Risponde di omicidio colposo il medico che non si oppone alla dimissione di un paziente dall’ospedale disposta dal direttore del reparto (Cass. pen. n. 26966/2013)

Redazione 20/06/13
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Ritenuto in fatto

1. Il G.U.P. del Tribunale di Termini Imerese, con sentenza dell’11/7/2011, condannò B.G., dirigente medico in servizio presso la Divisione di chirurgia dell’ospedale (omissis) , alla pena sospesa stimata di giustizia, nonché al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede in favore della parte civile, oltre a disporre provvisionale a vantaggio di quest’ultima, in relazione al decesso di O.F. , intervenuto per arresto cardiocircolatorio a seguito di occlusione intestinale, addebitato a colpa dell’imputato, oltre che di altri soggetti separatamente giudicati, consistita nel non avere promosso le opportune indagini diagnostiche volte ad accertare gli eventuali residui intestinali di bario (in precedenza insufflato alla vittima al fine di far luogo ad esame radiologico) e nell’aver dimesso il paziente quando ancora presentava sindrome dolorosa e assenza di canalizzazione, dopo essere stato sottoposto ad intervento chirurgico di laparatomia a losanga comprendente ileostomia.
1.1. La Corte d’appello di Palermo, investita della cognizione impugnatoria dall’appello proposto dall’imputato, con sentenza del 22/9/2012, confermò la statuizione di primo grado.
1.2. Questa, in estrema sintesi, la ricostruzione dei fatti effettuata dai giudici di merito da prendere in considerazione nel presente giudizio di legittimità.
O.F. , in precedenza sottoposto, presso l’ospedale (omissis) ad intervento chirurgico di emicolectomia con anastomosi addominale, a causa di uno stato di peritonite generalizzata con perforazione del colon sinistro, veniva nuovamente ricoverato, sempre presso il medesimo nosocomio, ove gli veniva praticato esame radiografico a clisma opaco, e, l'(…), nuovo intervento di ricanalizzazione. Dimesso il (…), il (omissis) veniva trasportato d’urgenza presso l’ospedale (omissis) , ove gli veniva diagnosticato shock ipovolemico con occlusione intestinale e addome acuto. Nonostante le approntate cure (ivi incluso nuovo intervento chirurgico, che aveva accertato la presenza di “anse ileali abnormemente dilatate… alcune in preda ad insufficienze vascolari… un’ansa in prossimità di quella chiusa per ileostomia… aderente e stenotica”), il quadro clinico non migliorava e alle prime ore del giorno (omissis) l’O. cessava di vivere.
Sulla base delle risultanze peritali la Corte territoriale ha attribuito la causa della morte “ad arresto cardiocircolatorio conseguito a grave shock ipovolemico con grave acidosi metabolica e insufficienza poliorgano secondario ad addome acuto da occlusione intestinale”. La persistente difficoltà di canalizzazione, protrattasi ben oltre le ordinarie 48 ore, avrebbe dovuto indurre i sanitari, e, nella specie l’imputato, ad ipotizzare che oltre al c.d. ileo paralitico (ordinaria conseguenza dell’effetto dell’anestetico), si fosse determinata la complicanza, non infrequente in simili interventi chirurgici, dell’ileo meccanico (cioè una piegatura intestinale non fisiologica). Ciononostante l’O. il (…) veniva dimesso, pur avendo fatto luogo solo a fuoriuscite gasose e modestissima emissione di feci, a séguito di somministrazione di una supposta di glicerina.
I giudici del merito addebitano all’imputato di aver concorso alle dette dimissioni, a prescindere dalla circostanza che il paziente non fosse stato da lui operato e dalla non continua presenza in reparto del B. durante i giorni della degenza, avendo omesso di tener conto del quadro clinico, anche mediante esame della cartella, essendo così, in definitiva, venuto meno all’obbligo di segnalare le ragioni che facevano apparire premature le dimissioni del paziente.
2. Nell’interesse dell’imputato proponevano separati ricorsi per cassazione gli avv.ti ****************** e **************.
2.1. Il primo ricorso è sorretto da unitaria, articolata censura, con la quale si deduce violazione di legge e vizio motivazionale rilevabile in questa sede.
Chiarito che l’istruttoria dibattimentale aveva fatto venir meno l’ipotesi posta in imputazione, secondo la quale avrebbe avuto rilievo sulla causa della morte la somministrazione del bario e, in definitiva, l’omessa indagine circa l’eliminazione dei residui della detta sostanza, secondo l’assunto difensivo l’addebito che si muoveva al B. (aver presenziato alla visita che aveva portato alle dimissioni del paziente) era ingiusto. Si era ben al di fuori della responsabilità d’equipe, stante che “quella visita non era stata contrassegnata da collegialità, non avendo i medici (che si accompagnavano al Direttore S. , B. compreso), svolto alcun ruolo consultivo, operativo o condiviso la decisione adottata dal menzionato Direttore”, stante che “l’odierno ricorrente altro non fece se non annotare sulla cartella clinica quella che era stata la decisione assunta in piena autonomia dal Direttore del reparto, che aveva proceduto alla visita del paziente”. Anche le risultanze della perizia (ivi inclusi i chiarimenti forniti dai periti) non potevano appagare. In primo luogo non poteva affermarsi che non v’era stata canalizzazione, risultando esattamente il contrario, siccome dimostrato dall’intervenuta evacuazione di feci. In secondo luogo non era vero che il paziente era stato dimesso solo a distanza di dodici ore dall’intervenuta canalizzazione, ma a distanza di ventiquattro ore, come era facile cogliere dagli atti.
Smentita (dalla cartella clinica) l’esistenza di disturbi al momento delle dimissioni, l’ileo meccanico avrebbe dovuto reputarsi complicazione non prevenibile.
Infine, la Corte territoriale, seppure en passant, aveva fatto un improprio riferimento ad un omesso obbligo d’informativa (affinché il paziente vigilasse sull’insorgere di sintomi inquietanti), che, mai contestato, non poteva in alcun modo fondare personale responsabilità.
2.2. Con il primo motivo del secondo ricorso vengono denunziati violazione di legge e vizio motivazionale sotto il profilo di cui appresso.
Il B. non rivestiva il ruolo di direttore dell’Unità Operativa Complessa di chirurgia dell’ospedale (…); né di dirigente del Reparto ove la p.o. era stata ricoverata; non fece parte dell’equipe operatoria. Si era limitato a svolgere due turni, nella qualità di medico di guardia, durante il periodo di degenza dell’O. .
Il ricovero era stato disposto dal Direttore (c.d. primario) dell’Unità complessa, dott. S. , il quale aveva praticato l’intervento chirurgico, aveva seguito il decorso postoperatorio, e aveva dimesso il paziente. Né l’imputato era in possesso di elementi di sorta per opporsi alle dette dimissioni.
2.3. Con il secondo ed ultimo motivo ci si duole di violazione di legge e vizio motivazionale per avere il giudice di prime cure proceduto col rito abbreviato, omettendo d’informare l’imputato (comb. disp. artt. 441, comma 5 e 441bis, commi 1, 2 e 4, cod. proc. pen.) che avrebbe potuto revocare la propria richiesta del rito alternativo, dopo che il giudice aveva deciso di acquisire ulteriori accertamenti.
3. In data 17/4/2013 la P.C. depositava memoria conclusionale con la quale insiste per il rigetto dell’impugnazione, condannandosi l’imputato al risarcimento del danno e ponendosi a carico del medesimo provvisionale.

Considerato in diritto

4. La prospettazione difensiva in rito sintetizzata sub 2.3. non appare fondata.
Il ricorrente pretende d estendere l’ipotesi in cui il giudice che procede nelle forme del rito abbreviato ritenga di poter decidere solo acquisendo ulteriori elementi di conoscenza (nella specie venne disposta perizia) – art. 441, comma 5, cod. proc. pen. – a quella in cui, dopo la scelta del rito, il P.M. proceda a nuova contestazione – art. 441 bis, cod. proc. pen. – L’estensione si appalesa del tutto ingiustificata, stante che solo nel secondo caso il mutamento della contestazione incide sulla scelta di accedere al rito alternativo, mentre nel primo il giudice, fermo l’addebito, esercitando un potere che gli è proprio, decide di approfondire le acquisizioni probatorie. Né l’imputato ha motivo di dolersi di una tale possibilità, che gli era ben nota sin dall’inizio, essendosi determinato a richiedere il rito alternativo tenuto conto delle risultanze istruttorie e di quanto ulteriormente acquisibile per opera del giudice, sulla base dell’art. 441, cod. proc. pen..
5. Le censure attinenti al merito non meritano migliore sorte.
5.1. A tutto concedere il dott. B. , il quale prese parte alla visita collegiale che determinò la dimissione del paziente, davanti ad una determinazione presa dal Direttore del reparto, che egli non trovava condivisibile, era tenuto ad esprimere formalmente il proprio dissenso, manifestandone le ragioni (sul punto, Cass., Sez. 4, 17/11/1999 n. 556). Il perito grafico nominato dal Giudice accertò che l’espressione trascritta sulla cartella clinica: “decorso a norma; si rimuove peros; condizioni cliniche buone, si dimette” era stata vergata di pugno dall’imputato. Quindi, correttamente, da ciò i giudici del merito hanno desunto che il predetto fu presente alla visita all’esito della quale l’O. venne dimesso.
Ferme restando le altrui responsabilità, siccome anticipato, il medico che insieme al direttore del reparto compie attività sanitaria non può pretendere di essere sollevato da responsabilità ove ometta di differenziare la propria posizione, rendendo palesi i motivi che lo inducono a dissentire dalla decisione eventualmente presa dal direttore. Infatti, tenuto conto degli interessi primari da salvaguardare e delle qualificate e specifiche competenze professionali dei protagonisti, non può affatto ritenersi che il medico, chiamato allo svolgimento di funzioni sanitarie, possa venir meno al dovere primario di assicurare, sulla base della miglior scienza di settore, le migliori cure ed attenzioni al paziente, in base ad un male interpretato dovere di subordinazione gerarchica.
Né, il medesimo può assumere a propria discolpa la circostanza che il paziente fosse stato da altri seguito in prevalenza (in specie dal dott. S. , direttore sanitario): egli partecipò alla visita collegiale, ebbe a disposizione tutti i dati clinici del caso raccolti in cartella, ebbe modo di osservare l’O. , potendone raccogliere anche ogni sorta di utile informazione al fine di potersi rendere conto dell’inopportunità dell’immediata dimissione.
5.2. In ordine alla detta inopportunità, costituente valutazione di fatto, questa Corte deve rimettersi alle statuizioni dei giudici di merito e la censura difensiva deve essere rigettata in quanto volta ad ottenere riesame nel merito della decisione, ampiamente e coerentemente motivata con il sostegno di valutazioni peritali.
Ovviamente, in questa sede non è consentito sostituire la motivazione del giudice di merito, pur anche ove il proposto ragionamento alternativo apparisse di una qualche plausibilità.
Sull’argomento può richiamarsi, fra le tante, la seguente massima, tratta dalla sentenza n. 15556 del 12/2/2008 di questa Sezione, particolarmente chiara nel delineare i confini del giudizio di legittimità sulla motivazione: Il nuovo testo dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., come modificato dalla L. 20 febbraio 2006 n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli “atti del processo”, non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere a una rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il «novum» normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto travisamento della prova, finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere a un’inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no «veicolato», senza travisamenti, all’interno della decisione.
Qui, invero, le conclusioni peritali, condivise dai giudici del merito, hanno evidenziato che già prima delle dimissioni il quadro clinico imponeva cautela e consigliava di non sottovalutare i gravi rischi incombenti, anche sotto forma di complicazioni. Senza che possa assumere rilievo di sorta l’esatto conteggio delle ore trascorse, quel che è certo è che il paziente venne dimesso con un quadro doloroso e di nausea ancora non definitivamente superato e in presenza solo di timidi e non univoci segni di canalizzazione al quinto giorno del decorso postoperatorio.
6. Non è dato cogliere la valenza delle istanze affidate dalla P.C. alla “comparsa conclusionale” depositata prima dell’udienza, stante che, a parte ogni altra considerazione, i giudici del merito hanno statuito nell’interesse della detta condannando l’imputato al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, e ponendo provvisionale a carico dell’imputato.
7. All’epilogo consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione