza che, con ciò, si siano superati i limiti di corrispondenza, con l’entità del profitto, dei valori dell’immobile e dell’orto.

8. Il terzo motivo, volto a sostenere essenzialmente la mancata prova della disponibilità del bene in capo all’indagato, è parimenti infondato. L’ordinanza impugnata ha specificato, senza che una tale affermazione sia stata confutata dal ricorrente, come i beni in sequestro siano intestati al solo indagato e non anche a terzi; ne consegue che, a fronte della presunzione ordinaria di una corrispondenza tra formale intestazione del bene e disponibilità effettiva dello stesso, l’interessato, formale proprietario dei beni, avrebbe dovuto allegare elementi indicativi della mancanza di una effettiva disponibilità. Nè il difetto di disponibilità può essere tratto dall’avvenuto conferimento dei beni in fondo patrimoniale. Questa Corte ha più volte posto in rilievo che ben può il sequestro preventivo riguardare anche i beni costituenti il fondo patrimoniale familiare di cui all’art. 167 c.c., giacchè appartenenti al soggetto che ve li ha conferiti (da ultimo, Sez. 3, n. 40364 del 19/09/2012, ********, Rv. 253681; Sez.3, n. 6290 del 14/01/2010, Zurzetto, Rv. 246191; Sez. 2, n. 29940 del 27/06/2007, Rv. 238760).

Si è sottolineato, sul punto, che non può rinvenirsi alcuna incompatibilità tra il sequestro preventivo e i regimi di particolare favore assicurati dalle leggi civili a taluni beni in ragione della loro natura o destinazione. Infatti, si è aggiunto, le norme civilistiche che definiscono la natura di taluni cespiti patrimoniali (artt. 169 e 1881 c.c.), ovvero disciplinano l’esecuzione coattiva civile (artt. 543 e 545 c.p.p.) riguardano esclusivamente la definizione della garanzia patrimoniale a fronte delle responsabilità civili, senza toccare in nulla la disciplina della responsabilità penale, nel cui esclusivo ambito ricade invece il sequestro preventivo. Peraltro, proprio la struttura e la finalità del sequestro preventivo rendono evidente e non equivocabile la differenza con le fattispecie civilistiche, tanto cautelari che espropriati ve: il sequestro preventivo non presuppone alcuna responsabilità civile, ed è anzi indipendente dall’effettiva causazione di un danno quantificabile; non prelude ad alcuna espropriazione, ma semmai ad un provvedimento sanzionatorio, quale è la confisca, che prescinde dal danno e considera solo l’esistenza di un particolare rapporto di strumentante o di derivazione tra la cosa e il reato.

Nè in senso contrario potrebbe ricorrersi ai precedenti giurisprudenziali in tema di sequestro conservativo disposto nel processo penale, essendo tale misura, avente le medesime caratteristiche di quella disciplinata dal codice di procedura civile, posta a presidio della garanzia patrimoniale a fronte della responsabilità per obbligazioni di natura civilistica (risarcimento in favore della parte civile) o la cui realizzazione coattiva è strutturata sul modello dell’espropriazione forzata (spese processuali e pene pecuniarie).

Si è anche precisato, infine, che la legittimità del sequestro non è esclusa neppure dal fatto che lo stesso sia finalizzato alla confisca per equivalente, poichè l’assenza di nesso pertinenziale tra il reato commesso e i beni confiscabili “per equivalente” non altera la natura sanzionatoria della confisca, che colpisce il reo in quanto la giustificazione dell’intervento penale, con il simultaneo travolgimento dei vincoli civilistici, risiede unicamente nell’appartenenza del bene sequestrato al patrimonio del reo.

Nè appare propriamente richiamata la decisione di questa Corte (Sez. 3, n. 18527 del 03/02/2011, ********, Rv. 250525) intervenuta in relazione al sequestro di un bene formalmente cointestato anche a terzi, da ciò essendo discesa, logicamente, a differenza della fattispecie in esame, la necessità, affermata dalla Corte, di una specifica motivazione, da parte del giudice della misura reale, circa l’effettiva disponibilità del bene per Intero ad uno solo degli apparenti cointestatari.

Improprio è, anche, il richiamo alla disciplina del “trust” giacchè l’invocata analogia tra tale istituto e il fondo patrimoniale non è in realtà tale; proprio l’arresto di questa Corte richiamato in ricorso (Sez. 5, n. 13276 del 24/01/2011, ****, Rv. 249838) ha affermato che il “trust”, tipico istituto di diritto inglese, si sostanzia nell’affidamento ad un terzo di determinati beni perchè questi li amministri e gestisca quale “proprietario” (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodi di durata del trust, ai soggetti indicati dal disponente.

Presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è, dunque, che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. E tale condizione, ha specificato la Corte, è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio.

Va anche aggiunto, infine, che eventuali diritti di terzi, che, nell’impostazione del ricorrente, verrebbero ad essere vulnerati dal sequestro in oggetto, non potrebbero essere fatti valere se non dai titolari degli stessi.

9. E’ infondato, infine, anche il quarto motivo con cui il ricorrente lamenta la mancata sottoposizione a sequestro delle liquidità in capo alla curatela fallimentare della società dell’indagato in luogo dei beni immobiliari effettivamente aggrediti.

Al di là della possibilità, sostanzialmente posta in discussione anche dalla ordinanza impugnata, di operare il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente su beni appartenenti ad ente terzo rispetto all’indagato (nella specie la società Di Vora ************ dichiarata fallita), riguardando, invece, il precedente richiamato dal ricorso, fattispecie di confisca di beni provento di attività illecita (Sez. U., n.29951 del 24/05/2004, fall., in proc. *********, Rv. 228165), va, in ogni caso, ricordato che, ai fini della scelta dei beni da sottoporre in concreto a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, le preferenze eventualmente espresse dall’indagato sono prive di rilievo (Sez. 2, n. 41049 del 26/10/2011, *****, Rv. 251515).

Si è infatti specificato che nessuna norma prevede che nell’esecuzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca cosiddetta per equivalente si debbano preferire i beni indicati dall’imputato. In tal senso non si rinviene neppure un principio generale dell’ordinamento, non potendosi invocare quello del c.d. favor rei. Tale ultimo principio, infatti, presiede al momento valutativo degli elementi di prova raccolti a carico dell’imputato e nulla ha a che vedere, invece, con la fase dell’esecuzione della pena principale e di quelle accessorie, fra le quali ultime rientra, per l’appunto, la confisca cui il sequestro è preordinato. Si è aggiunto, con riferimento al diverso settore del pignoramento civile, che anche l’art. 517 c.p.c., nella formulazione seguita alla modifica operata dalla L. 24 febbraio 2006, n. 52, prevede che l’ufficiale giudiziario apprenda le cose che ritiene di più facile e pronta liquidazione, con totale obliterazione del criterio di favor per il debitore, seguito, invece, nella originaria formulazione della norma.

L’individuazione dei beni da sequestrare rientra, dunque, nell’ambito della discrezionalità del giudice della fase esecutiva del provvedimento cautelare, con l’unico limite, applicabile analogicamente anche al settore penale, di dover preferire comunque il denaro (art. 517 c.p.c., comma 2).

10. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 6 marzo 2013.

Redazione