Sequestro per equivalente: può essere disposto sia per il prezzo sia per il profitto del reato (Cass. pen. n. 41696/2013)

Redazione 09/10/13
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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza 29.11.2012 il Tribunale di Macerata ha rigettato la richiesta di riesame proposta da S.R. contro il decreto di sequestro preventivo per equivalente disposto dal GIP sui beni della stessa fino a concorrenza dell’ammontare delle imposte evase (Euro 18.652,81). Il Tribunale ha ravvisato il fumus dei reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture inesistenti (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, comma 3) e emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8, D.Lgs. cit.) sulla base delle indagini svolte dalla Guardia di Finanza su alcune ditte operanti tra le province di Macerata e Fermo nel settore dei pellami e accessori per calzature.

Il Tribunale ha osservato che le condotte accertate dai militari, finalizzate alla emissione e all’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, erano addebitabili all’indagata quale titolare di ditta individuale, e ha ritenuto irrilevante il fatto che a fronte delle fatture sarebbero stati emessi titoli per il pagamento, considerato che la merce non poteva essere prodotta e venduta da soggetti privi di struttura organizzativa e produttiva.

2. La S., tramite difensore, ricorre per cassazione contro il provvedimento denunziando con tre motiv violazioni di legge e vizi motivazionali.

Motivi della decisione

I Con un primo motivo deducendo motivazione illogica e falsa applicazione dell’art. 321 c.p.p., e art. 322 ter c.p., nonchè D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 19 e 53, in relazione all’art. 606 c.p.c., lett. b) e c), pone la questione del sequestro preventivo dei beni della società e ne deduce l’inammissibilità ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001.

Il motivo è inammissibile per manifesta infondatezza.

Innanzitutto, va chiarito che per giurisprudenza costante, il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Cass. Sez. U, Sentenza n. 25932 del 29/05/2008 Cc. dep. 26/06/2008; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 43068 del 13/10/2009 Cc. dep. 11/11/2009).

Di conseguenza il vizio di illogicità della motivazione non è deducibile.

Passando all’esame dell’altro profilo di censura, dal provvedimento impugnato risulta che, contrariamente a quanto affermato in ricorso, il sequestro preventivo per equivalente era stato emesso, in relazione a condotte proprie dell’indagata, sui beni della S., e non su quelli di società, e che l’indagata era titolare di una ditta individuale.

Di conseguenza, la questione di diritto che la ricorrente oggi pone alla Corte di Cassazione (circa la sequestrabilità dei beni della società estranea all’illecito ipotizzato nei confronti dell’amministratore della stessa) si appalesa del tutto fuori luogo.

2 Con un secondo motivo, la ricorrente denunzia violazione dell’art. 321 c.p.p., e art. 322 ter c.p., nonchè mancanza di motivazione, rilevando che le somme sequestrate non costituiscono nè il prezzo nè il prodotto nè il profitto del reato e richiama a tal fine una serie di pronunce giurisprudenziali.

Anche questo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte – a cui il Collegio intende dare senz’altro continuità – in tema di reati tributari, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca “per equivalente”, può essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato: infatti, l’integrale rinvio alle “disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p.”, contenuto nella L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, consente di affermare che, con riferimento ai reati tributari, trova applicazione non solo il primo ma anche il secondo comma della norma codicistica (cfr. tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 35807 del 07/07/2010 Cc. dep. 06/10/2010 Rv. 248618; Sez. 3, Sentenza n. 45735 del 08/11/2012 Cc. dep. 22/11/2012 Rv. 253999).

Nel caso all’esame del Collegio, i giudici di merito hanno accertato la sussistenza del fumus dei reati finanziari rilevando in particolare che la ditta Profumo di Rose gestita dalla S. aveva effettuato nel 2009 e 2010 acquisti di pellami e calzature, benchè esercitasse l’attività di pulizie e solo dall6.11.2009 avesse apparentemente iniziato l’attività di commercio all’ingrosso non specializzato; hanno altresì rilevato che gli acquisti erano stati effettuati dalle ditte RACOM e Commerciale Elpidiense facenti capo a personaggi con precedenti di Polizia e che in nel caso della RACOM non sapevano assolutamente nulla dell’attività della ditta, mentre nell’altro caso avevano solo apparentemente acquistato i beni da altro soggetto, benchè fosse poi risultato che le fatture non presentavano nessuna corrispondenza e che il vettore apparentemente utilizzato non aveva a sua volta mai preso in carico le merci.

Sulla base di un tale accertamento in fatto, del tutto corretto appare il sequestro dei beni di cui l’indagata ha la disponibilità per un valore corrispondente a quello del profitto del reato, che – è bene precisarlo – nel caso di reati fiscali, deve intendersi non solo un positivo incremento del patrimonio personale, bensì qualunque vantaggio patrimoniale direttamente derivante dal reato, anche se consistente in un risparmio di spesa (cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1843 del 10/11/2011 Cc. dep. 17/01/2012 Rv. 253480; cass. sez. 6, 27 settembre 2007, n. 37556).

3 Con il terzo ed ultimo motivo, deducendo la violazione dell’art. 321 c.p.p., e art. 322 ter c.p., nonchè dell’art. 125 c.p.p., comma 3, e art. 292 c.p.p., comma 1 bis, nonchè mancanza ed illogicità della motivazione, la ricorrente rimprovera al Tribunale di non avere controllato la documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza e quindi contesta la sussistenza del fumus del reato nonchè la motivazione. Contesta altresì la sussistenza del periculum e passa ad analizzare le singole fatture rilevandone la regolarità.

La censura merita la stessa sorte delle precedenti perchè, così come articolata, investe esclusivamente vantazioni in fatto e ripropone una diversa valutazione del materiale probatorio, sollecitando in definitiva il collegio ad una attività assolutamente preclusa nel giudizio di legittimità.

Quanto, infine, alla omessa motivazione sulla sussistenza del periculum, il motivo difetta di specificità (artt. 581 c.p.p., lett. c, e art. 591 c.p.p., lett. c), perchè dal ricorso non risulta che la questione sia stata sollevata in sede di riesame.

Non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sentenza 13.6.2000 n. 186), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 616 c.p.p., nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 29 maggio 2013.

Redazione