Sequestro a fini di estorsione: possibile applicare l’attenuante della particolare tenuità del fatto (Cass. pen. n. 37433/2012)

Redazione 28/09/12
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 8.4.2009 il Tribunale di Modena riteneva B. H.Y., K.F., O.A., H. A. e D.M., colpevoli, in concorso tra loro e con altri due imputati separatamente giudicati, del sequestro di persona a scopo di estorsione in danno di HA.Ja., commesso in (omissis). Riconosciute le circostanze attenuanti generiche e quella di cui all’art. 62 c.p., n. 4, ritenute prevalenti sulla aggravante contestata in fatto di cui all’art. 112 c.p., n. 1, condannava il B.H. e l’H. alla pena di anni dodici di reclusione, il K., l’O. ed il D. alla pena di anni undici, mesi uno e giorni dieci di reclusione ciascuno.

La Corte d’appello di Bologna in data 1.10.2010, in parziale riforma della decisione di primo grado rideterminava la pena inflitta al B. H. e all’H. in anni undici mesi uno e giorni dieci di reclusione, confermando nel resto la sentenza appellata.

2. Richiamata la decisione di primo grado, la Corte di merito affermava che il giudice di primo grado aveva compiutamente esposto e correttamente valutato le risultanze dell’istruttoria dibattimentale, ritenendo provato l’episodio criminoso sulla base: delle dichiarazioni testimoniali della persona offesa, HA.Ja., del fratello di questi, HA.Ab., e di H.H., ex convivente dell’imputato H.A. e madre del figlio avuto da questi; dei dati tratti dai tabulati telefonici delle utenze utilizzate dagli imputati che hanno consentito di ricostruirne gli spostamenti sul territorio; di quanto osservato e accertato dagli investigatori.

Svolgeva, quindi, dettagliate valutazioni in ordine alle argomentazioni poste a fondamento degli atti di appello.

3. Avverso la citata sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati con separati atti.

3.1. K.F. ha proposto ricorso personalmente chiedendo in via principale l’assoluzione e in linea gradata la qualificazione del fatto in sequestro di persona ex art. 605 cod. pen. eventualmente in concorso con il reato di tentata estorsione, ovvero, riqualificare il fatto come favoreggiamento e ingiurie o minacce o violenza privata.

Deduce l’insussistenza del reato di cui all’art. 630 cod. pen. atteso che non erano stati usati impedimenti o violenza tanto che la persona offesa si era spostata in vari luoghi.

Rileva, altresì, di avere partecipato soltanto alla fase iniziale del sequestro.

3.2. D.M. ha proposto ricorso a mezzo del difensore di fiducia.

Deduce, in primo luogo, la violazione dell’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c) con conseguente nullità del decreto che dispone il giudizio già eccepita nel giudizio di primo grado e con i motivi di appello.

Il decreto che dispone il giudizio è carente dei requisiti di precisione e completezza in quanto quello che è stato considerato un mero errore di battitura non attiene ad una piccola parte dell’imputazione ma alla metà dell’imputazione rendendone incomprensibile il contenuto soprattutto per gli imputati stranieri.

Con il secondo motivo di ricorso si contesta sotto il profilo della violazione di legge la sussistenza del reato di cui all’art. 630 cod. pen.. Ad avviso del ricorrente, come affermato da un orientamento maggioritario precedente alla decisione delle Sez. U. n. 962 del 2003, il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione sussiste soltanto se l’autore del sequestro ha agito in assenza di una causa preesistente al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, mentre non è configurabile, mancando tale fine, quando il sequestro ed il perseguimento del profitto siano direttamente collegabili ad una preesistente causa, ancorchè illecita, come quella ravvisabile nel caso di specie, relativa ad una pretesa creditoria conseguente ad un pregresso rapporto con il soggetto passivo.

Contesta, quindi, che alla luce della ricostruzione del fatto possa ritenersi la condotta del sequestro della persona offesa, analizzando a tal fine i diversi segmenti della condotta posta in essere dagli imputati e rilevando come sia a dir poco anomala la circostanza che la persona sequestrata fosse portata in giro in diverse località incontrando persone con le quali liberamente parlava e come emerso dalla testimonianza del B. che senza alcuna motivazione logica è stato ritenuto non attendibile. Contesta, altresì, la sussistenza di richieste estorsive, atteso che la persona offesa aveva affermato di non aver sentito alcuna richiesta di riscatto per la sua liberazione. Pertanto, ad avviso del ricorrente la Corte territoriale avrebbe quantomeno dovuto ritenere il reato di sequestro ex art. 605 cod. pen. ovvero di tentata estorsione.

Con atto depositato in data 12.4.2012 il ricorrente propone motivi nuovi con il quali lamenta il travisamento della prova, con riferimento a plurime circostanze sulle quali fonda la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito ed, in particolare, la affermata responsabilità del ricorrente. Il fratello della vittima ha indicato in maniera incerta le persone presenti al distributore di carburante per riscuotere il riscatto ed in dibattimento non ha riconosciuto il ricorrente, bensì il coimputato B.H. che certamente non era presente. Contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, non sono emersi elementi idonei ad inferire il contributo causale del ricorrente alla realizzazione del fatto e la consapevolezza della finalità degli autori del sequestro di ottenere il danaro, tenuto conto, in specie, che il traffico telefonico tra gli imputati non vede mai coinvolto il ricorrente fatta eccezione per una telefonata delle 19.22. intervenuta tra il ricorrente e l’ O. che ben poteva avere altre motivazioni; lamenta, quindi, il vizio della motivazione ed il travisamento della prova.

Contesta la valutazione della Corte di merito in ordine alla consapevolezza della richiesta di riscatto atteso che dalla stessa sentenza emerge con chiarezza che il danaro era stato chiesto al fratello della vittima da K.K.; nè è stato indicato alcun motivo logico per il quale il ricorrente si fosse determinato a porre in essere, insieme ad altre persone in parte non conosciute, una tale condotta per ottenere una somma di danaro di scarso rilievo.

Denuncia la violazione di legge ed il vizio della motivazione, per palese illogicità, della sentenza impugnata avuto riguardo alla valutazione della attendibilità dei testimoni dell’accusa ed a quella di assoluta inattendibilità dei testimoni della difesa.

3.3. B.H.Y. propone a mezzo del difensore di fiducia cinque motivi di ricorso.

In primo luogo, deduce la violazione dell’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c) e conseguente nullità del decreto che dispone il giudizio già eccepita nel giudizio di primo grado e con i motivi di appello.

Lamenta, quindi, il vizio della motivazione della sentenza impugnata rilevando che, a differenza di quanto affermato dalla Corte di merito, non sussiste la prova della consapevolezza della richiesta di riscatto atteso che è emerso con evidenza che la formulazione della richiesta estorsiva, danaro in cambio della liberazione, era stata autonomamente formulata per la prima volta da altra persona, *****, quando il ricorrente si trovava in luogo lontano e diverso;

pertanto, la richiesta di danaro non ha mai visto direttamente coinvolto il ricorrente. Ad avviso del ricorrente, sul punto la Corte di merito non ha in alcun modo motivato nonostante le specifiche doglianze contenute nell’atto di gravame.

Denuncia, altresì, il vizio di motivazione ed il travisamento della prova con riguardo all’affermazione contenuta nella sentenza impugnata della generica responsabilità degli imputati in mancanza di distinzione tra i singoli ruoli ed in ordine alla consapevolezza da parte del ricorrente delle condotte dei coimputati, in violazione del principio di cui all’art. 533 cod. proc. pen. (oltre il ragionevole dubbio).

Con il quarto motivo di ricorso si lamenta la mancata applicazione dell’art. 116 cod. pen. atteso che, come riconosciuto dalle sentenze di primo e secondo grado, certamente i correi non avevano inizialmente deciso il sequestro della persona offesa per chiedere un riscatto al fratello, bensì tale richiesta di danaro era stata una decisione estemporanea di uno dei correi avvenuta in un momento successivo.

L’ultimo motivo di ricorso si riferisce al dedotto vizio di motivazione in relazione alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen. rilevata dalla difesa.

Con memoria depositata 18 aprile 2012 B.H.Y. ribadisce le doglianze in ordine alla motivazione della sentenza impugnata avuto riguardo a tale ultima questione.

3.4. H.A. ha proposto ricorso personalmente.

Con il primo motivo di ricorso deduce la violazione degli articoli 3 e 27 Cost. con riferimento all’art. 630 cod. pen. sulla quale era stata fondata la questione di legittimità costituzionale che la Corte d’appello ha ritenuto manifestamente infondata. Con articolata esposizione ribadisce le argomentazioni poste a fondamento della rilevata questione anche con riferimento alla mancata previsione in relazione al reato di cui all’art. 630 cod. pen. di una circostanza attenuante speciale per i fatti di lieve entità.

Il ricorrente, quindi, deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta attribuibilità allo stesso di una richiesta estorsiva, atteso che non è emerso alcun elemento idoneo ad affermare la partecipazione oggettiva e soggettiva del ricorrente alla richiesta estorsiva formulata al fratello della persona offesa direttamente dal K. in un momento successivo alla presenza del ricorrente.

3.5. O.A. ha proposto ricorso a mezzo del difensore di fiducia affermando che il complesso motivazionale delle sentenze di primo secondo grado è inidoneo a spiegare le ragioni dell’affermata responsabilità in ordine al reato contestato. La Corte di appello, nonostante le specifiche doglianze del ricorrente, si è limitata a rinviare per relationem alla sentenza di primo grado e ad utilizzare affermazioni apodittiche e carenti sotto il profilo logico.

Deduce, quindi, la mancanza o mera apparenza della motivazione in ordine alla sussistenza del reato di sequestro di persona, in specie con riferimento ai dubbi rappresentati in ordine all’effettivo stato di cattività della persona offesa ed alla attendibilità della ricostruzione dei fatti operata dai testi di accusa della cui attendibilità era stata omessa qualsivoglia valutazione con particolare riferimento ai diversi momenti in cui si sarebbe realizzato il sequestro dal momento iniziale del prelevamento sotto casa della persona offesa in poi. Si lamenta, altresì, la mancata motivazione in ordine alla presenza nei diversi momenti ed alla condotta da posta in essere dai singoli coimputati con particolare riferimento alla posizione dell’ O..

Il ricorrente contesta, quindi, la motivazione con la quale la Corte di merito ha respinto la richiesta di confronto con A.J. in ordine all’accertamento della sua presenza all’atto del prelevamento del predetto.

Infine, denuncia l’omessa motivazione in ordine alla richiesta subordinata volta alla qualificazione del fatto contestato nel reato di tentata estorsione.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente, deve rilevarsi l’infondatezza della denunciata violazione dell’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c) e della conseguente nullità del decreto che dispone il giudizio per carenza dei requisiti di precisione e completezza.

L’eccezione formulata nel giudizio di primo e secondo grado e riproposta dai ricorrenti B.H.Y. e D.M., avuto riguardo ad un errore di battitura che renderebbe incomprensibile il contenuto dell’imputazione, è stata correttamente esaminata dalla Corte territoriale che ha affermato che la trascrizione per due volte di due parti dell’imputazione, derivata da evidente mero errore di battitura, non ha determinato alcuna alterazione di conoscibilità e comprensibilità dell’addebito mosso ai ricorrenti, atteso che l’imputazione riportata nel decreto di citazione a giudizio non contiene incongruenze logiche, consentendo a chiunque, anche ad un alloglotta, di leggere l’accusa.

Invero, la mera ripetizione di parti della contestazione a causa di doppia trascrizione di parte dell’imputazione non può in sè incidere negativamente sulla chiarezza e precisione della enunciazione del fatto necessarie ai fini della validità dell’atto ai sensi dell’art. 429 cod. proc. pen..

2. Quanto ai rilievi mossi da tutti i ricorrenti in ordine alla motivazione della sentenza impugnata, in specie avuto riguardo alla prova della sussistenza del reato di cui all’art. 630 cod. pen. e della responsabilità dei singoli ricorrenti, il Collegio ribadisce che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia sia effettiva e non meramente apparente; che non sia “manifestamente illogica”, ossia risulti sorretta nei suoi punti essenziali da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; che non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; che non risulti logicamente incompatibile con altri atti del processo (Sez. 6, n. 10915, 15/03/2006, ******). Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione di carattere necessariamente unitario e globale sulla reale esistenza della motivazione e sulla permanenza della resistenza logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. E d’altro canto, perchè sussista il vizio di motivazione non è sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente contrastanti con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.

Esaminata in quest’ottica, la verifica della consistenza dei rilievi critici mossi dai ricorrenti deve essere effettuata, peraltro, tenendo conto della sentenza di primo grado, sviluppandosi entrambi i giudizi di merito secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti, di tal che – sulla base di un consolidato indirizzo della giurisprudenza di questa Corte – deve ritenersi che la motivazione della prima si saldi con quella della seconda formando un complessivo corpo argomentativo e un tutto unico e inscindibile (Sez. U., 04/02/1992, ******; Sez. 1, 21/03/1997, Greco; Sez. 1, 04/04/1997, ********), essendo, come è noto, consentita nel giudizio di appello la motivazione per relationem con riferimento alla pronuncia di primo grado nel caso in cui le censure formulate a carico delle sentenza del primo giudice non contengano elementi di novità rispetto quelli già esaminati e disattesi dallo stesso (Sez. 4, n. 38824, 17/09/2008, ****, rv. 241062).

2.1. Tanto ribadito, le doglianze dei ricorrenti in ordine alla valutazione della prova della partecipazione ai fatti sono destituite di fondamento, con la precisazione per quel che riguarda il D. che i motivi nuovi introdotti con l’atto depositato il 12.4.2012, all’evidenza, esulano del tutto da quelli riferibili esclusivamente alla configurabilità del reato contestato di cui all’atto di ricorso dei quali, invece, dovrebbero rappresentare soltanto uno sviluppo ulteriore o una migliore esposizione collegabili, comunque, ai capi e ai punti già dedotti (Sez. 1, n. 46950 del 02/11/2004 – dep. 02/12/2004, Sisic, rv. 230281).

La Corte territoriale ha indicato, in parte con richiami alla sentenza di primo grado, il percorso attraverso il quale è pervenuta al proprio convincimento ed ha esaminato tutti i punti in contestazione, operando, altresì, una valutazione critica degli elementi posti a fondamento della decisione di primo grado.

A differenza di quanto sostenuto da alcuni ricorrenti, ha sottoposto a vaglio attento e critico (p. 23-38 e p.51-56) l’attendibilità dei tre principali testimoni (la persona offesa, il fratello Ha.A. e H.H.) attraverso le cui dichiarazioni è stata operata la ricostruzione dei fatti che, come ha sottolineato la Corte di merito, si sono in parte verificati alla presenza della polizia giudiziaria procedente. Infatti, sin dal momento in cui Ha.A. e H.H. si erano recati al commissariato di Carpi per denunciare quanto accaduto ad Ha.Ja. gli investigatori avevano avuto modo di seguire direttamente gli avvenimenti, in particolare assistendo personalmente ai contatti tra gli estorsori ed il fratello della vittima, potendo, così, identificare i personaggi coinvolti. Gran parte delle trattative relative alla consegna del danaro richiesto erano avvenute sotto la percezione degli investigatori per poi condurli presso il distributore di carburante dove doveva avvenire la consegna del danaro e dove si erano presentati il D. ed altri due sodali ai quali il fratello della vittima, alla presenza della polizia, aveva mostrato il danaro che aveva raccolto. Tali circostanze sono, ad avviso dei giudici di merito, in contraddizione con la tesi degli imputati che Ha.J. aveva accettato volontariamente di seguirli senza essere in alcun modo costretto; così come la circostanza che l’ A., contattato dalla polizia al numero di telefono fornito dalla H., non aveva detto che la vittima si trovava insieme a lui ed aveva sostenuto, invece, di trovarsi a (omissis) mentre dai tabulati telefonici emergeva che era a (omissis).

La Corte ha, altresì, sottolineato come l’attendibilità e credibilità dell’ H. e della H. si possa desumere dalla circostanza che gli stessi si erano presentati spontaneamente al commissariato denunciando i fatti che erano in corso di accadimento e che avevano trovato conferma sia in quanto accertato presso il distributore, sia nell’avvenuto ritrovamento della parte offesa nell’appartamento di uno degli imputati, nonchè, nella ricostruzione dei numerosi contatti telefonici tra i coimputati durante le ore in cui si erano verificati i fatti, come emersi dagli accertamenti sui tabulati telefonici e dai tracciati delle celle occupate dai telefoni in uso agli imputati. Da questi il giudice di prime cure aveva tratto una serie di argomenti logici (p. 29-34) che la Corte territoriale ha ritenuto corretti e che, invero, non risultano in alcun modo contraddetti da oggettivi elementi di fatto introdotti dai ricorrenti che, piuttosto genericamente, ne hanno contestato la rilevanza.

Anche il racconto della vittima – la ricostruzione del prelevamento da parte di un gruppo di sette o otto persone sotto casa dell’ H., l’intimazione a seguirli presso un bar e poi a salire sulla Fiat Punto accompagnata da minacce di morte ed il trasferimento presso l’abitazione dove poi Ha.Ja. era stato trovato dalla polizia – nonchè l’indicazione fatta dal predetto delle persone che avevano partecipato alle diversi fasi, hanno formato oggetto di puntuale valutazione da parte dei giudici di merito che hanno rilevato come il narrato della persona offesa sia assolutamente compatibile con gli accertamenti della polizia giudiziaria ed, in particolare, con quanto riscontrato sia all’atto dell’irruzione presso l’abitazione del M. e del K., sia a seguito delle verifiche delle celle attivate dai telefoni in uso dagli imputati nelle ore in cui l’ H. ha dichiarato di essere stato privato della libertà personale, nonchè, sotto diverso profilo, con le dichiarazioni degli imputati che non hanno in alcun modo negato di avere composto i due equipaggi come ricostruiti dalla vittima, di avere effettuato il percorso e le soste come dallo stesso riferite, di essersi poi portati presso l’abitazione del M., asserendo, invece che l’ H. si era accompagnato loro volontariamente, senza subire alcuna costrizione o che, in ogni caso, la contestuale presenza di ciascuno era stata del tutto casuale e non preordinata.

In ordine alle deduzioni difensive relative alle incertezze mostrate nelle testimonianza resa in dibattimento dal fratello della vittima, Ha.Ab., la Corte territoriale ha puntualmente rilevato che tali incertezze erano superate dalle circostanze indicate dal testimone agli investigatori nel momento stesso in cui i fatti si svolgevano e che, pertanto, la polizia aveva avuto modo di verificare e apprendere direttamente.

La interpretazione dell’accaduto offerta dai ricorrenti è stata contraddetta, quindi, dalla Corte territoriale con argomenti logicamente ineccepibili, coerenti con le suddette affermazioni ed ancorati a quanto emerso nel processo (p. 40 e ss).

Numerose sono le circostanze di fatto ritenute rilevanti ai fini della affermata sussistenza di un progetto condiviso dagli imputati, idoneo a configurarne la responsabilità a titolo di concorso, benchè attuato con modalità piuttosto semplici e non eclatanti.

Oltre quelle già indicate: la reazione da parte dell’ H. e dei coimputati che si trovavano con lui alla telefonata della polizia, effettuata mentre i due equipaggi si trovavano – come risultava confermato dai tabulati – insieme nel territorio di (omissis), del tutto sintomatica del loro coinvolgimento e del fatto che effettivamente la vittima fosse stata sequestrata dal gruppo; i numerosissimi e non altrimenti spiegati contatti telefonici tra gli imputati e tra questi e l’ H. ed il fratello della vittima, Ha.Ab., nelle ore in cui si verificavano i fatti; la circostanza che il D., il M. ed il K. si fossero recati presso il distributore di carburante avendo preso appuntamento con il fratello della persona offesa, dopo gli innumerevoli contatti telefonici che quest’ultimo aveva avuto anche con altri ( H. e B.H.), mentre la vittima veniva trattenuta in un’abitazione sita nei pressi da B.H., da K. ed O. (alla presenza anche dell’ H.) in inequivocabile stato di costrizione, come era stato poi riscontrato dagli investigatori sul posto anche alla luce della reazione del tutto spontanea della vittima all’atto dell’irruzione della polizia armata ma in abiti civili.

La Corte di appello ha delineato (p. 43-49) compiutamente il contributo causale cosciente e volontario di ciascun imputato alla condotta delittuosa, evidenziando correttamente come siano del tutto irrilevanti le possibili diverse motivazioni che avevano spinto ciascuno al progetto illecito.

Ha, quindi, sottolineato che: l’ H. aveva attivamente partecipato sin dall’inizio al sequestro avendo affrontato la vittima sotto casa dell’ H. costringendola a seguire il gruppo, telefonando continuamente alla donna utilizzando la propria scheda o quella di B.H. e di K. e seguendo i correi fino all’ultima fase, quella della prigionia in casa del M.; il B. H. era stato costantemente presente accanto all’ H. anche sotto casa dell’ H. e, quindi, sulla Fiat Punto, nonchè, in casa del M.; il D. si era portato al distributore per riscuotere il riscatto; l’ O. era stato trovato a casa del M. dove la persona offesa veniva trattenuta, non potendosi dare credibilità alla versione dei predetti due imputati secondo la quale si trovavano casualmente nei luoghi in cui erano intervenuti gli investigatori seguendo le tracce del fratello della vittima; inoltre, proprio l’ O. ed il D. erano in auto con il K. che da un certo momento in poi aveva tenuto i più stretti contatti con Ha.Ab. per avanzare le richieste di riscatto.

Avuto riguardo alla predetta richiesta della somma di danaro avanzata al fratello della vittima con il conseguente appuntamento presso il distributore di carburante la Corte di appello ha chiarito come, indipendentemente dal possibile movente del sequestro di persona, essa fosse indiscutibilmente legata alla liberazione dell’ostaggio e non fosse frutto di una iniziativa estemporanea di alcuni dei partecipi.

Alla luce di ciò si palesa infondata anche la doglianza dell’ O. in ordine al mancato confronto tra il predetto imputato e la persona offesa, come ha correttamente rilevato la Corte di merito (p. 57-58).

Pertanto, i rilievi e gli argomenti dei ricorrenti in ordine alla partecipazione a titolo di concorso nel reato in contestazione ed al contributo causale fornito, in particolare per il B.H., il D., l’ O. e l’ H. non sono idonei a fondare i censurati vizi di motivazione, sostanziandosi nella rappresentazione di una possibile diversa valutazione di alcune circostanze emerse nel processo non idonee a contraddire la complessiva analisi degli elementi acquisiti operata dai giudici di merito ed esplicitata attraverso una motivazione esente da manchevolezze, da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni.

Deve rilevarsi, altresì, la genericità ed infondatezza del travisamento della prova denunciato da alcuni ricorrenti ( D., B.H., O.). Invero, la categoria logico-giuridica del travisamento della prova deve essere in primo luogo tenuta distinta da quella concernente il vizio di travisamento del fatto. La prima, infatti, a differenza del secondo, implica non una rivalutazione del fatto, che è incompatibile con il giudizio di legittimità, ma la constatazione che esiste una palese divergenza del risultato probatorio rispetto all’elemento di prova emergente dagli atti processuali e che, quindi, una determinata informazione probatoria utilizzata in sentenza, oggetto di analitica censura che deve essere chiaramente argomentata, è contraddetta da uno specifico atto processuale, pure esso da indicarsi specificamente. Il travisamento di prova si configura, in sostanza, quando il giudice di merito ha utilizzato una prova inesistente o ha presupposto come esistente una prova non assunta.

Peraltro, è stato in più occasioni precisato che il vizio di travisamento della prova è ravvisabile quando l’errore sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 1, n. 24667, 15/06/2007, ********, rv. 237207).

Tanto ribadito, nella specie i ricorrenti non hanno individuato alcuna specifica contraddizione con gli elementi acquisiti in atti, peraltro genericamente indicati, e, in ogni caso, non hanno dedotto la rilevanza del presunto travisamento ai fini della complessiva tenuta della motivazione. In sostanza, i ricorrenti hanno ricondotto alla categoria logico-giuridica della prova “travisata” non l’omessa pronunzia su un significativo dato processuale o probatorio, nè la palese divergenza del risultato probatorio rispetto all’elemento di prova emergente dagli atti processuali, bensì la ipotizzata erronea valutazione della concludenza degli elementi di prova, avvenuta, invece, nel rispetto dei principi già innanzi richiamati che devono presiedere la struttura logica della motivazione ed, altresì, della regola di giudizio di cui all’art. 192 c.p.p., comma 2. Detta norma, lungi dal limitare l’operatività del principio del libero convincimento del giudice, codifica due canoni di valutazione, peraltro, già da tempo acquisiti all’esperienza giurisprudenziale:

il primo relativo alla chiamata di correo, il secondo, per il quale l’esistenza di un fatto può essere ritenuta certa soltanto in presenza di indizi che siano gravi, precisi e concordanti. Di conseguenza, esso non consente al giudice di legittimità un controllo sul significato concreto di ciascun indizio, ma gli conferisce solo il compito di verificare l’adeguatezza e la coerenza logica delle argomentazioni con le quali sia stata dimostrata la valenza probatoria dei vari indizi, in se stessi e nel loro reciproco collegamento (Sez. 6, n.1898, 17/11/1992, Altamura, rv. 193781; Sez.6, n. 20474, 15/11/2002, **********, rv. 225245).

Per tutte le predette valutazioni deve escludersi, altresì, la violazione del principio secondo il quale il giudice deve ritenere intervenuto l’accertamento di responsabilità dell’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che ne legittima ai sensi dell’art. 533 c.p.p., comma 1, la condanna, quando il dato probatorio acquisito lascia fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 1. n. 31456, 21/05/2008, ********, rv. 240763).

2.2. Quanto alla configurabilità della fattispecie di cui all’art. 630 cod. pen., la Corte territoriale ha rilevato che – tenuto conto della valutazione unitaria, innanzi esaminata, dei diversi segmenti della condotta posta in essere dagli imputati e delle circostanze di fatto che impongo di ritenere senza alcun dubbio che la persona offesa era stata costretta a seguire le persone che si erano presentate sotto l’abitazione della H. ed era stata sempre tenuta sotto stretto controllo – la richiesta di danaro avanzata al fratello era finalizzata alla liberazione dell’ H., come, del resto, emergeva univocamente dalle circostanze riferite dai tre testimoni, pienamente confermate dagli accertamenti della polizia. E gli imputati erano tutti consapevoli che la costrizione operata in danno della parte offesa aveva come obiettivo anche quello di estorcere una somma di danaro al fratello, così come desumibile senza alcun dubbio dalla ricostruzione dei fatti.

Pertanto, correttamente i giudici di merito hanno ritenuto la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di sequestro a scopo di estorsione in presenza di una correlazione univoca tra la richiesta di consegna del denaro e la liberazione della vittima e che i diversi intenti che possono avere mosso i singoli correi rilevano solo come motivi dell’azione delittuosa e della adesione di ciascuno al progetto criminoso, ma non sono idonei ad escludere la finalità estorsiva del sequestro e, quindi, a configurare nel fatto come ricostruito le fattispecie di cui agli artt. 605 e 629 cod. pen..

La Corte di merito, peraltro, ha sottolineato come pur nell’ipotesi che la vittima fosse stata privata della libertà in conseguenza di un pregresso rapporto anche illecito con gli imputati, la condotta accertata configurerebbe comunque il reato contestato di cui all’art. 630 cod. pen..

Sul punto vanno ritenute infondate le censure dei ricorrenti secondo i quali il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione sussiste soltanto se l’autore del sequestro ha agito in assenza di una causa preesistente al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, mentre non è configurabile, mancando tale fine, quando il sequestro ed il perseguimento del profitto siano direttamente collegabili ad una preesistente causa, ancorchè illecita, come quella che sarebbe ravvisabile nel caso di specie relativa ad una pretesa creditoria conseguente ad un pregresso rapporto con il soggetto passivo.

Si tratta, come è noto, di orientamento giurisprudenziale superato a partire dalla decisione delle Sez. U, n. 962 del 17/12/2003, rv. 226489 con la quale è stato affermato che la condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimoniale, pretesa in esecuzione di un precedente rapporto illecito, integra il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 cod. pen. e non il concorso del delitto di sequestro di persona (art. 605) con quello di estorsione, consumata o tentata (artt. 629 e 56 stesso codice) (Sez. 1, n. 16177 del 11/02/2010 – dep. 26/04/2010, Adam, rv. 247230; Sez. 5, n. 12762 del 22/03/2006 – dep. 11/04/2006, ******, rv. 234553).

Nè, all’evidenza, può essere ravvisata nella condotta di taluni il delitto di favoreggiamento trattandosi di condotte poste in essere nel corso dell’esecuzione del reato e non successivamente alla sua consumazione.

2.3. E’ infondata, tenuto conto di quanto innanzi rilevato in ordine alla posizione del B.H., la denunciata violazione di legge ed il vizio della motivazione della sentenza impugnata avuto riguardo alla mancata applicazione al ricorrente dell’art. 116 cod. pen..

Sul punto la Corte di appello ha motivato (p. 61) facendo corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale la responsabilità a titolo di concorso anomalo, ex art. 116 cod. pen., in ordine al reato più grave e diverso da quello voluto sussiste qualora vi sia la volontà di partecipare con altri alla realizzazione di un determinato fatto criminoso ed esista un nesso causale nonchè psicologico tra la condotta del soggetto che ha voluto solo il reato meno grave e l’evento diverso, nel senso che quest’ultimo deve essere oggetto di possibile rappresentazione in quanto logico sviluppo, secondo l’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, di quello concordato, senza peraltro che l’agente abbia effettivamente previsto ed accettato il relativo rischio, poichè in tal caso ricorrerebbe l’ipotesi di concorso ex art. 110 cod. pen. (Sez. 5, n. 39339 del 08/07/2009 – dep. 09/10/2009, *****, rv. 245152).

La Corte di appello, infatti, richiamando le precedenti valutazioni in ordine a quanto accertato in relazione alla posizione del B. H., ha sottolineato come lo stesso abbia avuto un ruolo fondamentale e consapevole nella realizzazione del programma comune così come esattamente è stato realizzato; pertanto, nei confronti del ricorrente è configurabile il concorso ex art. 110 cod. pen. nel reato di sequestro di persona a scopo di estorsione.

In particolare, i giudici di merito hanno evidenziato la presenza del ricorrente, unitamente all’ O., al K. e all’ H. nell’abitazione in cui era controllata al vittima, mentre gli altri tre correi si recavano a ritirare il riscatto, fornendo in tal modo un contributo essenziale alla riuscita del progetto criminoso.

3. Come si è detto alcuni ricorrenti hanno espressamente dedotto censure in ordine alla valutazione operata dalla Corte di appello sulla prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen. avuto riguardo alla configurabilità dell’ipotesi lieve.

Invero, con la sentenza n. 68 del 2012 la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità dell’art. 630 cod. pen. nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

La Corte, quindi, ha censurato – sul presupposto che la norma impugnata prevede una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza non ragionevolmente proporzionata all’intera gamma dei fatti riconducibili al modello legale – la mancata previsione di una circostanza attenuante che consenta al giudice di mitigare la risposta punitiva, in presenza di elementi oggettivi rivelatori di una limitata gravità del fatto, sulla falsariga di quanto è consentito dall’art. 311 cod. pen. in rapporto al sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo. Alla luce della comparazione con la predetta norma è stata ritenuta manifestamente irrazionale – e dunque lesiva dell’art. 3 Cost. – la mancata previsione, in rapporto al sequestro di persona a scopo di estorsione, di una attenuante per i fatti di lieve entità analoga a quella applicabile alla fattispecie “gemella”, tanto più considerando che detta attenuante, rientrante nel novero delle circostanze cosiddette indefinite o discrezionali, assolve alla funzione di mitigare, in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pencolo), una risposta punitiva improntata ad eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale con conseguente concorrente violazione dell’art. 27 Cost., comma 3, nel suo valore fondante, in combinazione con l’art. 3 Cost., del principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente commesso, sul rilievo che una pena palesemente sproporzionata – e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato – vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa.

Dopo l’intervento della citata decisione della Consulta che ha mutato, quindi, il quadro normativo di riferimento si impone la valutazione della configurabilità nella fattispecie dell’ipotesi lieve, tenuto conto delle connotazioni della condotta dei ricorrenti.

Tanto comporta l’annullamento della sentenza impugnata per tutti gli imputati che hanno, comunque, proposto ricorso in ordine alla configurabilità della fattispecie di cui all’art. 630 cod. pen..

P.Q.M.

A scioglimento della riserva adottata all’udienza del 23.4.2012, la Corte così provvede:

annulla la sentenza impugnata limitatamente alla sussistenza del fatto di particolare tenuità e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.

Rigetta nel resto i ricorsi.

Redazione