Sentenza oggetto di impugnazione, data di deposito, data di pubblicazione, questione di legittimità costituzionale (Cass. n. 26251/2013)

Redazione 22/11/13
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Ordinanza

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ricorso depositato il 19 novembre 1989 nella cancelleria dell’allora Pretura di Napoli, la sig.ra V.E., premesso di essere proprietaria di un terraneo sito in (omissis), condotto in locazione ad uso rivendita di vini e cibi cotti dal sig. P.A., nonchè delle due unità ad esso soprastanti, pure locate a terzi, chiedeva l’emissione di un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., al fine di conseguire l’ordine di sgombero dei locali a causa delle infiltrazioni in atto nei suddetti immobili. Ottenuto il provvedimento cautelare pretorile, la V., con atto di citazione notificato il 31 ottobre 1990, introduceva il conseguente giudizio di merito nei confronti del P.A. dinanzi al Tribunale di Napoli, onde sentir confermato il suddetto provvedimento e conseguire la condanna dello stesso convenuto al risarcimento dei danni. Costituendosi in, giudizio il P. chiedeva il rigetto delle domande attrici e, in via riconvenzionale, invocava la condanna della V. al risarcimento dei danni per mancato uso della cosa locata, instando, simultaneamente, per la chiamata in causa del Condominio di via (omissis), nei cui confronti si rendeva necessario estendere il contraddittorio. Intervenivano, poi, volontariamente in giudizio M.A. e M.G., a seguito del decesso della dante causa V.E., mentre il predetto Condominio, evocato in giudizio, rimaneva contumace.

La Sezione stralcio dell’adito Tribunale di Napoli, con sentenza n. 8727 del 2003, convalidava il provvedimento d’urgenza e rigettava le altre domande.

Proposto appello da parte del P., al quale resistevano M.A. e M.G. (che formulavano, a loro volta, appello incidentale), nella contumacia del predetto Condominio, la Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 3137 del 2006 (depositata il 7 novembre 2006), dichiarava l’inammissibilità del gravame principale e la conseguente inefficacia di quello incidentale, compensando tra le parti costituite le spese del grado.

A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte partenopea ravvisava l’inammissibilità dell’appello del P. sul presupposto che lo stesso (depositato il 13 luglio 2004) fosse stato proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c., considerando che esso si sarebbe dovuto far decorrere dalla data dell’8 aprile 2003, in cui era stata annotato dal cancelliere – in calce alla sentenza impugnata – l’avvenuto deposito della sentenza stessa (al quale ricondurre la giuridica esistenza del provvedimento ai sensi dell’art. 133 c.p.c., comma 1), e non dalla data del 28 luglio 2003, alla quale di riferiva l’annotazione successivamente apposta dallo stesso cancelliere relativa all’attestazione dell’intervenuta pubblicazione della sentenza medesima.

2. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto rituale ricorso per cassazione il P. riferito a due motivi, in ordine al quale nessuna delle parti intimate ha svolto attività difensiva in questa sede. All’esito della camera di consiglio e della relativa votazione sulla soluzione decisoria da adottare, il Presidente del collegio ha affidato la stesura della motivazione della presente ordinanza al Cons. Carrato.

3. Con il primo motivo il ricorrente, denunciando la violazione e l’errata applicazione dell’art. 327 c.p.c., in riferimento all’art. 133 c.p.c., ha assunto che la Corte territoriale aveva illegittimamente dichiarato l’appello inammissibile in quanto tardivo avendo fatto decorrere il termine annuale (maggiorato di quello imputabile alla sospensione feriale) per l’impugnazione, anzichè dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado del 28 luglio 2003, coincidente con quella annotata nel registro cronologico ed attestata dalla cancelleria nell’avviso di deposito notificato ai procuratori, da quella antecedente dell’8 aprile 2003, in base ad una generica attestazione di deposito apposta in calce alla sentenza stessa. A sostegno della formulata censura il P. ha inteso affermare che alla prima attestazione non si sarebbe potuta riconoscere alcuna valenza certificativa ufficiale, sia perchè appariva del tutto incerta l’attribuzione al cancelliere, sia perchè la relativa stampigliatura non consentiva di determinare con certezza se l’atto depositato a quella data rispondesse a tutti i requisiti di esistenza della sentenza. A tal riguardo lo stesso ha ulteriormente evidenziato che, ai sensi dell’art. 133 c.p.c., mentre il deposito della sentenza costituisce elemento essenziale per l’esistenza della stessa, le altre formalità previste dal secondo comma dello stesso articolo (ovvero l’annotazione in calce, l’annotazione nel registro cronologico e la comunicazione alle parti costituite), pur essendo estrinseche all’atto e, quindi, non incidenti sull’esistenza e sulla validità dello stesso, concorrono, tuttavia, al raggiungimento del complessivo obiettivo a cui è finalizzata la norma, ossia a rendere la decisione pubblica ed accessibile alle parti ed a chiunque vi abbia interesse.

A corredo di tale doglianza il ricorrente ha ritualmente prospettato – ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (“ratione temporis” applicabile nella specie, risultando la sentenza impugnata pubblicata il 7 novembre 2006) – il seguente quesito di diritto: “dica la Corte se è vero che, quanto meno ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c., la data di pubblicazione della sentenza deve coincidere con quella indicata dalla cancelleria nell’avviso di deposito comunicato alle parti, ai sensi dell’art. 133 c.p.c., comma 2, specie se corrispondente a quella formalmente annotata come pubblicazione in calce alla sentenza ed anche se in presenza di altre e precedenti stampigliature”.

Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto il vizio di motivazione circa il punto decisivo della controversia attinente alla ritenuta erronea applicazione degli artt. 133 e 327 c.p.c., denunciando – anche in relazione al citato art. 366 bis c.p.c. – l’illogicità e l’inadeguatezza del percorso argomentativo adottato dalla Corte partenopea nella parte in cui aveva ritenuto che, nell’ipotesi di corrispondenza tra la data di pubblicazione contenuta nella comunicazione ex art. 133 c.p.c., ed una (apposta in data antecedente) delle due apparentemente risultanti in calce al provvedimento, aveva dato prevalenza a quest’ultima, anzichè attribuirle una valenza esclusivamente interna all’Ufficio. In altri termini, la difesa del P. ha inteso porre in risalto che, di fronte alla sussistenza di due diverse annotazioni, la Corte territoriale avrebbe dovuto accertare e motivare “aliunde” – sulla scorta di specifici elementi probatori – la conoscenza da parte di esso appellante della datazione portata dall’annotazione non corrispondente a quella contenuta nell’avviso comunicato dalla cancelleria, non essendo, invece, sufficiente l’apodittica affermazione relativa al momento di venire in essere dell’atto, peraltro resa in assoluto dispregio della formale certificazione rilasciata dalla cancelleria del Tribunale di primo grado e prodotta in atti, attestante la pubblicazione avvenuta in data 28 luglio 2003.

4. Rileva il collegio che le due censure formulate con il ricorso – esaminabili congiuntamente essendo palesemente connesse e riferite alla medesima questione processuale sulla quale si è fondata la sentenza di appello – ripropongono la delicata problematica della corretta e logica interpretazione del combinato disposto dei primi due commi dell’art. 133 c.p.c., in relazione alla previsione contenuta nell’art. 327 c.p.c., riguardante la contemplata decorrenza del c.d. termine lungo (ora, peraltro, ridotto a sei mesi per effetto della modifica apportata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 17, ma applicabile solo ai giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della legge appena citata) per l’impugnazione (in caso di mancata notificazione della sentenza impugnabile) dalla “pubblicazione della sentenza” (per il giudizio in discorso – introdotto nel 1990 – computabile, “ratione temporis”, in un anno e 46 giorni, in base alla pregressa disciplina dello stesso art. 327 c.p.c., comma 1, correlato all’applicabilità della L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1, comma 1, in materia di sospensione dei termini processuali nel periodo feriale dal 1 agosto al 15 settembre).

5. Il collegio è pienamente consapevole che sulla questione in esame è, recentemente, intervenuta, ai fini della risoluzione del contrasto insorto precedentemente in seno alle sezioni semplici, la sentenza delle Sezioni unite n. 13794 del 1 agosto 2012, con la quale è stato affermato il seguente principio di diritto (peraltro consono a quello fatto proprio nella sentenza della Corte di appello di Napoli, qui impugnata): “a norma dell’art. 133 c.p.c., la consegna dell’originale completo del documento-sentenza al cancelliere, nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata, avvia il procedimento di pubblicazione, il quale si compie, senza soluzione di continuità, con la certificazione del deposito mediante l’apposizione, in calce al documento, della firma e della data del cancelliere, che devono essere contemporanee alla data della consegna ufficiale della sentenza, in tal modo resa pubblica per effetto di legge. E’ pertanto da escludere che il cancelliere, preposto, nell’espletamento di tale attività, alla tutela della fede pubblica (art. 2699 c.c.), possa attestare che la sentenza, già pubblicata, ai sensi dell’art. 133 c.p.c., alla data del suo deposito, viene pubblicata in data successiva, con la conseguenza che, ove sulla sentenza siano state apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l’altra di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono già dalla data del suo deposito”. Successivamente si sono conformate a tale principio Cass., sez. 1^, 29 ottobre 2012, n. 18569, e Cass., sez. 3^, 4 aprile 2013, n. 8216.

In particolare, va osservato che la segnalazione di contrasto, negli indirizzi di legittimità, concerneva la identificazione, al fine della decorrenza dei termini per l’impugnazione, della data di pubblicazione della sentenza, rinvenendosi, accanto all’orientamento che fissava tale momento alla data di deposito del provvedimento, anche la tesi che, in presenza di doppia data, ascriveva alla seconda, che menzionasse esplicitamente la pubblicazione della sentenza, il correlativo effetto giuridico, dovendosi, pertanto, intendere la prima data riproduttiva di una mera attestazione del deposito della minuta del provvedimento (quand’anche il documento fosse risultato completo in ogni sua parte) ovvero comunque riferibile ad un adempimento prodromico ed anteriore, riservato al cancelliere ma ancora non integrante la pubblicazione vera e propria.

Con la richiamata sentenza n. 13794 del 2012, le Sezioni unite hanno condiviso la prima tesi, per la quale la prospettazione decisoria finale muove dal riconoscimento che il termine (già previsto ed applicabile “ratione temporis”) di un anno per la proposizione dell’impugnazione stabilito dall’art. 327 c.p.c., “decorre dal giorno della pubblicazione della sentenza e non da quello della comunicazione dell’avvenuto deposito effettuata dal cancelliere alla parte costituita, giacchè l’attività partecipativa del cancelliere resta estranea al procedimento di pubblicazione e non integra un elemento costitutivo nè integrativo dell’efficacia di essa” (in tal senso v. Sez. 2, sentenza n. 10963 del 20 dicembre 1994; Sez. 3, sentenza n. 4220 del 24 aprile 1998; Sez. 3, sentenza n. 14698 del 13 novembre 2000 e, così via fino ad arrivare alle pronunce non massimate, della Sez. L, ordinanza n. 13488 del 3 giugno 2010, della Sez. L, sentenza n. 5096 del 2 marzo 2011 e della Sez. 6 – L, ordinanza n. 13433 del 17 giugno 2011). Il corollario logico che ne veniva fatto derivare, in punto di decadenza dall’impugnazione, consisteva nel rilevare che il termine decorre dalla pubblicazione della sentenza, coincidente con il “deposito in cancelleria della stessa”, a nulla rilevando l’omissione della comunicazione di cancelleria di avvenuto deposito, la quale può dare solamente luogo a conseguenze disciplinari a carico del responsabile” (sul punto v. Sez. L, sentenza n. 15778 del 16 luglio 2007 e Sez. 2, ordinanza n. 14297 del 15 giugno 2010).

Nella giurisprudenza di legittimità risulta esaminata anche l’ipotesi (peraltro non infrequente presso le Cancellerie dei giudici di merito) in cui “la sentenza presenti, oltre la firma del giudice, due timbri di deposito entrambi sottoscritti dal cancelliere: al fine di individuare il giorno del deposito, dal quale decorre il termine di decadenza dall’impugnazione”, in ordine a tale eventualità si era ritenuto che “occorreva far riferimento alla prima data, in riferimento alla quale risultava accertata la formazione della sentenza per la ricorrenza dei requisiti indispensabili prescritti dall’art. 133 c.p.c., comma 1, (ovvero la consegna della sentenza da parte del giudice al cancelliere e il suo contestuale deposito da parte di quest’ultimo), atteso che il successivo timbro di deposito, non potendo attestare un evento già verificatosi (la pubblicazione della sentenza), era riconducibile agli adempimenti a carico del cancelliere medesimo, di cui al secondo comma dell’art. 133 c.p.c.” (cfr. Sez. 2, sentenza n. 20858 del 29 settembre 2009). La sentenza (ed ovviamente, ogni altra pronuncia), intesa come documento riproduttivo del provvedimento da considerarsi finale ed irretrattabile, oltre che conforme al deciso, è consegnata dal magistrato al cancelliere, mentre questi, assumendosene la (doverosa prestazione di) ricezione, da conto del contestuale deposito della stessa agli atti della cancelleria. Verrebbe a concludersi, con tale adempimento da parte del magistrato (denominato consegna nella stessa sentenza delle S.U. n. 13794/12), l’attività di redazione ed ultimazione del contenuto della sentenza, anche per la verifica di corrispondenza del documento finale alla decisione ed inizierebbe, per converso, una fase esterna, di tipo amministrativo che, culminando in attività di comunicazione (e talora notifica) oltre che di annotazione e trasmissione ad altri pubblici registri (o uffici, come quello fiscale), completa l’efficacia della decisione, presupponendone giocoforza la sua avvenuta pubblicazione.

Le Sezioni unite, con la predetta pronuncia (risolutiva del precedente contrasto), hanno inteso precisare che la consegna del documento da parte del magistrato al cancelliere avvia il procedimento di pubblicazione che, però, è destinato a compiersi, con la certificazione di deposito, senza “soluzione di continuità” ed anzi in termini di contemporaneità. La pubblicazione assume dunque il significato di effetto giuridico del deposito da parte del cancelliere, senza che nessun atto diverso di tale pubblico ufficiale sia concepibile, nella descritta vicenda finale della preparazione all’esistenza della sentenza: questa deve intendersi esistente in quanto e da quando resa pubblica mediante il suo deposito da parte del cancelliere, che ne riceve l’originale firmato e controllato dal magistrato decidente.

L’orientamento a cui hanno aderito le Sezioni unite ha inteso, quindi, recepire l’indirizzo per cui “l’attività di attestazione supposta dall’art. 133, è prevista dal comma 2, della norma non come da compiersi una volta avvenuto il deposito, cioè come attività eventualmente successiva e, quindi, non necessariamente contestuale, bensì come attività di attestazione contestuale del deposito (rilevandosi, infatti, come la norma reciti che “il cancelliere da atto del deposito”, onde il dare atto si dovrebbe intendere riferito al deposito). Con la indicata sentenza le Sezioni unite hanno, quindi, voluto superare l’indirizzo che, per le fattispecie di sentenza con doppia data – variamente attestativa o asseverativa di eventi, quali la consegna o il deposito ovvero la qualità di pubblicazione della pronuncia – attribuiva autonomia all’atto di deposito ovvero di pubblicazione da parte dell’organo amministrativo rispetto alla consegna del documento proveniente dal magistrato a ciò legittimato, finendo esso con il conferire al cancelliere una inesistente competenza determinativa ultima circa la stessa nascita della sentenza, comportante un apparente sacrificio di autosufficienza giurisdizionale a fronte della citata maggior tutela delle parti e delle opportunità di impugnazione, considerate obiettivamente dilatate e che, tuttavia, le Sezioni unite non hanno mostrato di condividere. Esse, anzi, hanno rilevato il carattere arbitrario di “qualsiasi ultronea pubblicazione in data successiva a quella di deposito”, sostenendosi, al riguardo, che “il cancelliere non può aggiungere un’attività di pubblicazione che la legge non prevede separatamente dall’attestazione di deposito, nè rendere pubblica la sentenza quando si determina a farlo”, al punto che “ogni altra data apposta sulla sentenza successivamente a quella di deposito di essa è priva di qualsiasi rilevanza per gli effetti giuridici che la legge fa derivare dalla sua pubblicazione”.

6. Il collegio prende atto del menzionato intervento delle Sezioni unite che è venuto a costituire il “diritto vivente” attualmente applicabile (anche per la nuova valenza e – tendenziale – vincolatività che alle pronunce delle Sezioni unite assegna il nuovo art. 374 c.p.c., comma 3), ma osserva che la soluzione adottata dal massimo consesso nomofilattico, nell’esaminare il combinato disposto degli artt. 133 e 327, comma 1, c.p.c., è suscettibile di comportare la possibile violazione dell’art. 3 Cost., comma 2, e art. 24 Cost., commi 1 e 2, con conseguente rilevazione dei relativi presupposti per sollevare la conferente questione incidentale di costituzionalità, che si prospetta – nel caso di specie – rilevante e non manifestamente infondata.

Osserva, peraltro, il collegio, in via pregiudiziale, che, pur non condividendo il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite nella più volte citata sentenza n. 13794 del 2012, non considera opportuno, ai sensi del richiamato art. 374 c.p.c., comma 3, investire nuovamente della questione le medesime Sezioni unite, alla stregua del percorso argomentativo espresso, recentemente, dalle stesse Sezioni unite, con la sentenza n. 13620 del 31 luglio 2012, sulle peculiari forza e valenza attribuibili allo “stare decisis” riconducibile agli stessi principi di diritto asseriti dalle Sezioni unite, soprattutto con riferimento alla risoluzione di contrasti su questioni processuali. In particolare, con la ricordata sentenza n. 13620 del 2012, è stato affermato che “benchè non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello stare decisis essa costituisce, tuttavia, un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente nell’ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un’interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomifilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative; in particolare, in tema di norme processuali, per le quali l’esigenza di un adeguato grado di certezza si manifesta con maggiore evidenza, anche alla luce dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1, (nella specie, peraltro, non applicabile ratione temporis), ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, deve preferirsi quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione”.

Pertanto, alla luce di questa impostazione ermeneutica sulla necessaria effettività del “valore del precedente” costituito dal principio di diritto enunciato dalla Sezioni unite in materia processuale orientato a garantire stabilità agli indirizzi giurisprudenziali di legittimità (soprattutto se affermato da poco per risolvere un contrasto perpetuatosi per lungo tempo, come verificatosi nell’ipotesi in questione, senza trascurare la circostanza ulteriore che già singole sezioni hanno inteso successivamente recepire detto principio di diritto: Cass., sez. 1^, 29 ottobre 2012, n. 18569 – rv. 624046, e Cass., sez. 3^, 4 aprile 2013, n. 8216 – rv. 625830), si ritiene inconferente reinvestire nuovamente le Sezioni unite – a così breve distanza temporale – dell’esame della questione processuale in discorso, per risollecitare una pronuncia conducente all’affermazione di un principio di diritto di contenuto opposto rispetto a quello enunciato a risoluzione del pregresso contrasto.

Solo incidentalmente si evidenzia, peraltro, che la più recente dottrina, la quale ha avuto modo di occuparsi della portata innovativa della suddetta sentenza n. 13620 del 2012, ha rilevato, in senso critico, che il principio affermato consente che il “vincolo” solo processuale delle Sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite si estenda alla soluzione nel merito delle singole questioni prospettate (assumendo, perciò, connotati sostanziali), in modo tale da vincolare (o, comunque, condizionare in modo determinante) la giurisprudenza di legittimità con riferimento a qualsiasi fonte normativa. Si è, inoltre, incisivamente osservato che il precedente delle Sezioni unite – il quale costituisce il presupposto per l’applicazione dell’art. 374 c.p.c., comma 3, – si verrebbe a rivelare, secondo la lettura proposta con la sentenza delle S.U. appena ricordata, come il limite di applicazione della norma stessa, comportando la sua inoperatività (ovvero impedendosi, in concreto, alla Sezione semplice di rimettere la questione alle Sezioni unite) ogni qualvolta sia intervenuta (soprattutto in tempi recenti ovvero prossimi rispetto alla riproposizione della questione) una precedente pronuncia risolutiva della questione oggetto di pregresso contrasto da parte delle medesime Sezioni unite.

Tutto ciò, naturalmente, non impedisce al collegio – proprio valorizzando la peculiare forza del “diritto vivente” riconducibile alle pronunce delle Sezioni unite – di verificare la compatibilità dell’approccio ermeneutico sotteso a dette pronunce con i principi costituzionali in concreto involti dalla questione risolta (con la definizione del relativo contrasto presente all’interno delle sezioni semplici). A tal proposito si rileva che – nell’ambito della stessa giurisprudenza costituzionale – è stato reiteratamente chiarito che una questione sollevata dinanzi alla Corte costituzionale in via incidentale non può ritenersi “di mera interpretazione” – come tale inammissibile – ma “di legittimità costituzionale”, quando il giudice “a quo”, pur non condividendo l’interpretazione di una norma consolidatasi nella giurisprudenza della Corte di cassazione, non ne chiede una revisione sul piano ermeneutico, ma, assumendo quella interpretazione come “diritto vivente”, ne invoca una verifica sul piano della costituzionalità (v., ad es., Corte cost., sent. n. 110 del 1995; Corte cost., sent. n. 188 del 1995; Corte cost., sent. n. 480 del 2005). In altri termini, la giurisprudenza del Giudice delle leggi ha univocamente ritenuto ammissibili questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto una o più norme nella relativa interpretazione consolidatasi quale diritto vivente, poichè, avendo il giudice remittente la facoltà di uniformarsi o meno allo stesso diritto vivente, nella suddetta ipotesi non può essergli addebitato di aver richiesto un non consentito avallo ad una propria interpretazione in contrasto con l’esegesi delle norme denunciate consolidatasi in termini di diritto vivente, poichè proprio tale diritto vivente rappresenta l’oggetto dei possibili dubbi di costituzionalità (cfr., da ultimo, Corte cost., ord. n. 253 del 2012, nonchè, sulla facoltà del giudice remittente di uniformarsi o meno al diritto vivente, Corte cost., sentenze nn. 338 del 2011 e 117 del 2012).

7. Ciò posto, ritiene il collegio che sussistono le condizioni per sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale in relazione al richiamato principio di diritto, costituente “diritto vivente”, affermato dalle Sezioni unite con la più volte ricordata sentenza n. 13794 del 2012, poichè la interpretazione da quest’ultima privilegiata appare contrastante con i parametri normativi di cui all’art. 3 Cost., comma 2, e art. 24 Cost., commi 1 e 2.

La questione – in tal senso inquadrata – non è manifestamente infondata perchè l’interpretazione fornita dalle Sezioni unite di questa Corte, con la richiamata sentenza, per un verso tende a determinare una disparità di trattamento tra la situazione processuale in cui le attività di mero deposito della sentenza e quella di effettiva pubblicazione della stessa risultano (come dovrebbe accadere di regola) contestuali con quella in cui le due attività si scindono ed hanno luogo in due momenti temporali diversi, spesso anche distanti apprezzabilmente (tenendosi conto, peraltro, che il novellato art. 327 c.p.c., comma 1, – ancorchè non applicabile nella specie “ratione temporis” – ha addirittura ridotto il termine c.d. “lungo” per la proposizione dell’impugnazione ordinaria a sei mesi a decorrere “dalla pubblicazione della sentenza”).

Invero, optandosi per l’applicazione del principio di diritto affermato con la sentenza n. 13794 del 2012, si assegnerebbe preferenza ad un’attività processuale (quella di mero deposito della sentenza con l’apposizione di un visto del cancellerie del tipo “depositata in data….”) che – in modo irragionevole ed in virtù di un approccio ermeneutico “in malam partem” – risulterebbe lesivo della pienezza e della certezza del diritto di difesa delle parti costituite in giudizio (in relazione alla portata precettiva dell’art. 24 Cost., commi 1 e 2), nei cui riguardi, invece, il termine appena indicato dovrebbe cominciare a decorrere dalla effettiva pubblicazione della sentenza, che è l’attività alla quale il cancelliere pone riferimento, in relazione all’art. 133 c.p.c., comma 2, nel biglietto contenente il dispositivo da comunicare alle parti e con riferimento alla quale le stesse prendono formale conoscenza dell’avvenuta pubblicazione del provvedimento. Del resto, il cancelliere è tenuto a rilasciare, di norma, le copie autentiche delle sentenze solo una volta che esse siano state effettivamente pubblicate ed annotate nell’apposito registro cronologico ed è corrispondentemente logico ritenere che l’attività di attestazione del passaggio in giudicato, a tale pubblico ufficiale conferita dall’art. 124 disp. att. c.p.c., non possa che assumere come momento di decorrenza del termine di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1, – in caso di mancata notificazione della sentenza – quello della pubblicazione ufficiale della stessa. A tal riguardo si osserva che non sembra plausibile configurare una distinzione tra il deposito della sentenza, come “consegna ufficiale” del documento al cancelliere, e la “certificazione del compimento di tale attività”;

sembra, invece, ragionevole ritenere che sia appunto la certificazione del cancelliere, quale atto di certezza legale, a rendere ufficiale la consegna della sentenza, quale modalità di esternazione della decisione. Sicchè la sentenza, la cui deliberazione ha natura di atto meramente interno, acquista efficacia esterna per effetto del suo deposito attestato dal cancelliere, perchè questa attestazione, che ha efficacia di certezza pubblica, vincola, fino a querela di falso, ad assumere per vero l’avvenuto deposito della decisione nella data indicata. Non si profila, quindi, congruo leggere (cfr. Cass. n. 6991 del 2007) l’art. 133 c.p.c., tenendo distinto il comma 1, che attribuisce al deposito l’efficacia di rendere pubblica la sentenza, dal secondo comma, che, impone al cancelliere di dare atto del deposito, perchè senza attestazione del cancelliere non v’è pubblicazione della sentenza (e il citato art. 133 c.p.c., comma 2, riconduce a quest’ultima attività il conseguente obbligo del cancelliere di provvedere, entro il termine – considerato ordinatorio – di cinque giorni, alla comunicazione, con apposito biglietto, alle parti costituite del dispositivo della sentenza con riferimento al quale deve, perciò, intendersi completato il procedimento di rituale pubblicazione).

Con quanto appena affermato, ovviamente, non si vuole avallare la tesi alla stregua della quale il termine lungo ex art. 327, comma 1, dovrebbe decorrere a far data dall’avvenuta comunicazione della pubblicazione della sentenza a cura della cancelleria (la cui questione è stata, peraltro, già ritenuta – con riguardo al processo ordinario di cognizione – manifestamente infondata, avuto riguardo al ravvisato bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche ed il diritto di difesa: cfr. Corte cost. sentenze nn. 584 del 1990 e 297 del 2008;

sul punto v. anche Cass. nn. 16311 del 2004 e Cass. n. 17704 del 2010), bensì si vuole porre in risalto che tale termine debba decorrere dalla “pubblicazione in senso proprio”, in tal senso intendendosi il riferimento a tale termine contenuto nel citato art. 327, comma 1, del codice di rito civile.

In relazione, perciò, ad una possibile equivocità interpretativa del dato normativo (per come – in ipotesi – emergente, nella specie, in relazione al combinato disposto dell’art. 133 c.p.c., commi 1 e 2, e art. 327 c.p.c., comma 1) andrebbe attribuita preferenza alla soluzione ermeneutica conforme a quella costituzionalmente orientata, ovvero espressiva del generale canone di coerenza sistematica dell’ordinamento giuridico (processuale, nella fattispecie), tale da non determinare situazioni di irragionevolezza e da garantire, in modo certo ed univoco, le posizioni delle parti processuali nell’esercizio del diritto assoluto di difesa, di cui il diritto di impugnazione rappresenta una estrinsecazione essenziale.

Diversamente opinando si configurerebbe il rischio di esporre le suddette parti ad una indebita penalizzazione del loro ruolo, qualora le stesse dovessero essere ritenute gravate di un non previsto onere (peraltro non riconducibile allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione) di verificare la possibile scissione – che si realizza nella pratica giudiziaria (ed invero molto frequentemente, solo che si pensi alle numerosissime pronunce della giurisprudenza di legittimità sulla inerente questione, tanto da determinarsi un contrasto) – tra le attività di “mero deposito” e quella di pubblicazione in senso stretto (come tale attestata dal cancelliere) e, in quanto tale, avente rilevanza esterna nel processo e nei confronti delle parti medesime.

Si è, anzi, sostenuto, in proposito, che al cancelliere non dovrebbe nemmeno essere riconosciuta la facoltà di scindere il procedimento unitario di pubblicazione della sentenza, segmentando in fasi successive l’attività di deposito (della minuta o dell’originale) e di pubblicazione, non potendo avere margine di discrezionalità sulla data in cui rendere effettivamente pubblica la sentenza stessa, ragion per cui, ove tale evenienza si verifichi, i relativi effetti negativi non possono ripercuotersi in danno delle parti incolpevoli.

Alla stregua di queste argomentazioni, quindi, il collegio – al fine di rafforzare la ritenuta lesione, per effetto del “diritto vivente” rappresentato dalla sentenza delle Sezioni unite n. 13794 del 2012, dell’art. 3 Cost., comma 2, e art. 24 Cost., commi 1 e 2, – intende nuovamente sottolineare che la decadenza dall’impugnazione deriva, come si è ricordato, dallo spirare di un termine che inizia a decorrere dalla “pubblicazione della sentenza”. La parte che deve sottostare al termine è quindi indotta, sia dal principio di affidamento, sia da un’interpretazione letterale di questa disposizione, ad ancorare la propria attività alla pubblicazione e non al (mero) deposito della sentenza. Pertanto la ricerca della data di deposito, quale veicolo per conoscere la data di pubblicazione ex art. 133 c.p.c., è esigibile solo ove nell’atto da impugnare non sia presente una specifica attestazione che riguardi la pubblicazione. Il conflitto tra le due attestazioni – ad avviso del collegio – deve, perciò, essere necessariamente risolto attribuendo ad una di esse un senso diverso da quello che è foriero delle conseguenze della pubblicazione della sentenza, che è il momento in cui l’atto è reso conoscibile alle parti e che fa decorrere il tempo utile per la proposizione del gravame.

Orbene, l’orientamento recepito con la sentenza delle Sezioni unite n. 13794 del 2012 è costretto a risolvere forzatamente la contraddizione conferendo all’attestazione di “pubblicazione” un senso che è estraneo – e anzi opposto – a quello proprio del termine, individuandolo nelle attività di annotazione nei registri di cancelleria, che è attività meramente interna dell’ufficio. Per contro si appalesa – in linea generale – ispirata ad un sicuro criterio di ragionevolezza una lettura che attribuisca all’attestazione di “deposito” il senso di “deposito in minuta”.

Questa impostazione trova conforto anche nella previsione di cui all’art. 119 disp. att. c.p.c., (laddove, al comma 2, si discorre di “minuta consegnata al cancelliere”), che prescrive la consegna di una minuta da parte dell’estensore al presidente del Collegio e da questi al cancelliere, che ne affida la scritturazione al dattilografo di ruolo. Ultimata la scritturazione, presidente ed estensore verificano la corrispondenza dall’originale alla minuta, sottoscrivono la sentenza e la avviano alla pubblicazione da parte del cancelliere.

Ora, nel corso del tempo l’attestazione del deposito in minuta è invalsa negli uffici giudiziari quale momento utile a fissare l’adempimento (rilevante anche disciplinarmente) dell’attività di predisposizione della sentenza da parte dell’estensore. L’avvento dell’utilizzazione degli strumenti elettronici ha progressivamente compresso tali fasi, in virtù della (ormai sempre più invalsa) scritturazione diretta da parte dell’estensore e alla consegna al cancelliere di un testo che: a) a volte deve essere controfirmato dal presidente; b) a volte consta della sola motivazione e deve essere completato con “l’intestazione” della sentenza (cioè con l’epigrafe predisposta sovente dalla cancelleria); c) a volte è completo, ma perviene al cancelliere quando questi non è in condizione, per il carico di lavoro, di provvedere al deposito nel senso proprio di cui all’art. 133 c.p.c..

A tal proposito è particolarmente rilevante segnalare che il differimento del formale deposito per la condizione delle cancellerie è spesso di alcuni giorni e talvolta di molte settimane. L’uso dell’attestazione “depositato in minuta” mantiene quindi attualità al fine di scandire i tempi dell’attività giurisdizionale e quelli della cancelleria. E’ dunque ben più consono rispetto ai precisati parametri costituzionali ritenere che, in presenza di una doppia contraddittoria attestazione – tra deposito e pubblicazione della sentenza – la prima si riferisca al deposito della minuta, cioè a un’attività codificata, interna al procedimento di pubblicazione della sentenza e riconoscibile nella prassi giudiziaria. Nè appare trascurabile un altro fondamentale argomento: l’interpretazione rigorista alla quale hanno aderito le Sezioni unite con la menzionata sentenza n. 13794 del 2012 si risolve – in modo irragionevole e discriminatorio (per la ritenuta gravità della difficoltà, in tal caso, dell’esercizio del diritto di difesa, v., da ultimo, Cass. n. 6304 del 2013 e Cass. n. 6991 del 2007) – nella sottrazione alle parti di una frazione, che può essere anche molto consistente e che può risultare (in situazioni particolarmente patologiche) anche di alcuni mesi, del tempo utile per l’impugnazione, che – nell’attuale regime processuale – deve essere non inferiore a sei mesi (un anno prima della modifica dell’art. 327 c.p.c.). Anteriormente alla “pubblicazione” la sentenza, per quanto depositata, non è infatti nota ai contendenti. Nè sembra verosimile e plausibile opinare diversamente, giacchè se la cancelleria ha proceduto a doppia attestazione e alla seconda ha attribuito la denominazione di “pubblicazione”, con evidenza ha dato atto della circostanza che, prima di quella data, la sentenza non era stata ancora “resa pubblica”. Il senso del primo termine, “depositato”, è quindi da desumere dalla connessione con l’uso del secondo, salvaguardando i diritti dei litiganti (v., in tal senso, le condivisibili Cass. n. 12681 del 2008; Cass. n. 22057 del 2011 e Cass. n. 22455 del 2011).

8. Ravvisata la non manifesta infondatezza della descritta questione incidentale di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 3 Cost., comma 2, e art. 24 Cost., commi 1 e 2, rileva il collegio che la questione stessa è anche chiaramente rilevante in relazione al presente giudizio di legittimità, essendosi riferita la sentenza di appello impugnata, ai fini dell’individuazione della decorrenza del termine di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1, proprio al momento del “mero deposito” della sentenza di primo grado (avvenuto in data 8 aprile 2003), qualificato come idoneo a determinare la giuridica esistenza della sentenza stessa, anzichè a quello della “effettiva pubblicazione” della medesima, attestata dal cancelliere come verificatasi il successivo 28 luglio 2003 (oltre tre mesi dopo), in tal senso pervenendo alla declaratoria di inammissibilità del gravame per rilevata intempestività della sua proposizione. La proposizione dell’appello sarebbe stata, invece, da ritenersi tempestiva (con conseguente sua ammissibilità) ove la Corte di appello partenopea avesse posto riferimento alla (seconda) data di attestazione dell’avvenuta pubblicazione effettiva (coincidente con quella annotata nel registro cronologico delle sentenze e riportata dalla stessa cancelleria anche sull’avviso di deposito comunicato ai difensori delle parti costituite), dal momento che l’atto di appello (relativo ad un giudizio locatizio) risultava essere stato depositato nella cancelleria del giudice di secondo grado il 13 luglio 2004 (momento da considerare pacificamente dirimente ai fini del rilievo della tempestività del gravame nel rito speciale ex art. 447 bis c.p.c.: cfr., ad es., Cass. n. 9530 del 2010 e Cass. n. 20344 del 2010) e, quindi, entro l’anno (senza, peraltro, nemmeno computare il periodo di sospensione feriale di altri 46 giorni, pur pacificamente spettante alla parte appellante) dalla predetta data del 28 luglio 2003, avuto riguardo all’osservanza del disposto di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1, nella sua versione “ratione temporis” applicabile, ovvero in quella antecedente alla sua modifica intervenuta per effetto della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 17, (riferibile ai soli giudizi “ab initio” instaurati dopo l’entrata in vigore di quest’ultima legge, ossia dopo il 4 luglio 2009).

9. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, bisogna disporre, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, con la conseguente sospensione del presente giudizio e l’assolvimento degli adempimenti notificatori e di comunicazione prescritti dal citato art. 23, comma 4.

P.Q.M.

La Corte, letto la L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 133 c.p.c., commi 1 e 2, e art. 327 c.p.c., comma 1, (nella sua versione “ratione temporis” applicabile, antecedente alla modifica apportata con la L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 17), in relazione all’art. 3 Cost., comma 2, e art. 24 Cost., commi 1 e 2, nella parte in cui, secondo il diritto vivente (riconducibile alla interpretazione riferita ai predetti artt. 133 e 327 c.p.c., operata dalla sentenza delle Sezioni unite n. 13794 del 1 agosto 2012, confermata da successive pronunce di sezioni singole) deve ritenersi che – nell’eventualità in cui, sulla sentenza, oggetto di impugnazione, siano state apposte due date, una (precedente) di deposito, senza espressa specificazione che il documento contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l’altra (successiva) di pubblicazione – tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza (e, quindi, anche la decorrenza del termine previsto dallo stesso art. 327 c.p.c., comma 1), si producono già dalla prima data del suo deposito e non, invece, dalla seconda data attestante l’effettiva pubblicazione della sentenza.

Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il presente giudizio.

Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Procuratore ******** presso questa Corte, nonchè al Presidente del Consiglio dei ministri.

Ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata dal Cancelliere anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 3 ottobre 2013.

Redazione