Risponde di truffa aggravata ai danni dello Stato chi fornisce false attestazioni nella dichiarazione per lo scudo fiscale (Cass. pen. n. 34986/2013)

Redazione 14/08/13
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Svolgimento del processo

Con ordinanza del 21.12.2012, il G.I.P. del Tribunale di Forlì convalidò il sequestro preventivo di urgenza disposto dal P.M. – in data 12.12.2012 – del saldo attivo (fino alla concorrenza di Euro 400.000,00) del conto corrente – n. (omissis) presso la Banca di Forlì – intestato a P.A., indagato per il reato di tentata truffa aggravata (unitamente al figlio P.G.; si veda pagina 2 dell’impugnato provvedimento).

Avverso tale provvedimento l’indagato propose richiesta di riesame ma il Tribunale di Forlì con ordinanza del 19.01.2013 la respinse.

Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato deducendo la mancanza di motivazione sulla sussistenza: del reato ipotizzato (tentata truffa in relazione al D.L. 1 luglio 2009, art. 13 bis, e D.L. 25 settembre 2011, n. 350, art. 13 e ss.); del periculum in mora e dei requisiti di confiscabilità; della sequestrabilità del danaro individuato come strumento del reato nonostante la sua fungibilità ed essendo, infatti, diverso da quello che secondo la ricostruzione del P.M. è stato usato per commettere il presunto reato.

Il difensore dell’indagato conclude, pertanto, per l’annullamento dell’impugnata ordinanza.

Motivi della decisione

Si deve, preliminarmente, ricordare che in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art. 325 c.p.p., comma 1, rientrano la totale mancanza di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità o la incompletezza di motivazione le quali non possono denunciarsi nel giudizio di legittimità nemmeno tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), posto che questo richiede la “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità” della motivazione (Sez. 5, Sentenza n. 8434 del 11/01/2007 Cc. – dep. 28/02/2007 – Rv. 236255; Sez. U, Sentenza n. 25932 del 29/05/2008 Cc. – dep. 26/06/2008 – Rv. 239692).

Inoltre si deve ribadire – il principio richiamato anche dal Tribunale – che in sede di riesame di misure cautelari reali, pur essendo precluso il sindacato sul merito dell’azione penale, il giudice deve verificare la sussistenza del presupposto del “fumus commissi delicti” attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato. (Sez. 6, Sentenza n. 35786 del 21/06/2012 Cc. – dep. 18/09/2012 Rv. 254394; Sez. 1, Sentenza n. 21736 del 11/05/2007 Cc. – dep. 04/06/2007 – Rv. 236474; Sez. 2, Sentenza n. 2808 del 02/10/2008 Cc. – dep. 21/01/2009 – Rv. 242650).

Tanto premesso, si comprende agevolmente perchè il ricorso del difensore del P.A. sia infondato. Infatti, il Tribunale del riesame ha rigettato l’istanza di riesame solo dopo avere ben esaminato tutti gli elementi probatori acquisiti e aver affrontato tutte le censure mosse dal difensore dell’indagato. In particolare ha correttamente ricostruito l’accaduto. In buona sostanza il figlio dell’indagato ( P.G.) deteneva in un paese extra comunitario la somma di Euro 400.000,00, somma ricavata dal suo lavoro svolto all’estero; voleva, quindi, riportare tale somma in Italia avvalendosi degli effetti premiali di cui al D.L. n. 350 del 2001, art. 14, richiamati dal D.L. n. 78 del 2009, art.13 bis, comma 4. Pertanto avviò la pratica per effettuare quanto sopra.

Ma allorchè si accorse che non riusciva a riportare il danaro in Italia entro la data fissata dal Legislatore per avvalersi del beneficio di cui sopra (sulla somma di cui sopra si sarebbe pagato solo il 5% pari ad Euro 20.000,00), per non perdere tale vantaggiosa occasione escogitò quanto segue: fece chiedere al padre un prestito di pari importo e tramite una banca estera (di (OMISSIS)) fece arrivare la suddetta somma sul suo conto; dichiarò, quindi, che la somma da lui detenuta all’estero era rientrata nel termine fissato dalla legge, ma in realtà la somma versata sul suo conto era quella presa in prestito dal padre. Quando la somma da lui detenuta all’estero sarebbe effettivamente rientrata – dopo però il limite massimo fissato dalla legge – con quella somma avrebbe estinto il prestito e avrebbe, però, conseguito il vantaggio di aver pagato come tassa solo il 5% e non la percentuale di tassa fissata a seconda del suo reddito (l’aliquota massima è pari al 43%). Pertanto avrebbe conseguito il sopraddetto profitto ingiustamente attraverso l’artifizio e il raggiro di far apparire i 400.000 Euro, ottenuti con il prestito, come la somma di danaro detenuta all’estero e con danno della P.A. che invece di incassare sulla somma di cui sopra la percentuale pari alla tassa applicabile (al momento dell’effettivo rientro in Italia, che essendo successivo al limite fissato per legge non consentiva più di beneficiare di quanto previsto dal così detto scudo fiscale) avrebbe incassato solo il 5%. Tutto ciò non è riuscito perchè una segnalazione della Banca di Italia e le successive indagini compiute (anche con rogatoria internazionale) hanno consentito di scoprire il tentativo di truffa. Orbene, come ben evidenziato dal Tribunale – che ha richiamato in proposito anche principi di questa Suprema Corte sul tentativo condivisi dal Collegio (si veda pagina 11 dell’impugnato provvedimento) – vi è sicuramente il fumus commissi delicti del tentativo di truffa aggravata. Prima di evidenziare i principi sul tentativo appare opportuno richiamare l’altro principio di questa Corte evocato dal Tribunale e condiviso dal Collegio, secondo il quale la previsione del reato di false attestazioni nella dichiarazione finalizzata al rimpatrio del denaro delle attività detenute, alla data indicata dalla legge, fuori dal territorio dello Stato, non esclude l’applicazione della norma incriminatrice della truffa aggravata in danno dello Stato, ove la condotta si arricchisca in concreto di artifici diretti ad ottenere i consistenti vantaggi fiscali e le altre agevolazioni previste dalla legge, con l’induzione in errore dell’amministrazione finanziaria circa il momento temporale in cui le somme di denaro detenute all’estero sono pervenute nella disponibilità dell’autore del fatto e circa la provenienza di dette somme (Sez. 2, Sentenza n. 12910 del 26/02/2007 Cc. – dep. 29/03/2007 – Rv. 236459).

Per quanto riguarda il tentativo di un delitto si deve ricordare che l’univocità della condotta va apprezzata, senza tenere conto della distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, nelle sue caratteristiche oggettive, così da verificare se sia tale da rivelare le finalità attraverso l’apprezzamento, secondo le regole di comune esperienza, della natura e dell’essenza degli atti compiuti e del contesto in cui si inseriscono (Sez. 2, Sentenza n. 40702 del 30/09/2009 Ud. – dep. 22/10/2009 – Rv. 245123; si veda anche il precedente conforme: Sez. 2, Sentenza n. 21955 del 10/02/2005 Ud. – dep. 09/06/2005 – Rv. 231966). Ed ancora questa Corte ha specificato che per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo – come, appunto, nel caso di specie – che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo (Sez. 2, Sentenza n. 46776 del 20/11/2012 Ud. – dep. 04/12/2012 – Rv. 254106; si veda anche precedente conforme: Sez. 2, Sentenza n. 36536 del 21/09/2011 Ud. – dep. 11/10/2011 – Rv. 251145). Precisato ciò e rilevato che il Tribunale, come già sopra detto, ha indicato in cosa consistano gli artifizi e raggiri (far apparire come pervenuti, entro la data prevista dalla legge, i 400.000,00 Euro detenuti all’estero attraverso il versamento di 400.000,00 Euro ottenuti con un prestito); l’ingiusto profitto (poter pagare solo i 5% sui 400.000,00 Euro entrati dopo la scadenza massima del termine fissato per legge per poter beneficiare dello scudo fiscale); il danno per l’Ente pubblico (pari alla differenza tra il 5% versato e la tassa che effettivamente si sarebbe dovuta pagare pari all’aliquota alla quale è assoggettato l’indagato, aliquota massima che è pari al 43%). A proposito del danno si deve sottolineare come il danno della vittima della truffa può scaturire anche da un comportamento omissivo. Infatti, questa Suprema Corte ha affermato che nel delitto di truffa, il danno della vittima può realizzarsi non soltanto per effetto di una condotta commissiva, bensì anche per effetto di un suo comportamento omissivo, nel senso che essa, indotta in errore, ometta di compiere quelle attività intese a fare acquisire al proprio patrimonio una concreta utilità economica, alla quale ha diritto e che rimane invece acquisita al patrimonio altrui (Sez. 2, Sentenza n. 2808 del 02/10/2008 Cc. – dep. 21/01/2009 – Rv. 242649). Principio confermato dalle Sezioni Unite di questa Corte le quali hanno ribadito che i fini della configurabilità del delitto di truffa, l’atto di disposizione patrimoniale, quale elemento costitutivo implicito della fattispecie incriminatrice, consiste in un atto volontario, causativo di un ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall’errore indotto da una condotta artificiosa. Ne consegue che lo stesso non deve necessariamente qualificarsi in termini di atto negoziale, ovvero di atto giuridico in senso stretto, ma può essere integrato anche da un permesso o assenso, dalla mera tolleranza o da una “traditio”, da un atto materiale o da un fatto omissivo, dovendosi ritenere sufficiente la sua idoneità a produrre un danno (Sez. U, Sentenza n. 155 del 29/09/2011 Ud. – dep. 10/01/2012 – Rv. 251499). Nella motivazione della predetta sentenza delle Sezioni Unite nell’affrontare la questione della sussistenza dell’induzione in errore e dell’atto dispositivo – elemento costitutivo implicito della truffa – si afferma, tra l’altro, che effettivamente nella formulazione dell’art. 640 c.p., la condotta tipica, consistente nella realizzazione di artifici o raggiri, introduce una serie causale che porta agli eventi di ingiusto profitto con altrui danno passando attraverso l’induzione in errore; e che l’induzione in errore pur rappresentando il modo in cui si manifesta il nesso causale, non lo esaurisce. Dottrina e giurisprudenza tradizionalmente concordano nel rilevare che il passaggio dall’errore agli eventi consumativi deve essere contrassegnato da un elemento sottaciuto dal legislatore, costituito dal comportamento “collaborativo” della vittima che per effetto dell’induzione arricchisce l’artefice del raggiro e si procura da sè medesimo danno. La collaborazione della vittima per effetto del suo errore rappresenta in altri termini il requisito indispensabile perchè ingiusto profitto e danno possano dirsi determinati dalla condotta fraudolenta dell’agente; e costituisce il tratto differenziale del reato in esame rispetto ai fatti di mera spoliazione da un lato, ai reati con collaborazione della vittima per effetto di coartazione dall’altro. Tradizionalmente codesto requisito implicito, ma essenziale, della truffa quale fatto di arricchimento a spese di chi dispone di beni patrimoniali, realizzato tramite lo stesso grazie all’inganno, è definito “atto di disposizione patrimoniale”. La definizione è tuttavia imprecisa, nel senso che apparentemente evoca categorie civilistiche rispetto alle quali è impropria.

Nulla nella formulazione della norma consente difatti di restringere l’ambito della “collaborazione carpita mediante inganno” ad un atto di disposizione da intendersi nell’accezione rigorosa del diritto civile e di escludere, all’inverso, che il profitto altrui e il danno proprio o di colui del cui patrimonio l’ingannato può legittimamente disporre, sia realizzato da costui mediante una qualsiasi attività rilevante per il diritto, consapevole e volontaria ma determinata dalla falsa rappresentazione della realtà in lui indotta. Più corretto e semplice è allora dire che per l’integrazione della truffa occorre, e basta, un comportamento del soggetto ingannato che sia frutto dell’errore in cui è caduto per fatto dell’agente e dal quale derivi causalmente una modificazione patrimoniale, a ingiusto profitto del reo e a danno della vittima. Se, insomma, il senso riposto dell’atto di disposizione è che il danno deve potersi imputare ad un’azione che viene svolta all’interno della sfera patrimoniale aggredita, causata da errore e produttiva di danno e ingiusto profitto, il profilo penalisticamente rilevante della cooperazione della vittima non deve necessariamente riposare nella sua qualificabilità in termini di atto negoziale e neppure di atto giuridico in senso stretto, bastando la sua idoneità a produrre danno. Il così detto atto di disposizione ben può consistere per tali ragioni in un permesso o assenso, nella mera tolleranza o in una traditio, in un atto materiale o in un fatto omissivo: quello che conta è che sia un atto volontario, causativo di ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall’errore indotto da una condotta artificiosa. Quanto sopra è proprio ciò che sarebbe potuto accadere nel caso di specie, se non si fosse scoperto l’inganno.

Il Tribunale ha poi ben evidenziato – dopo aver richiamato la motivazione dei provvedimenti ablativi (sequestro preventivo urgente disposto dal P.M. e provvedimento di convalida del G.I.P. si veda pagina 12 del provvedimento impugnato) – perchè i 400.000,00 sequestrati mostrano un’evidente nesso pertinenziale e strumentale con il reato di tentata truffa (si veda pagina 13 dell’impugnato provvedimento). Si deve ricordare in proposito che questa Suprema Corte ha affermato che l’espressione “cose pertinenti al reato”, ai sensi dell’art. 321 c.p.p., è più ampia di quella di corpo di reato definita dall’art. 253 c.p.p., e comprende non solo qualunque cosa sulla quale o a mezzo della quale il reato fu commesso o che ne costituisce il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle “legate anche indirettamente alla fattispecie criminosa”, sicchè il limite dell’oggetto del sequestro preventivo è costituito dal rapporto di pertinenza al reato della “res” sottoposta a misura cautelare reale (Sez. 3, Sentenza n. 2048 del 03/05/1996 Cc. – dep. 06/06/1996 – Rv. 205823; Sez. 5, Sentenza n. 22353 del 06/06/2006 Cc. – dep. 26/06/2006 – Rv. 234556). Proprio in relazione a quanto sopra (nesso di pertinenzialità) il Tribunale ben evidenzia come tale somma di danaro possa essere sottoposta a confisca.

Infine, il Tribunale motiva correttamente perchè ravvisi il periculum in mora (si veda l’incensurabile motivazione alle pagine 13 e 14 dell’impugnato provvedimento).

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 19 giugno 2013.

Redazione