Sanzionabili i cda di una banca: anche senza delega sono tenuti a vigilare a intervenire nel caso di operazioni sospette (Cass. n. 2737/2013)

Redazione 05/02/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

1. – Con Decreto n. 42 dell’11 gennaio 2006, il Ministro dell’economia e delle finanze, conformemente alla proposta della Banca d’Italia, disponeva l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie nei confronti, tra gli altri, di P.A. e di T.E., componenti del consiglio di amministrazione della Banca Popolare Italiana, per l’acquisizione, da parte della Banca Popolare Italiana, del controllo e di partecipazioni rilevanti nel capitale della Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a. (d’ora in poi anche Antonveneta) in assenza di preventiva autorizzazione della Banca d’Italia.

Contro il suddetto provvedimento sanzionatorio gli ingiunti hanno proposto opposizione ai sensi dell’art. 145 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, approvato con il D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385.

2. – La Corte d’appello di Roma, con decreto depositato in data 14 luglio 2006, ha respinto l’opposizione, da un lato rilevando che la Banca d’Italia non si era limitata ad una passiva accettazione dell’accertamento operato dalla CONSOB con la delibera n. 15029 del 10 maggio 1995, ma ne aveva effettuato una verifica prima di utilizzarlo, sulla base di ulteriori elementi, avviando, quindi, un autonomo procedimento sanzionatorio; e dall’altro sottolineando che i consiglieri di amministrazione – i quali, ancorchè sprovvisti di deleghe, erano in ogni caso tenuti a vigilare sull’operato degli organi esecutivi e ad intervenire tempestivamente – non avevano preso iniziative per verificare le operazioni che si stavano compiendo per la “scalata” della Banca Antoniana Popolare Veneta.

3. – Per la cassazione del decreto della Corte d’appello il P. ed il T. hanno proposto ricorso, con atto notificato il 17 luglio 2007, sulla base di sette motivi.

La Banca d’Italia ha resistito con controricorso, mentre il Ministero non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo i ricorrenti si dolgono che la Corte d’appello, anzichè esaminare la fondatezza del ricorso in opposizione con cui era stata lamentata l’omessa valutazione del profilo soggettivo della colpa da parte della Banca d’Italia e del Ministero, abbia essa stessa compiuto per la prima volta tale valutazione.

1.1. – Il motivo è infondato.

A prescindere dalla circostanza che il ricorso non riproduce, in violazione del principio di specificità, il testo del decreto con cui il Ministero ha irrogato la sanzione, l’inadeguatezza motivazionale non è motivo di nullità del decreto ministeriale, essendo oggetto dell’opposizione non il provvedimento della P.A., ma il rapporto sanzionatorio ad esso sotteso (Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2010, n. 1786; Cass., Sez. 2^, 10 maggio 2010, n. 11280).

D’altra parte, poichè la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3, pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questo l’onere di provare di aver agito senza colpa (Cass., Sez. Un., 6 ottobre 1995, n. 10508; Cass., Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20933), il profilo soggettivo della colpa non richiedeva alcuna specifica motivazione da parte dell’Amministrazione.

2. – Con il secondo mezzo si censura che il decreto impugnato abbia omesso di motivare, ovvero si sia limitata a dare una motivazione del tutto apparente, in merito alla assenza di spiegazioni nel provvedimento impugnato sulle ragioni che avrebbero giustificato l’applicazione delle sanzioni da parte del Ministero, nonostante la diversità di valutazioni a cui la CONSOB era pervenuta nella stessa vicenda.

2.1. Il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha rilevato, dandone congrua ed adeguata motivazione, che la Banca d’Italia non si è limitata ad una passiva accettazione dell’accertamento operato dalla CONSOB, che aveva ad oggetto la condotta di omessa comunicazione di patti parasociali e dell’acquisto di partecipazioni attraverso soggetti interposti, ma ne ha effettuato una verifica, prima di utilizzarlo, sulla base di ulteriori elementi, avviando un autonomo procedimento sanzionatorio, finalizzato a perseguire i responsabili di distinte ipotesi di violazione, relative all’acquisto non autorizzato del controllo o di partecipazioni rilevanti della Banca Antoniana Popolare Veneta e alla connessa omessa valutazione dei profili prudenziali dell’operazione, anche con riferimento all’impatto di tale acquisizione sull’assetto finanziario, tecnico ed organizzativo della banca acquirente.

Attesa la diversità delle violazioni considerate nei distinti procedimenti sanzionatori, attivati dalla CONSOB e dalla Banca d’Italia nello svolgimento delle rispettive attività d’istituto, nessun obbligo – come esattamente evidenziato dalla difesa della controricorrente – gravava sul Ministro di motivare circa la diversità delle conclusioni cui la Banca d’Italia è pervenuta nei confronti degli incolpati.

2.2. – E’ pertanto infondata, per le stesse ragioni, la parte del quarto motivo con cui si lamenta la mancata motivazione nel decreto della Corte d’appello sulla assenza, nel provvedimento opposto e nella proposta della Banca d’Italia, di qualunque considerazione del profilo soggettivo e dell’esposizione delle ragioni per le quali il Ministero, pur fondando il proprio provvedimento sulle deliberazioni della CONSOB, si è discostato dalle conclusioni alle quali è giunta la stessa CONSOB. 3. – Il terzo mezzo lamenta omessa o apparente motivazione con riguardo all’asserita rilevanza nel caso di specie del dovere previsto dall’art. 2392 c.c., comma 2. Con la restante parte del quarto motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 145 del testo unico) si censura la mancata motivazione nel decreto della Corte d’appello sulle ragioni, altresì, per le quali il dovere di impedire fatti pregiudizievoli e di eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose verrebbe in considerazione nel presente caso, in cui – si assume – non è stata dimostrata la conoscenza, in capo agli ingiunti, di fatti pregiudizievoli. Il quinto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2381 e 2392 c.c., con riferimento alla vigilanza degli amministratori deleganti) contesta, a sua volta, che sia configurabile in capo agli amministratori privi di deleghe un obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, disancorato dalle informazioni relative alla gestione della società fornite dagli organi delegati in ambito consiliare. Con il sesto mezzo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2381 c.c.) si sostiene che non sarebbe configurabile in capo agli amministratori deleganti un generale dovere di richiedere informazioni su operazioni di competenza dell’organo delegato e sulle quali i primi non dispongono di elementi atti ad evidenziarne profili di anomalia. Il settimo motivo, infine, pone il quesito se è conforme alla L. n. 689 del 1981, art. 3, ritenere che spetti al soggetto cui è stata applicata la sanzione dare la prova dell’insussistenza del requisito della colpevolezza e se la presunzione di colpa di un soggetto debba operare anche qualora non vi sia stata violazione di legge addebitabile allo stesso e se la presunzione di colpa di un soggetto debba operare anche qualora sia stata data prova contraria.

3.1. – I motivi dal terzo al settimo – i quali, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono infondati.

3.2. – La Corte d’appello, nel respingere le doglianze degli opponenti, ha rilevato:

– che i consiglieri di amministrazione, ancorchè sprovvisti di deleghe per la gestione, erano tenuti, tuttavia, quali membri dell’organo collegiale, a vigilare sull’operato degli organi esecutivi e ad intervenire tempestivamente, sia per accertarsi che esso fosse conforme agli indirizzi stabiliti dal consiglio in materia di orientamenti strategici e di politiche di gestione del rischio, sia per evitare atti pregiudizievoli;

– che, in particolare, essi, ai sensi dell’art. 2932 c.c., comma 2, avevano l’obbligo di fare quanto nelle loro possibilità per impedire il compimento o eliminare o attenuare le conseguenze dannose di eventuali atti pregiudizievoli di cui fossero venuti a conoscenza;

– che, ai sensi dell’art. 2381 c.c., gli amministratori deleganti avevano il dovere di vigilare sull’esercizio delle deleghe, all’uopo chiedendo agli amministratori delegati ogni utile informazione sulla gestione sociale;

– che non risulta che gli opponenti abbiano preso iniziative per verificare le operazioni che si stavano compiendo per la scalata dell’Antonveneta, nonostante vi fossero chiari segni rivelatori dell’operazione concertata dalla Banca Popolare di Lodi (divenuta, poi, Banca Popolare Italiana) con gli altri soggetti interessati all’acquisizione, da parte della Banca, di rilevanti partecipazioni nel capitale della Antonveneta e del controllo della stessa;

– che, infatti, già nel novembre 2004 la Banca Popolare Italiana aveva deliberato una serie di finanziamenti che apparivano gravemente sospetti, trattandosi di finanziamenti per importi rilevanti (in media 50 milioni di Euro per operazione), richiesti da persone fisiche sulla base di domande assolutamente generiche e deliberati in tempi brevissimi, con istruttorie del tutto sommarie;

– che sarebbe bastato approfondire le ragioni di quei finanziamenti per scoprire l’operazione alla quale questi erano finalizzati.

3.3. – La statuizione della Corte d’appello si sottrae alle censure dei ricorrenti.

L’art. 2381 c.c., comma 3, nel testo sostituito ad opera del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, prevede che il consiglio di amministrazione “può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sè operazioni rientranti nella delega” e “valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”. Il comma 6, della stessa disposizione sancisce l’obbligo di tutti gli amministratori di “agire in modo informato”, stabilendo che “ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”. Il nuovo art. 2392 c.c., a sua volta, continua a prevedere che gli amministratori “sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”.

Questo dovere della compagine dei consiglieri non esecutivi è particolarmente stringente in materia di organizzazione e governo societario delle banche, anche in ragione degli interessi protetti dall’art. 47 Cost., la cui rilevanza pubblicistica plasma l’interpretazione delle norme dettate dal codice civile.

La diligenza richiesta agli amministratori risente, infatti, della “natura dell’incarico” ad essi affidato ed è commisurata alle “loro specifiche competenze” (art. 2392 c.c.).

Sotto questo profilo, il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, approvato con il D.Lgs. n. 385 del 1993, esige il possesso, in capo ai soggetti investiti di funzioni di amministrazione presso banche, di determinati requisiti di professionalità (art. 26).

A ciò aggiungasi che le Istruzioni di Vigilanza (emanate dalla Banca d’Italia, in attuazione del citato testo unico, con la circolare n. 229 del 21 aprile 1999, e successive modificazioni ed integrazioni) attribuiscono al consiglio di amministrazione il compito di approvare “gli orientamenti strategici e le politiche di gestione del rischio”;

gli impongono, inoltre, di “essere consapevole dei rischi a cui la banca si espone”, di “conoscere e approvare le modalità attraverso le quali i rischi stessi sono rilevati e valutati”, di assicurarsi “che venga definito un sistema informativo corretto, completo e tempestivo” e che “la funzionalità, l’efficienza e l’efficacia del sistema dei controlli interni siano periodicamente valutate e che i risultati del complesso delle verifiche siano portati a conoscenza del consiglio medesimo”; gli fanno carico, ancora, di adottare “con tempestività idonee misure correttive” “nel caso emergano carenze o anomalie” (titolo 4^, capitolo 11, sezione 2^).

In materia di società bancarie, pertanto, il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi non è rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dagli amministratori delegati attraverso i rapporti dei quali la legge onera questi ultimi, giacchè anche i primi devono possedere ed esprimere costante ed adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni assunte dall’intero consiglio (al quale è affidata l’approvazione degli orientamenti strategici e delle politiche di gestione del rischio dell’intermediario), hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi in tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter utilmente ed efficacemente esercitare una funzione dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi attraverso un costante flusso informativo; e ciò non solo in vista della valutazione dei rapporti degli amministratori delegati, ma anche ai fini della diretta ingerenza nella delega attraverso l’esercizio dei poteri, di spettanza del consiglio di amministrazione, di direttiva e di avocazione.

3.4. – A questo principio si è attenuto il decreto della Corte d’appello, il quale – premesso che la delega delle attribuzioni consiliari in favore di uno o più amministratori non fa venir meno, in capo agli amministratori non esecutivi, la titolarità del potere gestorio – ha rilevato che, in presenza di affidamenti “gravemente sospetti” di notevole importo in favore di persone fisiche, gli incolpati, nella loro qualità di componenti del consiglio di amministrazione della banca, ben avrebbero potuto (e in ciò consiste la loro colpa, L. n. 689 del 1981, ex art. 3) approfondire, con idonei canali di comunicazione, le ragioni di quei finanziamenti e, cosi, rilevare che l’operazione era destinata a conseguire l’acquisto di rilevanti partecipazioni nell’Antonveneta e nel controllo della stessa, eludendo quelle autorizzazioni della Banca d’Italia che avrebbero dovuto verificare l’impatto dell’operazione sulla situazione finanziaria della Banca Popolare Italiana, sul margine disponibile per gli investimenti in partecipazioni, sull’adeguatezza patrimoniale e sul coefficiente di solvibilità.

4. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, che liquida in complessivi Euro 5.200, di cui Euro 5.000 per compensi, oltre agli accessori di legge.

Redazione