Riparazione per l’ingiusta detenzione (Cass. pen. n. 41694/2012)

Redazione 25/10/12
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Ritenuto in fatto

1. Ni.I. è stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere dal 16 ottobre al 21 dicembre 2001 ed a quella degli arresti domiciliari dal 21 dicembre 2001 al 10 giugno 2002 nell’ambito di un procedimento penale promosso nei suoi confronti e di altri coimputati per il reato di illecita detenzione di sostanza stupefacente a fini di spaccio, conclusosi con la sua assoluzione per non aver commesso il fatto.
Da qui la richiesta avanzata dal medesimo di riparazione per l’ingiusta detenzione subita, a norma dell’art. 314 cod. proc. pen..
2. La Corte di appello di Catania, con ordinanza del 26 marzo 2010, respingeva la domanda sul presupposto della sussistenza di un comportamento dell’istante connotato da colpa grave, tale da integrare condizione sinergica ai fini dell’emissione e del mantenimento della ordinanza cautelare.
Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il Ni. tramite il proprio difensore, deducendo che la Corte territoriale aveva omesso del tutto di esporre le ragioni in base alle quali aveva ritenuto integrati gli estremi del dolo o della colpa grave, ostativi al riconoscimento del diritto all’equa riparazione.
La Corte di cassazione, con sentenza del 1° febbraio 2011, annullava con rinvio l’ordinanza impugnata, rilevando che nel provvedimento censurato la Corte territoriale aveva omesso di spiegare quale contributo in concreto, con la condotta di acquisto della sostanza stupefacente assertivamente inficiata da colpa grave, il Ni. avesse apportato ai fini della emissione e del mantenimento del provvedimento custodiale, in modo tale da indurre in errore l’autorità procedente circa la detenzione per uso non personale della sostanza stupefacente; né risultava preso in esame il contenuto delle intercettazioni ambientali, al fini della eventuale valutazione delle espressioni usate, sotto il profilo della negligenza o della imprudenza, quali cause del prevedibile, anche se non voluto, intervento degli inquirenti.
3. La Corte di appello di Catania, giudicando in sede di rinvio, è pervenuta ad analoga decisione reiettiva con ordinanza in data 5 luglio 2011, avverso la quale è stato proposto nuovo ricorso per cassazione.
Deduce in particolare il ricorrente come nel nuovo provvedimento non risulti fornita alcuna motivazione circa la sussistenza delle condizioni ostative al richiesto beneficio, dal momento che i giudici a quibus avrebbero preso in considerazione, ai fini della decisione, telefonate intercettate tra altri soggetti, senza che ciò potesse dispiegare rilevanza alcuna agli effetti di una condotta colpevole posta in essere dal ricorrente. La Corte, dunque, non avrebbe offerto alcuna motivazione sul perché l’aver ammesso il ricorrente l’acquisto di sostanza stupefacente per uso personale costituisca dolo o colpa grave, così da inibire il diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione, alla luce dei principi a tal proposito enunciati dalla giurisprudenza di legittimità.
4. Il Procuratore generale, in sede di requisitoria scritta rassegnata a norma dell’art. 611 cod. proc. pen., ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’impugnata ordinanza, rilevando che la Corte di appello, non uniformandosi ai principi enunciati da questa Corte nella sentenza di annullamento, aveva ravvisato la sussistenza della colpa grave da parte del ricorrente sostanzialmente sulla base degli stessi elementi in forza dei quali il medesimo era stato a suo tempo assolto dalla imputazione di detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente; cosicché nel giudizio di rinvio, all’esito del quale la Corte ha ritenuto di confermare la precedente decisione, non risultava fornita effettiva spiegazione in ordine al ritenuto contributo colposo fornito dal Ni. e reputato come ostativo alla misura riparatoria richiesta, alla stregua dei principi richiamati nella pronuncia rescindente.
5. Di Contro, con diffusa memoria datata 5 maggio 2012, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile o respinto. Si sottolinea, al riguardo, come la condotta dolosa o gravemente colposa debba essere apprezzata nel momento genetico della detenzione e si rileva come, alla stregua della giurisprudenza di legittimità, diffusamente passata in rassegna, la condotta del Ni. fosse stata, sopratutto in una prima fase, improntata al mendacio, svolgendo, dunque, un “ruolo sinergico nel trarre in errore” l’autorità giudiziaria.
6. La Terza Sezione penale della Corte di cassazione, cui il ricorso è stato assegnato, ha ritenuto di rimettere il ricorso medesimo alle Sezioni Unite, deducendo un profilo in rito che poteva dar luogo all’insorgenza di interpretazioni contrastanti.
Rileva, infatti, la Sezione rimettente che, nelle more, è intervenuta la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in data 10 aprile 2012, nel caso ********** c. Italia, che, proprio con riguardo al procedimento per l’accertamento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione di cui agli artt. 314 e segg. cod. proc. pen., ha ravvisato la violazione dell’art. 6 della CEDU in tema di diritto ad un equo processo, per la mancanza di pubblicità del rito camerale, quale è quello che si celebra davanti alla Corte di appello a norma degli artt. 643, 646 e 127 cod. proc. pen., richiamati dall’art. 315 del medesimo codice, per la trattazione della domanda di riparazione per ingiusta detenzione.
La Corte di Strasburgo – sottolinea la Terza Sezione – dopo aver rammentato l’importanza che assume la pubblicità del dibattimento nel quadro delle garanzie di trasparenza del processo e di salvaguardia dei diritto ad un equo processo, secondo i principi tracciati dalla Convenzione, e rammentati altresì, alla luce della propria giurisprudenza, i casi in cui può ritenersi consentito derogare alla pubblicità della udienza, ha osservato che, nel caso del procedimento per la riparazione della ingiusta detenzione, il giudice è chiamato a valutare se l’interessato abbia contribuito a provocare la sua detenzione intenzionalmente o per colpa grave. Pertanto, ha concluso la Corte europea, nessuna circostanza particolare giustifica la esclusione della pubblicità della udienza, «non trattandosi di questioni di natura tecnica che possano essere regolate in maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo».
Preso dunque atto di tale pronuncia, la Sezione rimettente, dopo aver rammentato che la Corte territoriale ha nella specie proceduto in camera di consiglio e che la stessa Corte di cassazione è chiamata a procedere parimenti con rito camerale, nella specie non partecipato, a norma dell’art. 611 cod. proc. pen., sottolinea come si ponga il problema di stabilire se il principio sancito in tema di udienza pubblica dalla Convenzione EDU – per come interpretato dalla Corte di Strasburgo – debba essere assicurato anche nel procedimento davanti alla Corte di cassazione, essendo stata esclusa la legittimità del rito camerale davanti alla Corte territoriale, e stabilire, altresì, se la medesima esigenza di pubblicità della udienza, «estesa nella sentenza della Corte Europea al procedimento ex art. 127 cod. proc. pen. davanti alla Corte di appello, imponga in questa sede l’annullamento con rinvio della sentenza di secondo grado per violazione dell’art. 6 CEDU».
7. Il Primo Presidente, con decreto del 21 agosto 2012, ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite, fissando per la data odierna la relativa udienza camerale di trattazione.
8. La Procura generale presso la Corte di cassazione, sui temi per i quali sono state investite le Sezioni Unite, ha, all’esito di articolati rilievi, chiesto:
a) di affermare il principio secondo cui la pubblicità della udienza, con riferimento al procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, non deve essere necessariamente assicurato nel procedimento innanzi alla Corte di cassazione e che ciò vale per il caso in esame;
b) di affermare il principio secondo cui la violazione della esigenza di pubblicità dell’udienza davanti alla Corte di appello non impone, per ciò solo, in questa sede, l’annullamento con rinvio della ordinanza di secondo grado per violazione dell’art. 6 CEDU;
c) di annullare la impugnata ordinanza per le ragioni già illustrate nella requisitoria del medesimo Ufficio del 6 dicembre 2012, e della quale si è già detto.
9. Con memoria depositata il 20 ottobre 2012, l’Avvocatura generale dello Stato, nel riportarsi alla precedente memoria rassegnata nell’interesse del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha prospettato la irrilevanza della questione rimessa alle Sezioni Unite, rilevando che il procedimento camerale davanti alla Corte di appello ha assicurato al soggetto interessato le garanzie partecipative e di assistenza tecnica, in un procedimento che si caratterizza per connotati prettamente civilistici. Il che giustifica l’assenza della pubblicità, in linea con le deroghe ammesse dalla stessa giurisprudenza della CEDU.

Considerato in diritto

1. Il quesito in relazione al quale il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni Unite è «se, a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 10 aprile 2012, nel caso ********** c. Italia, anche per la trattazione del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione debba procedersi nelle forme della udienza pubblica anziché con le forme del rito camerale e se, in caso positivo, l’avvenuta violazione dell’art. 6 della CEDU comporti l’annullamento della decisione».
2. Nella ricordata sentenza la Corte di Strasburgo è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto contro lo Stato italiano da *****************, il quale aveva dedotto la violazione dell’art. 6 della CEDU in riferimento alla mancanza di pubblicità del procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione svoltosi in camera di consiglio dinanzi alla Corte di appello ed alla Corte di cassazione. La Corte europea, rievocando principi già affermati in numerose altre occasioni, ha ricordato come la pubblicità della udienza, costituendo un principio fondamentale sancito dall’art. 6, § 1, della Convenzione, rappresenti un valore teso a fornire una garanzia per i singoli da una giustizia che sfugge al controllo del pubblico, rappresentando, dunque, uno degli strumenti destinati a contribuire al mantenimento della fiducia nei tribunali. Attraverso la trasparenza che la pubblicità delle udienze fornisce alla amministrazione della giustizia, un simile principio – ha ribadito la Corte – «contribuisce a raggiungere l’obiettivo dell’art. 6, § 1, ossia il processo equo, la cui garanzia fa parte dei principi fondamentali di ogni società democratica».
La norma convenzionale, tuttavia – ha ancora precisato la Corte – non impedisce che i giudici, viste le particolarità della causa sottoposta al loro esame, decidano di derogare a questo principio; ma l’assenza del pubblico, totale o parziale, deve essere rigorosamente dettata e giustificata dalle circostanze oggettive del procedimento. Nel caso di specie, peraltro, sia la Corte di appello sia la Corte di cassazione avevano trattato la causa secondo la procedura della camera di consiglio, a porte chiuse, come tuttora è espressamente previsto dalla legislazione interna, per cui le parti non avevano avuto la possibilità di chiedere e ottenere una pubblica udienza.
La Corte di Strasburgo ha inoltre ricordato – anche per tale aspetto rievocando la propria costante e nutrita giurisprudenza – come una pubblica udienza possa non essere necessaria in considerazione delle peculiari ed eccezionali circostanze che caratterizzano la causa, soprattutto quando quest’ultima non sollevi questioni di fatto o di diritto che non possano essere risolte in base al fascicolo ed alle osservazioni presentate dalle parti, come nel caso in cui vengano trattate situazioni che hanno ad oggetto questioni altamente tecniche, purché la specificità della materia non esiga il controllo del pubblico.
Ebbene – ha osservato la Corte – nella procedura per la riparazione della ingiusta detenzione, i giudici nazionali sono chiamati a valutare se l’interessato abbia contribuito a provocare la sua detenzione intenzionalmente o per colpa grave: sicché, «nessuna circostanza eccezionale giustifica l’esimersi dal tenere una udienza sotto il controllo del pubblico, non trattandosi di questioni di natura tecnica che possono essere regolate in maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo»; reputando, quindi, «essenziale che i singoli coinvolti in una procedura di riparazione per custodia cautelare “ingiusta” si vedano quanto meno offrire la possibilità di richiedere una udienza pubblica innanzi alla corte di appello».
3. La tematica della pubblicità delle udienze, additata dalla Corte di Strasburgo come indefettibile componente del “giusto processo”, fatte salve le eccezionali deroghe giustificate dalle peculiarità che possono in concreto caratterizzare lo specifico procedimento preso in esame, ha già formato oggetto, come è noto, di puntuali interventi del Giudice delle leggi, chiamato a pronunciarsi proprio sulla compatibilità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., del rito camerale previsto per il procedimento relativo alla applicazione delle misure di prevenzione.
Con la sentenza n. 93 del 2010, infatti, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolgesse, davanti al tribunale e alla corte di appello, nelle forme dell’udienza pubblica. A tale approdo la Corte pervenne facendo appunto leva sul consolidato indirizzo secondo il quale si era espressa, sullo specifico tema, la giurisprudenza della Corte EDU, la quale aveva ravvisato una violazione dell’art. 6, § 1, della Convenzione nel fatto che le persone coinvolte in un procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione non si vedessero offrire la possibilità – esclusa dalla normativa nazionale – di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti di appello. Ciò, in particolare, avuto riguardo alla entità della “posta in gioco” nelle procedure di prevenzione, le quali mirano alla confisca di “beni e capitali”, coinvolgendo così direttamente la situazione patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione, nonché gli effetti che esse possono produrre sulle persone: situazione, questa, a fronte della quale «non si può affermare che il controllo del pubblico» – almeno su sollecitazione del soggetto coinvolto – «non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato».
Nella richiamata pronuncia, d’altra parte, la Corte costituzionale, nell’evocare a parametro l’art. 117, primo comma, Cost., sottolineò come la norma internazionale convenzionale, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, non potesse ritenersi in contrasto con le tutele offerte in materia dalla Carta fondamentale. «L’assenza di uno specifico richiamo in Costituzione – sottolineò infatti la pronuncia – non scalfisce, in effetti, il valore costituzionale del principio di pubblicità delle udienze giudiziarie: principio che – consacrato in altri strumenti internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art. 14) – trova oggi ulteriore conferma nell’art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall’art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea, nella versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009».
D’altra parte, rimarcò ancora la Corte, la giurisprudenza costituzionale in più occasioni ha avuto modo di sottolineare come la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisca «principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione».
I caratteri del procedimento di prevenzione, connotati dall’esistenza di un giudizio di merito, «idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e il patrimonio […], nonché la stessa libertà di iniziativa economica, incisa dalle misure anche gravemente “inabilitanti” previste a carico del soggetto cui è applicata la misura di prevenzione (in particolare, dall’art. 10 della legge n. 575 del 1965)», finivano, quindi, per conferire uno «specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato».
4. Con la successiva sentenza n. 80 del 2011, la Corte costituzionale dichiarò invece non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica: questione, anche in questo caso, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., evocandosi, come normativa interposta, l’art. 6, § 1, della CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo nei termini di cui già si è detto in tema di pubblicità della udienza nel procedimento relativo alla applicazione di misure di prevenzione. Nel frangente, la Corte costituzionale operò una attenta rilettura dei dicta della Corte di Strasburgo in merito alla interpretazione da dare al disposto dell’art. 6, § 1, della Convenzione, nella parte in cui assicura ad ogni persona il diritto che la sua causa sia esaminata “pubblicamente,” sottolineando come, al lume della giurisprudenza di quella Corte, il silenzio serbato a proposito del giudizio di legittimità risultasse particolarmente significativo, nel senso di assumere una valenza ad excludendum; e ciò, sia perché la Corte europea era stata chiamata a pronunciarsi su procedimenti di prevenzione che avevano percorso tutti i gradi della giurisdizione nazionale, compreso quello di cassazione; sia perché era consolidata nella giurisprudenza della Corte europea l’affermazione secondo la quale occorre guardare alla procedura nazionale nel suo complesso, con la conseguenza che, «a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta», dedicato «esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto».
Dunque, il giudizio di legittimità, proprio per le caratteristiche che ne contraddistinguono la funzione, fuoriesce dalla platea dei momenti di esercizio della giurisdizione in cui è necessaria la garanzia della pubblicità della udienza, posto che «la valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia della correttezza dell’amministrazione della giustizia – si apprezza […], secondo un classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative».
5. Le Sezioni Unite condividono integralmente gli approdi cui è pervenuta la Corte costituzionale nel desumere dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo il principio secondo il quale, in riferimento al giudizio di legittimità, la pubblicità della udienza non rappresenta un corollario necessario e inderogabile del diritto alla pubblicità del processo garantito dall’art. 6, § 1, della CEDU, quanto meno con riferimento alla tematica dei procedimenti speciali che vengono qui in discorso. In senso reciproco, d’altra parte, ed a corroborare un simile assunto, sta la circostanza che, ove si sia verificata una violazione dall’art. 6, § 1, della CEDU, nel gradi di merito, la eventuale trattazione del ricorso per cassazione in udienza pubblica non varrebbe – come pure puntualizzato dalla citata sentenza n. 80 del 2011 – a rimuovere e “sanare” quella violazione, dal momento che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha più volte precisato che lo svolgimento pubblico del giudizio di impugnazione che sia a cognizione limitata, come nel caso in cui il relativo sindacato sia circoscritto ai soli motivi di diritto, non compensa la mancanza di pubblicità del giudizio anteriore, «proprio perché sfuggono all’esame del giudice di legittimità gli aspetti in rapporto ai quali l’esigenza di pubblicità delle udienze è più avvertita, quali l’assunzione delle prove, l’esame dei fatti e l’apprezzamento della proporzionalità tra fatto e sanzione».
La circostanza, dunque, che il procedimento per la riparazione della ingiusta detenzione sia trattato, in sede di giudizio di legittimità, con il rito e nelle forme della trattazione camerale non partecipata, in assenza del pubblico, non evidenzia profili di contrasto tanto con il principio convenzionale dettato dall’art. 6, § 1, della CEDU – e con le altre fonti internazionali e sovrannazionali che sanciscono una regola consimile – che con il precetto della pubblicità dei giudizi, insito nella tavola dei valori tracciati dalla Costituzione.
6. Diversa e opposta è, invece, la conclusione cui occorre pervenire con riguardo al grado di merito che caratterizza lo speciale procedimento che viene qui in discorso. L’art. 315, comma 3, cod. proc. pen., stabilisce, infatti, che nel procedimento per la riparazione per ingiusta detenzione si applicano, in quanto compatibili, le norme previste sulla riparazione dell’errore giudiziario; sicché, in virtù di tale relatio, le forme di trattazione del relativo giudizio sono quelle descritte dall’art. 646, comma 1, cod. proc. pen., il quale richiama, a sua volta, il generale modello del procedimento in camera di consiglio, disciplinato dall’art. 127 del codice di rito: vale a dire, la trattazione camerale “partecipata”, in assenza del pubblico. E ciò comporta l’evidente frizione che un siffatto modello presenta rispetto ai dicta della Corte di Strasburgo – come si è detto chiaramente espressasi sul punto nel citato caso Lorenzetti – nonché, per quel che si dirà, anche con lo stesso principio del “giusto processo” stabilito dall’art. 111, primo comma, Cost..
Ai fini della devoluzione, al Giudice delle leggi, del pertinente quesito di legittimità costituzionale del quadro normativo di riferimento, occorre peraltro una peculiare disamina del pregiudiziale profilo di rilevanza della questione nello specifico procedimento oggetto dell’odierno giudizio, dal momento che il ricorrente non risulta aver formulato alcuna richiesta di trattazione in pubblico del procedimento attivato dalla sua domanda, tanto nei gradi di merito – primo grado e giudizio di rinvio – che in sede di legittimità, né ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale delle norme di legge che inibiscono la formulazione di una siffatta richiesta.
A tal proposito, queste Sezioni Unite non ignorano che la Corte costituzionale, nella già ricordata sentenza n. 80 del 2011, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento davanti al tribunale ed alla corte d’appello in materia di applicazione di misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica; inammissibilità dovuta alla circostanza che la questione aveva perso ragion d’essere per mancanza di oggetto, in considerazione del fatto che la normativa censurata era stata, nelle more del giudizio, rimossa dall’ordinamento con la già intervenuta sentenza di illegittimità n. 93 del 2010. Nel frangente, però, la Corte, nel reputare «assorbente» tale profilo di inammissibilità, non mancò di sottolineare come fosse in quello specifico caso «pur riconoscibile» altro profilo di inammissibilità, derivante «dal difetto di rilevanza della questione nel giudizio a quo, non risultando dall’ordinanza di rimessione che l’interessato, ricorrente per cassazione, [avesse] formulato nei precedenti gradi di giudizio alcuna istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento».
Il rilievo, seppure svolto in forma parentetica e del tutto incidentale, non si discosta dall’orientamento più volte espresso dalla giurisprudenza di legittimità, circa gli effetti che le sentenze di illegittimità costituzionale di norme processuali generano nei procedimenti in corso di trattazione e rispetto ai quali le disposizioni oggetto della pronuncia demolitoria del Giudice delle leggi concretamente assumano uno specifico risalto. Questa Corte, infatti, ha in più occasioni avuto modo di precisare che la sentenza che dichiara la illegittimità costituzionale di una norma ha efficacia erga omnes e acquista valore di pronuncia di accertamento costitutivo che elimina ex tunc – per contrasto con il precetto costituzionale – la norma scrutinata, con l’effetto che il giudice ha l’obbligo di non applicarla: e tale obbligo incombe, non soltanto al giudice del procedimento nell’ambito del quale è stata sollevata la relativa questione, ma anche al giudice di qualsiasi altro giudizio in cui la norma medesima debba o possa essere assunta a canone di valutazione di qualsiasi fatto o rapporto venuto ad esistenza prima della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della sentenza della Consulta. Tale effetto, si è puntualizzato, ha per presupposto l’esistenza di un vizio che inficia sin dall’origine la norma (salva la ipotesi della cosiddetta illegittimità costituzionale sopravvenuta); alla sentenza di incostituzionalità, infatti, deve annettersi efficacia invalidante e non abrogativa, e produce conseguenze assimilabili a quelle dell’annullamento, nel senso che incide, in coerenza con gli effetti propri di tale istituto, anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio nel quale è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità. La declaratoria di illegittimità costituzionale spiega, pertanto, effetti, non soltanto per il futuro, ma anche retroattivamente, in relazione a fatti o rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente; con esclusione, peraltro, di quelle situazioni giuridiche ormai esaurite, non suscettibili, cioè, di essere rimosse o modificate, quali il giudicato, l’atto amministrativo non più impugnabile, l’operatività della sanzione della decadenza, e la preclusione processuale (v., da ultimo, Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista).
Il limite alla portata “retroattiva” del fenomeno di invalidazione normativa derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale si salda, dunque, al risalto tutto processuale della norma dichiarata incostituzionale, con la conseguenza che se gli effetti “processuali” di quella norma si sono ormai consolidati, nel quadro della dinamica del procedimento – in corso o già concluso all’atto della pronuncia di illegittimità costituzionale – ma comunque “interessato” alla applicazione di quella norma, la sentenza demolitoria della norma stessa non potrà incidere su fatti e rapporti ormai cristallizzatisi alla stregua di decadenze e preclusioni, l’ultima e la più rilevante delle quali è offerta dal giudicato.
Una simile prospettiva, però, si giustifica soltanto nel quadro di un raffronto, per cosi dire “nazionale,” tra la fonte normativa ed il parametro costituzionale di riferimento, ma non tiene conto, a parere di queste Sezioni Unite, del ben diverso assetto che quello scrutinio e quel raffronto ricevono ove venga in discorso – quale normativa interposta – un principio di natura convenzionale, quale può essere il diritto al “giusto processo”, per come interpretato – in riferimento alla normativa “nazionale” – dalla Corte di Strasburgo. La pronuncia di quella Corte, infatti, nella ipotesi in cui, come nel caso Lorenzetti, additi e censuri, non un concreto “difetto” di quello specifico processo, ma una carenza strutturale del quadro normativo “domestico”, di talché qualsiasi giudizio similare finirebbe ineluttabilmente per compromettere il principio convenzionale, non può non produrre una efficacia espansiva “esterna” rispetto al caso giudicato, riverberandosi quale canone di illegittimità di ogni processo in corso di trattazione che risultasse attinto da quel difetto di tipo “strutturale”.
Al riguardo, infatti, non può sottacersi come la Corte di Strasburgo abbia in varie occasioni sottolineato come, ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, le Alte Parti contraenti abbiano assunto il preciso impegno a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte nelle controversie delle quali sono parti, e che il Comitato del Ministri è incaricato di sorvegliare l’esecuzione di quelle sentenze.
Ne deriva, in particolare, che, quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non soltanto di versare agli interessati le somme assegnate a titolo di equa soddisfazione prevista dall’art. 41 della Convenzione ma anche di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se necessario, individuali da integrare nel suo ordinamento giuridico interno, per mettere un termine alla violazione constatata dalla Corte e cancellarne, per quanto possibile, le conseguenze. Una “cancellazione delle conseguenze”, dunque, che non può certo dirsi condizionabile alla luce di istituti processuali destinati a regolare l’ordine processuale, quali decadenze o preclusioni, postulando siffatti istituti un processo secundum ius, tanto alla luce del valori costituzionali, quanto in linea rispetto ai vincoli derivanti dalla diretta osservanza della normativa convenzionale e delle pronunce promananti dalla Corte di Strasburgo, cui spetta lo ius dicere in materia, ed interpretare – con efficacia erga omnes – il significato dei principi convenzionali anche in raffronto ai singoli sistemi nazionali.
Lo Stato convenuto, d’altra parte – ha pure precisato quella Corte – rimane libero, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, di scegliere i mezzi per liberarsi dal suo obbligo giuridico alla luce dell’art. 46 della Convenzione (Corte EDU, 13/07/2000, ******** e Giunta c. Italia, § 249; 22/04/2004, ********** c. Polonia, § 192), «nel rispetto del principio di sussidiarietà, affinché la Corte non sia obbligata a ribadire la sua constatazione della violazione in una lunga serie di casi identici». Inoltre – ha aggiunto la Corte di Strasburgo – discende dalla Convenzione, ed in particolare dal suo articolo 1, che, ratificando la Convenzione, gli Stati contraenti si impegnano a fare in modo che il loro diritto nazionale sia compatibile con essa (Corte EDU, 17/02/2004, ******* c. Italia), mentre per ciò che attiene alle misure destinate a garantire l’efficacia del meccanismo stabilito dalla Convenzione, è ricorrente il richiamo alla Risoluzione (Res (2004)3) ed alla Raccomandazione (Rec (2004)6) del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa adottate il 12 maggio 2004 (Corte EDU, 09/12/20-08, Viasu c. Romania).
7. La “rilevanza” della questione di legittimità costituzionale che miri a rimuovere gli effetti di una disposizione processuale che contamini la giustizia del processo, secondo i dicta della Corte europea, non può dunque modellarsi sulla falsariga degli effetti che scaturiscono da categorie endoprocessuali che regolano l’ordo iudiciorum, giacché, ove così fosse, il processo – strutturalmente “ingiusto” – sarebbe destinato a proseguire e concludersi senza alcuna possibilità di “purgazione”, al contrario agevolmente conseguibile proprio attraverso l’incidente di costituzionalità. Il che, a tacer d’altro, comporterebbe per la persona il cui diritto al “giusto processo” è stato compromesso, la necessità di ricorrere alla Corte di Strasburgo (con gli effetti ampliativi del relativo contenzioso, che quella Corte, come si è visto, ampiamente censura), e per il giudice – nella specie, quello di legittimità, e dunque l’organo di ultima istanza chiamato a “misurare” la conformità del processo al diritti fondamentali ed irrinunciabili della persona – l’impossibilità di rendere il processo (non ancora “esaurito”), compatibile con quei diritti.
Le Sezioni Unite reputano dunque rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 315, comma 3, in relazione all’art. 646, comma 1, cod. proc. pen., da sollevare in termini sostanzialmente analoghi a quelli che hanno dato luogo alla sentenza di incostituzionalità n. 93 del 2010 in tema di procedimento relativo alla applicazione delle misure di prevenzione, giacché, ove la normativa censurata venisse ritenuta costituzionalmente illegittima, la ordinanza impugnata dovrebbe essere annullata con rinvio, onde consentire alla parte privata nel relativo giudizio davanti alla corte di appello, di eventualmente formulare richiesta di trattazione del procedimento in udienza pubblica. La circostanza, infatti, che l’odierno ricorrente non abbia formulato doglianze di sorta sul punto, non esclude la rilevabilità del tema, proprio in considerazione dei già segnalati effetti che scaturiscono dalla sentenza della Corte EDU nel caso **********, la quale, avendo accertato la violazione strutturale del principio convenzionale, determina la necessità che i processi, ancora pendenti, si conformino ad essa, previa la declaratoria di illegittimità costituzionale in parte qua delle norme nazionali contrastanti con quel principio.
8. In punto di non manifesta infondatezza della questione, va rilevato come, a partire dalle note sentenze n. 348 e 349 del 2007, l’orientamento della giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea del diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione, integrano, quali “norme interposte”, il parametro offerto dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna al vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. In tale quadro di riferimento, ove si appalesi un eventuale contrasto tra la norma nazionale e la disposizione convenzionale, per come interpretata dalla competente Corte, il giudice comune è chiamato a verificare, anzitutto, la praticabilità della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia – come nella specie – esito negativo, e non essendo abilitato a procedere ad una diretta conformazione del sistema attraverso la disapplicazione della norma interna in ipotesi contrastante con la CEDU, egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro indicato. Dal canto suo, la Corte costituzionale, investita del relativo sindacato, pur non potendo discostarsi dalla interpretazione della Convenzione da parte della Corte EDU, è chiamata a verificare se la norma della Convenzione (essendo a livello sub-costituzionale) si ponga a sua volta in eventuale contrasto con altre norme della Costituzione: eventualità, questa, che, oltre ad essere additata dalla giurisprudenza costituzionale alla stregua di «ipotesi eccezionale», certamente non ricorre nel caso di specie, avuto riguardo al già ricordato scrutinio a tal proposito condotto nelle sentenze n. 93 del 2010 e 80 del 2011. Ferma restando, comunque, la spettanza al Giudice delle leggi di un «margine di apprezzamento e di adeguamento», che – nel rispetto della «sostanza» della giurisprudenza di Strasburgo – le consenta comunque di tenere conto delle peculiarità dell’ordinamento in cui l’interpretazione della Corte europea è destinata ad inserirsi (da ultimo, v. la sentenza n. 230 del 2012 e la giurisprudenza ivi citata).
Ebbene, la sentenza della Corte di Strasburgo sul caso **********, impone la devoluzione del dubbio di legittimità costituzionale, in quanto, al pari delle varie decisioni che hanno riguardato la procedura camerale nel procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione – e dalle quali è scaturita la più volte richiamata pronuncia di illegittimità costituzionale – si è reputato non conforme al principio della pubblicità della udienza inteso come componente essenziale del diritto al “giusto processo”, di cui all’art. 6, § 1, della CEDU, la circostanza che anche il giudizio di merito davanti alla corte di appello per il procedimento di riparazione per la ingiusta detenzione, si celebri senza la presenza del pubblico e non sia prevista la possibilità, per la parte interessata, di formulare una richiesta in tal senso.
Accanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento alla riscontrata violazione dell’art. 6, § 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il quadro normativo oggetto di impugnativa appare essere in contrasto anche con l’art. 111, primo comma, Cost., dal momento che i principi che sostengono il “giusto processo” regolato dalla legge, non possono ritenersi, nel caso in esame, diversi o più circoscritti di quelli che connotano tanto la norma convenzionale, che gli altri strumenti sovrannazionali di cui si è detto, e che, a loro volta, risultano del tutto sintonici con gli analoghi principi desumibili dalle consolidate tradizioni costituzionali dei Paesi democratici. Non può, infatti, non rammentarsi come la riforma dell’art. 111 Cost., attuata ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), sia stata dichiaratamente intesa a recepire nel testo costituzionale il concetto di “giusto processo” elaborato dalla giurisprudenza di Strasburgo a margine del corrispondente principio sancito dalla Convenzione, al punto che (come emerge dai lavori parlamentari che hanno accompagnato la riforma costituzionale), nel testo elaborato dal comitato ristretto, il secondo comma dell’art. 111 espressamente prevedeva che «Il processo è pubblico, salvo i casi espressamente previsti dalla legge».
Disposizione, questa, che, caldeggiata dal relatore ed altri parlamentari (v. ad es., l’intervento del relatore **** e dell’on. ***** nella seduta del 21 luglio 1999 della Camera), fu ritenuta da altri pericolosa per l’assetto complessivo del codice di rito, specie per ciò che riguardava i procedimenti alternativi e le correlative esigenze di celerità (v. ad es. gli interventi dell’on. ********* nella seduta della Camera del 21 luglio 1999 e dell’on. ***** nella seduta del 27 luglio 1999).
Da ciò, dunque, è possibile desumere che non sussiste un “contrasto,” né di ordine testuale né di ordine logico-concettuale tra i valori del “giusto processo”, quali positivamente definiti dalla Carta costituzionale, e quelli delineati dalla CEDU, per come interpretati dalla relativa Corte, ponendosi, semmai, un profilo di reciproca interazione e di tendenziale reductio ad unitatem. In altri termini, il “giusto processo regolato dalla legge” e destinato ad attuare la giurisdizione nazionale, non può non prevedere la pubblicità della udienza come regola generale, appunto, del “processo”, ferma restando, peraltro, la derogabilità di un siffatto principio – di garanzia, ad un tempo, per il singolo, e di trasparenza per la giurisdizione – in presenza di peculiari connotazioni dei singoli modelli procedimentali che non comportino la necessità del controllo del pubblico.
Ebbene, se si conviene con la Corte di Strasburgo che tali peculiarità non siano ravvisabili nel procedimento per la riparazione per la ingiusta detenzione e, soprattutto, che le stesse non giustifichino – sul piano delle ragionevoli scelte discrezionali che ciascun legislatore nazionale è abilitato a compiere – l’assenza della possibilità di una trattazione in pubblico di quel procedimento nella fase del merito, allora se ne deve desumere che la scelta normativa risulta essere, nel frangente, contrastante con la stessa regola costituzionale del “giusto processo”, proprio perché non coerente con l’assetto, anche convenzionale, che quel principio è chiamato a realizzare come diritto della persona e connotato della giurisdizione.
D’altra parte, lo specifico rilievo costituzionale del valori coinvolti dall’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, impedisce di riguardare il relativo procedimento alla stregua di un quid minus che escluda qualsiasi risalto all’interesse per la pubblicità del relativo giudizio. Come ha più volte sottolineato la giurisprudenza costituzionale, infatti, è proprio l’art. 314 cod. proc. pen. «a porsi come disciplina concretizzatrice della disposizione di principio contenuta nell’art. 24 Cost.», il cui ultimo comma «enuncia un principio di altissimo valore etico e sociale, che va riguardato – sotto il profilo giuridico – quale coerente sviluppo del più generale principio di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), assunto in Costituzione tra quelli che stanno a fondamento del’intero ordinamento repubblicano, e specificantesi, a sua volta, nelle garanzie costituzionalmente apprestate ai singoli diritti individuali di libertà, ed anzitutto e con più spiccata accentuazione a quelli che sono immediata e diretta espressione della personalità umana». È ben vero – ha soggiunto la Corte costituzionale – «che una riparazione di carattere patrimoniale, venendo a monetizzare il sacrificio di una libertà inviolabile, ne costituisce un pallido rimedio, cui debbono sempre venir preferiti strumenti capaci di evitare o limitare il danno, ovvero di reintegrarlo in forma specifica. E tuttavia tale argomento non può valere certamente ad escludere la via della tutela risarcitoria o indennitaria quando, di fatto, essa sia l’unica praticabile nell’ordinamento»; in linea, d’altra parte, con la natura di rimedio destinato ad essere «estrinsecazione di un principio solidaristico», in ragione della natura dei diritti coinvolti (v., in particolare e da ultimo, la sentenza n. 219 del 2008).
Un quadro di riferimento, quindi, nell’ambito del quale il procedimento de quo – finendo per essere orientato a salvaguardare diritti fondamentali della persona, secondo una prospettiva risarcitoria dalla quale non appaiono estranei profili di riparazione anche “morale”- sembra presentare appieno i connotati che ben possono giustificare una richiesta di trattazione pubblica. La preclusione normativa oggetto di censura appare, insomma, anche per tali aspetti, in contrasto con la regola del “giusto processo,” sancita dall’art. 111, primo comma, Cost..
9. Deve dunque, in conclusione, essere dichiarata la rilevanza e la non manifesta infondatezza, in riferimento agli artt. 117, primo comma, e 111, primo comma, Cost., dell’art. 315, comma 3, in relazione all’art. 646, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il provvedimento per la riparazione per l’ingiusta detenzione si svolga, davanti alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica.
Va conseguentemente disposta la sospensione del giudizio in corso e dato mandato affinché siano curati gli adempimenti e le comunicazioni di cui all’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

 

P.Q.M.

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 315, comma 3, in relazione all’art. 646, comma 1, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 117, primo comma, e 111 Cost..
Sospende il giudizio in corso e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa nonché al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Così deciso il 18 ottobre 2012.

Redazione