Rimesso al vaglio delle Sezioni Unite il potere-dovere di rilevare d’ufficio la nullità di un contratto (Cass. n. 16630/2013)

Redazione 03/07/13
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Fatto e diritto

1. Con atto di citazione del febbraio 1992, il sig. Sa.Fe., quale procuratore generale di M.G., conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Padova, la signora P.P. e i coniugi B.A. ed S.A., chiedendo – al fine dell’ottenimento del rilascio del bene – che venisse dichiarata, in via principale, la nullità e, in via subordinata, l’annullamento sia del contratto di rendita vitalizia (sul presupposto che fossero frutto di macchinazione in danno della cedente), concluso con la P. il 5 dicembre 1984, a rogito del notaio **********, con cui la M. aveva ceduto alla P. la nuda proprietà di un locale ad uso negozio (sito in (omissis) ), in cambio di un vitalizio di L. 7.000.000 all’anno, sia del successivo contratto, concluso dalla M. , nella qualità di procuratrice speciale della P. , con i predetti coniugi B. – S. il 20 novembre 1985, a rogito per notar **********, con il quale la P. aveva ceduto agli stessi coniugi la nuda proprietà del medesimo locale al prezzo di L. 135.000.000, da pagarsi in rate semestrali nei sette anni successivi.
Si costituivano in giudizio gli anzidetti coniugi B. – S. e la P. , che resistevano alla domanda e formulavano, a loro volta, domanda risarcitoria in relazione all’art. 96 c.p.c. Essendo sopravvenuto nelle more del giudizio il decesso della M.G. , la causa veniva proseguita dal suo successore universale, Sa.Fe. , che l’aveva rappresentata dapprima nella specificata qualità. Il Tribunale adito, con sentenza n. 550 del 2003, accoglieva la domanda principale e rigettava quella riconvenzionale, così pervenendo alla dichiarazione di nullità del contratto di costituzione di rendita vitalizia (per difetto del requisito essenziale dell’alea) e, conseguentemente, a quella di nullità del contratto di cessione della nuda proprietà del 20 novembre 1985, non potendosi ritenere la cedente quale titolare del diritto trasferito ai cessionari.
I tre convenuti in primo grado formulavano appello avverso la suddetta sentenza e l’appellata avanzava, a sua volta, gravame incidentale allo scopo dell’ottenimento della richiesta restituzione del bene oggetto della controversia, che non era stata disposta dal giudice di prime cure.
La Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 878 del 2006, dichiarava l’estinzione del giudizio limitatamente all’appello proposto nell’interesse della P.P. , rigettava il gravame principale formulato dai coniugi B. – S. ed accoglieva l’appello incidentale formulato dal Sa. , onde, in parziale riforma della decisione impugnata, condannava i menzionati coniugi a restituire, in favore del Sa. , il bene conteso, con conseguente condanna degli appellanti principali soccombenti alla rifusione delle spese del grado.
I coniugi B.A. e S.A. proponevano ricorso per cassazione nei confronti della richiamata sentenza della Corte veneta e, allo stesso modo, il Sa. formulava ricorso incidentale. Questa Corte, con sentenza n. 10049 del 2008, riuniti i ricorsi, rigettava il primo motivo del ricorso principale e il ricorso incidentale, mentre accoglieva il secondo motivo dell’impugnazione principale, dichiarando l’assorbimento degli altri motivi, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata in ordine al motivo ritenuto fondato ed il rinvio della causa alla Corte di appello di Brescia.
Con l’indicata sentenza, questa Corte di legittimità ravvisava, innanzitutto, l’inammissibilità del primo motivo svolto con il ricorso principale in ordine alla dedotta illegittimità della dichiarazione di estinzione del giudizio limitatamente al gravame proposto nell’interesse della P. , alla quale si correlava l’infondatezza del gravame incidentale (poiché la rinuncia all’appello era intervenuta, ad istanza della P. , con riferimento alla dichiarata nullità del contratto di rendita vitalizia, concluso tra la stessa P. e la M.); indi, accoglieva il secondo motivo attinente all’omessa pronuncia sul motivo di appello, con il quale i predetti coniugi avevano censurato la sentenza del primo giudice nella parte in cui aveva dichiarato la nullità del contratto di rendita vitalizia tra la M. e la P. , per difetto di alea, sulla base del mero confronto tra il valore dell’immobile ceduto (nei limiti della nuda proprietà) e l’obbligazione del vitalizio di sette milioni, omettendo di esaminare le altre obbligazioni previste a carico della medesima P. , con conseguente necessità della riconsiderazione della valutazione del rischio e, quindi, della sussistenza o meno dell’alea.
Con atto di citazione notificato il 31 luglio 2008 il Sa.Fe. riassumeva il giudizio in sede di rinvio dinanzi alla designata Corte di appello di Brescia e i convenuti in riassunzione si costituivano in tale sede.
Con sentenza n. 2 del 2011 (depositata il 13 gennaio 2011), l’adita Corte di appello bresciana, pronunciando in sede di rinvio, respingeva l’appello proposto da B.A. e S.A. avverso la sentenza n. 550 del 2003 del Tribunale di Padova e, di conseguenza, condannava i medesimi alla rifusione delle spese, in favore di entrambe le controparti, del celebrato giudizio di rinvio.
A sostegno della decisione adottata quale giudice di rinvio, la richiamata Corte territoriale, evidenziate preliminarmente le caratteristiche del giudizio di rinvio (con l’individuazione dei correlati poteri dello stesso giudice di rinvio) ed enucleata la portata del “decisum” della suddetta sentenza della Corte di cassazione (considerando, pregiudizialmente, che sulla pronuncia di estinzione, così precedentemente limitata, era ormai sopravvenuto il giudicato), incentrava la propria analisi, in relazione agli effetti propriamente involti dalla statuita cassazione in accoglimento del secondo motivo dell’appello principale, sul riesame dell’accertamento – nel confrontare le pattuizioni intervenute tra la M.G. e la P.P. in uno alla situazione obiettiva configurabile alla data di perfezionamento del contratto di rendita vitalizia – relativo alla sussistenza o meno dell’elemento essenziale dell’alea. E a tal proposito, in tali sensi delimitato il contenuto della sentenza di annullamento adottata in sede di legittimità, la Corte di rinvio, dopo aver riesaminato tutti gli elementi necessari ed individuate ed economicamente determinate, in particolare, le prestazioni poste a carico della vitaliziante, confermava il giudizio, già espresso dal precedente giudice di appello, di “grave e profondo squilibrio originario in favore della M. , tale da escludere il requisito dell’alea e, in definitiva, da determinare la nullità del contratto per mancanza di causa”, da cui derivava la conseguenza che la nuda proprietà dell’immobile oggetto della convenzione non era mai sta trasferita alla P.P. , la quale, quindi, non avrebbe potuta cederla ai coniugi B. -S. .
Avverso la suddetta sentenza adottata in sede di rinvio hanno proposto ricorso per cassazione B.A. e S.A. , articolato in sette motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimato Sa.Fe. , formulando contestualmente anche ricorso incidentale, riferito ad un unico motivo. L’altra intimata P.P. non ha svolto attività difensiva nella presente sede di legittimità, mentre il ricorrente principale ha, a sua volta, formulato controricorso nei confronti dell’avanzato ricorso incidentale. I difensori dei ricorrenti principali e del ricorrente incidentale hanno, altresì, depositato memoria illustrativa ai sensi dell’ari 378 del codice di rito civile.
2. Con il primo motivo i ricorrenti principali hanno dedotto – ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc. – la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 360, 366, 383. 384, 392, 394 c.p.c. e art. 111 Cost., sull’assunto presupposto che la Corte bresciana, con la sentenza impugnata, aveva violato il principio di intangibilità della sentenza della Corte di cassazione n. 10049 del 2008, poiché il giudice di rinvio si sarebbe dovuto limitare soltanto a procedere alla valutazione del rischio che (invece) sussisteva e non ad accertare se fosse ravvisabile l’elemento essenziale dell’alea riguardante il contratto di rendita vitalizia dedotto in causa.
3. Con il secondo motivo gli stessi ricorrenti principali hanno denunciato – in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. – l’assunta nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1861 e segg., 1872, 1878 c.c. in combinato con gli artt. 1322, 1325, 1326, 1346, 1362 e segg., 1453, 1322, 1467, 1325, 1362 e segg. c.c., nonché degli artt. 112, 115, 116, 214, 215 c.p.c.. Con tale censura la difesa dei coniugi B. -S. ha inteso prospettare che la sentenza impugnata era incorsa nella violazione del “divieto del bis in idem”, per effetto della preclusione derivante dal giudicato interno riconducibile alla predetta sentenza della Corte di cassazione, oltre che dai giudicati delle altre pregresse sentenze intervenute tra le parti, deducendo, altresì, che la sentenza stessa si sarebbe dovuta ritenere nulla laddove aveva interpretato le domande, le eccezioni e le deduzioni delle parti con vizio ricollegabile alla violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui al richiamato art. 112 c.p.c..
4. Con il terzo motivo i coniugi B. -S. hanno censurato la sentenza impugnata – in ordine all’art. 360 n. 3 c.p.c. – per nullità della sentenza in conseguenza della violazione degli artt. 1704 e 1722 c.c., nonché degli artt. 305, 299 e 300 c.p.c., avuto riguardo alla supposta illegittimità della dichiarazione di intervenuta estinzione del giudizio a causa della tardiva costituzione dell’erede Sa.Fe. , a seguito del decesso della sua dante causa.
5. Con il quarto motivo i ricorrenti principali hanno prospettato – avuto riguardo all’art. 360 n. 3 c.p.c. – la violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. in combinato con gli artt. 2909 c.c., 36 e 112 e seg., 167 c.p.c., in relazione all’art. 1325 c.c., 1350 n. 10,2643,2645, 1872 c.c. e 132 e 366 c.p.c.; nonché – con riferimento all’art. 360 nn.4 e 5 c.p.c – il vizio di omessa od insufficiente motivazione su fatti decisivi per il giudizio ex artt. 1325, 1872 in combinato disposto con l’art. 112 c.p.c.. In particolare, con tale complessa doglianza, i coniugi ricorrenti hanno denunziato l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva negato che la sentenza n. 1187 del 1992 del Tribunale di Padova (con la quale era stata respinta la domanda di risoluzione del contratto di rendita vitalizia proposta, in data 9 dicembre 1984, dalla M.G. nei confronti di P.P. ), divenuta incontrovertibile perché non impugnata, costituisse giudicato sostanziale implicito esterno, sul presupposto che la costituzione della rendita vitalizia e la cessione della nuda proprietà dell’immobile per cui era causa erano rimaste incontestabilmente estranee alla anzidetta decisione. In senso contrario, i medesimi ricorrenti hanno inteso invece sostenere che, nel caso di specie, era incontestabile che ricorresse l’identità delle domande proposte dalla M.G. nel giudizio deciso con la richiamata sentenza n. 1187 del 1992 (passata in giudicato) e quelle formulate nel giudizio introdotto da Sa.Fe. (quale procuratore generale della M. ) con atto di citazione del 7 febbraio 1992, mediante il quale era stata invocata la nullità del contratto di rendita vitalizia stipulato tra la M. e la P. e la conseguente nullità del contratto di cessione della nuda proprietà del 20 novembre 1985 in favore dei coniugi B. -S. , non potendosi ritenere la cedente quale titolare del diritto trasferito ai cessionari. Pertanto, si sarebbe dovuto ritenere che si era venuto legittimamente venuto a formare (per effetto del rigetto, con sentenza passata in giudicato, della pregressa domanda di risoluzione) il giudicato sostanziale implicito – rilevabile d’ufficio – sulla validità del contratto di rendita vitalizia, ovvero sulle questioni e sugli accertamenti che avevano costituito il presupposto logico-giuridico ed indispensabile della questione o dell’accertamento su cui era intervenuta la precedente sentenza del Tribunale padovano, divenuta incontrovertibile.
6. Con il quinto motivo i medesimi ricorrenti principali hanno dedotto – ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. – la violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c., in combinato disposto con gli artt. 100,215, 1704, 1722, 1723, 1362 c.c., oltre che con gli artt. 221, 99, 115, 116,214 e 215 c.p.c. e 111 Cost., congiuntamente alla violazione delle norme di ermeneutica di cui agli arti 1362 e segg. c.c.. Con la stessa doglianza risulta prospettata anche la nullità per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, avuto riguardo alla mancata valutazione della irrevocabilità della procura conferita alla M. dalla P. con riferimento alla successiva vendita intervenuta in favore degli stessi coniugi ricorrenti.
7. Con il sesto motivo i predetti coniugi B. -S. hanno denunciato – ponendo riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c. – l’omessa e falsa applicazione (ed interpretazione) degli artt. 112, 115, 116 e 99 c.p.c., nonché 111 Cost. e 2697 c.c., con riferimento al ritenuto assorbimento dei temi correlati alla domanda di annullamento del contratto di rendita vitalizia.
8. Con il settimo ed ultimo motivo i ricorrenti principali hanno dedotto – ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e segg. c.p.c., in combinato disposto con gli artt. 10 c.p.c. e 6 D.M. n. 127 del 2004, in uno al vizio di omessa motivazione, in ordine alla misura ed ai parametri applicati in funzione della liquidazione delle spese processuali.
9. Con l’unico motivo di ricorso incidentale il Sa.Fe. ha denunciato il vizio di nullità della sentenza e del procedimento, in relazione agli artt. 112 e 360, n. 4, c.p.c., per essere la sentenza di rinvio incorsa in omissione di pronuncia relativamente al “petitum” restitutorio, con riguardo all’immobile dedotto in controversia, formulato dalla parte attrice in via consequenziale all’accoglimento delle proprie domande.
10. Ritiene il Collegio che appare preliminare esaminare il quarto motivo del ricorso principale, il quale attiene alla questione della supposta operatività degli effetti del prospettato giudicato esterno implicito sulla controversia in questione attinente all’azione di nullità del contratto di rendita vitalizia concluso tra la M.G. e la P.P. (e, di conseguenza, del successivo contratto di cessione della nuda proprietà dell’immobile intervenuto in favore dei coniugi B. -S. da parte della P. , per difetto di titolarità del relativo diritto in capo a quest’ultima), che – ove dovesse ritenersi fondata – sarebbe decisiva ed assorbente delle altre questioni dedotte dai ricorrenti B.A. e S.A. .
Orbene, per come desumibile dalla precedente narrativa del giudizio, la Corte di appello di Brescia, con la sentenza qui impugnata, ha respinto la censura concernente la dedotta preclusione derivante dal giudicato, costituitosi tra la M. e la P. , in virtù della pregressa sentenza n. 1187 del 1992 del Tribunale di Padova (pacificamente divenuta incontrovertibile), che aveva rigettato la domanda di risoluzione del contratto di rendita vitalizia tra le stesse intercorso il 9 dicembre 1984, poi posto a fondamento della successiva azione di nullità e di annullamento del medesimo contratto introdotta da Sa.Fe. (quale procuratore generale della predetta M.G.) con atto di citazione del 7 febbraio 1992, a cui è riferita la sentenza della Corte bresciana adottata in sede di giudizio di rinvio. Secondo lo stesso giudice di rinvio la suddetta sentenza n. 1187/1992 non si sarebbe potuta considerare idonea a spiegare gli effetti dell’eccepito giudicato poiché, con essa, il Tribunale padovano si era limitato a scrutinare (respingendola) la domanda di risoluzione, senza prendere alcuna posizione, neppure in via meramente incidentale, in ordine al tema della validità originaria del contratto, mai sottoposto al suo vaglio. Pertanto, alla stregua di tale situazione processuale, avrebbe dovuto trovare applicazione, nella fattispecie, il principio in base al quale l’autorità del giudicato sostanziale opera soltanto entro i limiti rigorosi degli elementi costitutivi dell’azione e presuppone che tra la precedente causa e quella in atto sussista identità di “petitum” e di “causa petendi”. Nella sentenza oggetto dell’attuale ricorso viene, in proposito, posto riferimento al precedente giurisprudenziale di questa Corte riconducibile alla sentenza n. 11356 del 2006, secondo il quale la rilevabilità officiosa della nullità del contratto – ammissibile ai sensi dell’art. 1421 c.c. anche nell’ipotesi di domanda di risoluzione dello stesso – non importa la necessaria declaratoria della detta invalidità con efficacia irretrattabile di cosa giudicata, posto che, invero, il giudicato deve intendersi riferito alle ragioni concretamente poste a fondamento della domanda e divenute oggetto di discussione e non esteso sempre e comunque all’intero rapporto dedotto in giudizio.
Senonché, la difesa dei ricorrenti principali ha inteso confutare questa parte della sentenza impugnata sostenendo che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, anche nel caso di pronuncia di rigetto della domanda (come quella di risoluzione del contratto, nel caso di specie), estende i suoi effetti non solo alla decisione relativa al bene della vita chiesto dall’attore, ma anche a tutte quelle statuizioni inerenti all’esistenza ed alla validità del rapporto dedotto in giudizio necessarie ed indispensabili per pervenire a quella pronuncia (c.d. giudicato implicito) in quanto emergente da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito. In altri termini, secondo l’impostazione adottata dalla suddetta difesa, il c.d. principio del “dedotto e deducibile” – in virtù del quale l’efficacia del giudicato si estenderebbe, oltre a quanto dedotto dalle parti (giudicato esplicito), anche a quanto esse avrebbero potuto dedurre (giudicato implicito) – concernerebbe le ragioni non dedotte che si presentino come un antecedente logico-necessario rispetto alla pronuncia, nel senso che dovrebbe ritenersi precluso alle parti stesse la proposizione, in altro giudizio, di qualsivoglia domanda avente ad oggetto situazioni soggettive incompatibili con il diritto accertato.
In sostanza, con la censura cristallizzata nel quarto motivo del ricorso principale, i ricorrenti B. -S. hanno posto essenzialmente a questa Corte la seguente questione (naturalmente da attagliare al caso di specie): – dica la S.C. se e come, tra la questione decisa in modo espresso (domanda di risoluzione rigettata) ed altra (validità del contratto a cui era riferita la domanda di risoluzione) che (presupposta) ne costituisca antecedente logico-giuridico per rapporto di indissolubile dipendenza, il giudicato esterno esplicito si estenda anche alla questione ed agli accertamenti presupposti, senza i quali la prima decisione emessa non avrebbe potuto essere resa (con la formazione sul punto del c.d. giudicato implicito), con la conseguente inammissibilità di una successiva decisione sui secondi in un diverso giudizio che investa direttamente gli stessi accertamenti, rilevabile d’ufficio – ove la questione sia stata dedotta nei gradi di merito e risulti documentalmente acquisita o, comunque, verificabile “ex actis” – anche in sede di legittimità (cfr. Cass., S.U., n. 24664 del 2007).
Com’è risaputo, sulla questione prospettata (o, in ogni caso, su aspetti che la presuppongono), è intervenuta recentemente la sentenza delle Sezioni unite n. 14828 del 4 settembre 2012, che risulta massimata ufficialmente nei seguenti termini: “alla luce del ruolo che l’ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell’assetto negoziale e atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime speciale (escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta); il giudice di merito, peraltro, accerta la nullità incidenter tantum senza effetto di giudicato, a meno che sia stata proposta la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini, disponendo in ogni caso le pertinenti restituzioni, se richieste”.
In tal modo, le Sezioni Unite hanno composto il contrasto emerso nella giurisprudenza della di questa Corte intorno alla questione della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto da parte del giudice investito della domanda di risoluzione del contratto medesimo. Come è noto, un orientamento (da ritenere verosimilmente prevalente) sosteneva che il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità del contratto ex art. 1421 c.c. dovesse essere coordinato col principio della domanda, sancito dagli artt. 99 e 112 c.p.c., sicché il giudice della risoluzione, dichiarando la nullità del contratto, sarebbe incorso in ultrapetizione (tra le tante, Sez. L, 14 ottobre 2005, n. 19903, Rv. 584615; Sez. 2, 6 ottobre 2006, n. 21632, Rv. 592224; Sez. 2, 17 maggio 2007, n. 11550, Rv. 597799). Opposto indirizzo riteneva che il giudice potesse rilevare d’ufficio la nullità del contratto, a norma dell’art. 1421 c.c., anche se fosse stata proposta domanda di risoluzione, senza incorrere nel vizio di ultrapetizione, atteso che la domanda di risoluzione implicitamente postula l’assenza di ragioni che determinino la nullità del contratto (ex plurimis, Sez. 3, 22 marzo 2005, n. 6170, Rv. 581474; Sez. 3, 15 settembre 2008, n. 23674, Rv. 604877; Sez. 3, 7 febbraio 2011, n. 2956, Rv. 616615). Le Sezioni Unite hanno privilegiato quest’ultima impostazione, valutata come conforme al ruolo istituzionale della nullità, quale sanzione per il disvalore dell’assetto negoziale, asserendo che l’azione di risoluzione è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, ponendosi la nullità come evento impeditivo logicamente anteriore alla fattispecie estintiva della risoluzione. La soluzione, peraltro vale – per quanto emerge dal complessivo impianto motivazionale della sentenza delle Sezioni unite in discorso – entro determinati limiti, nel senso che il giudice della risoluzione può rilevare d’ufficio la nullità: – solo se questa emerge dai fatti allegati e provati o, comunque, ex actis, solo previa attivazione del contraddittorio sulla questione, incorrendo altrimenti nel vizio della c.d. terza via; – solo se non operi un regime speciale, essendo le nullità di protezione espressamente rimesse al rilievo del contraente protetto; – senza effetto di giudicato, a meno che sia stata proposta la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini. Più in particolare, nella parte finale della decisione, le Sezioni unite manifestano la consapevolezza delle ricadute sul giudicato conseguenti alla ricostruzione sistematica operata e stabiliscono i seguenti principi: – qualora, dopo il rilievo officioso, sia stata formulata, tempestivamente o previa rimessione in termini, domanda volta all’accertamento della nullità e ad eventuali effetti restitutori, la statuizione sul punto, se non impugnata, avrà effetto di giudicato; – nel caso in cui sia omesso il rilievo officioso della nullità, e l’omissione venga fatta valere in sede di appello, il giudice del gravame dovrà rimettere in termini l’appellante; – ove non sia formulata tale domanda, il rilievo della nullità fa pervenire al rigetto della domanda di risoluzione con accertamento “incidenter tantum” della nullità, dunque senza effetto di giudicato sul punto. Dopo l’esposizione di queste distinzioni, le Sezioni unite concludono il percorso argomentativo affermando che “il giudicato implicito sulla validità del contratto, secondo il paradigma ormai invalso (cfr. Cass. S.U. 24883/08; 407/11; 1764/11), potrà formarsi tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della validità del contratto”.
Nella premessa logica di questa conclusione le Sezioni unite hanno recisamente sostenuto che l’azione di risoluzione per inadempimento è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, ragion per cui deve ritenersi che la nullità del contratto è un evento impeditivo che si pone prioritariamente rispetto alla vicenda estintiva della risoluzione, onde il giudice chiamato a pronunciarsi sulla risoluzione di un contratto, di cui emerga la nullità dai fatti allegati e provati “ex actis”, non può sottrarsi all’obbligo del rilievo e ciò non conduce ad una sostituzione dell’azione proposta con un’altra (con ordinanza interlocutoria n. 21083 del 27 novembre 2012, questa Sezione ha, peraltro, rimesso al Primo Presidente – in funzione dell’eventuale assegnazione delle Sezioni unite – la questione di massima di particolare importanza relativa al punto se la nullità del contratto possa essere rilevata d’ufficio non solo allorché sia stata proposta domanda di adempimento o di risoluzione del contratto, ma anche nel caso in cui sia domandato l’annullamento del contratto stesso).
In sostanza, dunque, secondo tale approdo, la regola dell’art. 1421 c.c. non dovrebbe ritenersi inapplicabile alla luce del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, tutte le volte in cui la domanda di parte presupponga l’efficacia del contratto in realtà nullo e tanto anche nell’ipotesi in cui l’azione introduttiva abbia ad oggetto la domanda di risoluzione (cfr., sul punto, tra le pronunce più recenti prima dell’arresto delle Sezioni unite del 2012, Cass., sez. I, 28 ottobre 2011, n. 22520; Cass., sez. III, 7 febbraio 2011, n. 2956, e Cass., sez. L, 16 agosto 2012, n. 14535, secondo la quale “il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio, ma anche tutte le possibili questioni, proponibili sia in via di azione, sia in via di eccezione, le quali, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia”).
Sembrerebbe, dunque, che la sostanziale portata del principio affermato dalle Sezioni unite, con la sentenza n. 14828 del 2012, risulti fondamentalmente compatibile e consonante con la prospettazione della censura in esame di cui al quarto motivo del ricorso principale.
Tuttavia, ritiene questo collegio che l’impostazione argomentativa di fondo e il risultato sfociato nel riportato principio di diritto enunciato con la richiamata sentenza delle Sezioni unite non siano pienamente condivisibili, richiedendosi un approccio più problematico e più ampio sulla questione relativa alla individuazione delle condizioni per la formazione e l’estensione dell’efficacia del c.d. giudicato implicito esterno riguardante la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione rispetto alla successiva azione di nullità concernente lo stesso contratto.
Ritiene, perciò, il collegio di investire il Primo Presidente della riferita questione di massima di particolare importanza ai fini dell’eventuale assegnazione della trattazione e della decisione del ricorso alle Sezioni unite, anche – ove se ne ravvisino i presupposti – ai sensi dell’art. 374, comma 3, c.p.c., per le ragioni che seguono.
In via pregiudiziale, sembra necessario soffermarsi (impregiudicata l’eventuale pronuncia definitiva delle medesime Sezioni unite – di cui pure si invoca l’intervento sulla inerente questione), sulla portata del “vincolo” derivante per le sezioni semplici ai sensi del citato art. 374, comma 3, c.p.c., come introdotto – innovativamente – dall’art. 8 del d. lgs. n. 40 del 2006. Si è affermato che, con tale disposizione, il legislatore ha inteso, sul piano organizzatorio, coordinare, in termini di complementarietà, il ruolo specifico delle sezioni semplici rispetto a quello delle Sezioni unite in funzione di una maggiore forza e stabilità della nomofilassi. Peraltro, ad avviso degli orientamenti scientifici maggioritari, deve discorrersi al riguardo di un vincolo strettamente processuale, nel senso che l’obbligo non è di conformarsi nel contenuto, ma solo di non emettere una decisione di contenuto difforme, dovendo il dissenso essere necessariamente sostanziato in una ordinanza con la quale vengano investite della decisione le Sezioni unite. Peraltro, occorre evidenziare che il novellato comma 3 dell’art. 374 c.p.c. (nel quale non è, oltretutto, presente testualmente il termine proprio di “vincolo”), stabilisce che il potere-dovere della sezione semplice di rimessione della decisione alle Sezioni unite va attivato allorquando “non condivida il principio di diritto” precedentemente affermato da queste ultime in altra pregressa sentenza od ordinanza, con le quali siano stati risolti contrasti giurisprudenziali tra le sezioni semplici ovvero questioni di massima di particolare importanza (in relazione alla previsione di cui al comma 2 dello stesso art. 374 c.p.c.). Sembrerebbe, quindi, che l’obbligo di conformazione investa apparentemente il solo principio di diritto enunciato; tuttavia – ad avviso di questo collegio (salva eventuale diversa determinazione delle stesse Sezioni unite) – questa interpretazione restrittiva della norma, fondata sull’elemento meramente letterale, collide con la concezione tradizionale del principio di diritto (secondo il disegno originariamente descritto dal codice di rito nella disciplina dell’art. 384) inquadrato come atto di “nomopoiesi”, ovvero come atto idoneo a dettare la “lex specialis” per il caso singolo nell’ambito di un contesto di formazione progressiva della decisione, senza atteggiarsi unicamente come enunciazione della “regula iuris” della decisione medesima. Del resto, viene comunemente affermato che la “regula iuris” – come desumibile anche dallo studio comparato dei sistemi fondati sullo “stare decisis” – può esaurientemente ricavarsi solo dalla motivazione nella sua integralità e nel confronto con la fattispecie concretamente esaminata, e non da una specie di “automassimazione” della pronuncia, con enucleazione della “ratio decidendi”, da parte del collegio decidente.
Ciò posto (e sollecitando l’intervento delle Sezioni unite anche su tale pregiudiziale aspetto), si può passare alla disamina – in generale – della problematica relativa alla individuazione dei presupposti per la configurazione e l’operatività del c.d. giudicato implicito esterno (rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio, senza che sia in ciò riscontrabile alcuna violazione dei principi del giusto processo: cfr., da ultimo, Cass., sez. VI, ord. n. 12159 del 2011) che riveste un ruolo centrale ai fini della decisione sulla questione prospettata con il quarto motivo del ricorso principale e sulla quale non appaiono del tutto condivisibili le posizioni assunte dalle Sezioni unite con la citata sentenza n. 14828 del 2012 (soprattutto con particolare riferimento al loro adattamento alla fattispecie concreta riguardante la controversia dedotta in questo giudizio).
È risaputo che la teoria del giudicato implicito si basa sulla ritenuta sussistenza di un ordine logico-giuridico precostituito di formulazione del giudizio, nel senso che all’interno del quadro logico della decisione complessiva adottata in esito alle attività cognitive, si innestano i passaggi di rito e/o di merito (i primi normalmente pregiudiziali rispetto ai secondi), impliciti od espliciti, che conducono alla decisione finale.
Incentrando l’attenzione sul giudicato attinente alla questioni di merito, è risaputo che, nell’ambito del processo civile, l’ordine con il quale il giudice ritiene di esaminare e decidere le singole questioni attinenti al merito della causa in rapporto al “petitum” viene tendenzialmente stabilito caso per caso, garantendosi la ricerca di un equilibrio fra la discrezionalità attribuita al giudice nella selezione delle questioni da trattare in dipendenza della necessità di procedere o meno ad un’istruzione probatoria di tipo costituendo (e, quindi, in funzione del principio di economia processuale che giustifica il recepimento nel nostro ordinamento processuale del c.d. “canone della ragione più liquida”) ed il principio dispositivo che connota (soprattutto nei giudizi che investono diritti disponibili) il processo civile. Ciò implica che l’unico limite che la valutazione del giudice incontra è costituito dalle domande delle parti, che possono essere inserite nel giudizio anche ai sensi dell’art. 34 c.p.c. per la cognizione degli eventuali accertamenti incidentali su cui sia necessario decidere con efficacia di giudicato.
L’istituto del giudicato di merito implicito è, in generale, basato sulla teoria della pregiudizialità logica (alla quale si sono ispirate anche le Sezioni unite nella sentenza n. 14828 del 2012), da cui si fa scaturire la conseguenza che la sentenza con la quale viene deciso il merito reca in sé necessariamente anche l’accertamento implicito di tutte le questioni preliminari di merito che rappresentano le premesse logiche indispensabili della pronuncia conclusiva di merito. Aderendosi a tale regola ne dovrebbe conseguire che la sentenza finale di merito sarebbe idonea ad accertare automaticamente il fatto costitutivo del diritto, oggetto preliminare di verifica giudiziale, anche se non vi sia stata alcuna contestazione tra le parti del punto pregiudiziale e, dunque, non sia insorta alcuna questione pregiudiziale nel processo, tecnica o logica che sia; da tale impostazione dovrebbe derivare che, nei processi di impugnativa negoziale, oggetto del processo dovrebbe essere, in ogni caso e prima di tutto, la validità (o l’invalidità) del contratto impugnato, a prescindere da qualsiasi contestazione sul punto tra le parti. In tal senso viene a risultare piuttosto sminuita, in virtù del ritenuto effetto preclusivo del giudicato implicito, la portata della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1421 c.c. (salvo fondare sulla questione uno specifico motivo di appello).
Aderendo a tale impianto argomentativo di fondo ne dovrebbe scaturire che il convenuto in un causa di risoluzione, ove soccombente, non potrebbe più ottenere una declaratoria di nullità del contratto risolto per inadempimento, malgrado la imprescrittibilità della relativa azione, poiché si dovrebbe ritenere che il giudicato sulla risoluzione si sia implicitamente esteso anche alla validità ed efficacia del contratto stesso, ancorché non abbia costituito oggetto della dialettica processuale tra le parti.
Si pensi, in chiave problematica, anche all’ipotesi inversa in cui si pervenga all’emissione di una sentenza di rigetto della domanda di risoluzione per motivi diversi dal rilievo della nullità, come può accadere, ad esempio, sulla base dell’adesione al principio della ragione più liquida ai fini della definizione della causa, per effetto della cui scelta la sentenza non abbia avuto la necessità di occuparsi dell’esistenza, della validità e dell’efficacia del rapporto contrattuale dedotto in giudizio. In questa ipotesi – secondo gli orientamenti scientifici assolutamente predominanti – l’attore, consideratane l’imprescrittibilità, dovrebbe conservare il diritto di poter proporre l’azione di accertamento della nullità, risultando impregiudicata la questione dal diverso oggetto del giudicato di rigetto, ovvero dal suo motivo portante.
Proprio con riferimento alla fattispecie concreta oggetto della controversia in esame emerge che, con la sentenza n. 1187 del 1992, il Tribunale di Padova aveva rigettato la domanda di risoluzione per inadempimento del contratto di rendita vitalizia (in ordine a quale, peraltro, l’eventuale invalidità per difetto dell’alea non poteva essere ravvisata “ex se”, occorrendo, evidentemente, un’apposita istruttoria, che presupponeva la formulazione di una preventiva eccezione o il rilievo d’ufficio, come è stato necessario esperire anche nel giudizio di rinvio) proposta dalla M. esclusivamente perché era risultato che non erano state mai offerte le garanzie di cui si lamentava la diminuzione, così come, con riguardo alle sentenze nn. 1501/’89 e 304/’04 dello stesso Tribunale, con cui erano state respinte le domande del B. intese ad ottenere il rimborso delle somme impiegate per i lavori di straordinaria manutenzione eseguiti sull’immobile, il giudice adito non aveva operato alcun accertamento sulla questione della validità (o della non validità) del contratto, mai divenuta oggetto di contraddittorio tra le parti o di rilievo officioso. Pertanto, in conformità con la sentenza in questa sede impugnata, sembra sostenibile che, in presenza di una pronunzia di rigetto della domanda di risoluzione (la quale – come è noto – tende al conseguimento di una pronuncia di natura costitutiva), il “dictum” giudiziale dovrebbe qualificarsi di per sé inidoneo alla formazione del giudicato sul rapporto contrattuale quanto al profilo della validità (o non validità) del medesimo, dovendo circoscriversi – a questi fini – la configurabilità e l’operatività degli effetti del giudicato implicito alla sola ipotesi in cui la decisione contenga statuizioni che implicano l’affermazione della validità del contratto (come, del resto, risalta da un apposito passaggio finale – già precedentemente richiamato – dell’impianto argomentativo della sentenza delle Sezioni unite n. 14828 del 2012, a pag. 13, paragr. 4.2., laddove, oltretutto, si pone riferimento a precedenti giurisprudenziali di questa Corte che riguardano la formazione del giudicato sulla questione pregiudiziale di giurisdizione).
Del resto, non mancano pronunce nella giurisprudenza di legittimità con le quali è stato statuito che “il giudicato implicito su questione preliminare di merito non può ritenersi formato quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione ed abbia indotto il giudice a decidere per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni” (cfr., di recente, Cass., sez. II, 30 marzo 2012, n. 5148, con cui è stato negato che, in forza di sentenza di rigetto di una domanda di rimozione di manufatti e di risoluzione per inadempimento di un contratto verbale concernente diritti reali immobiliari, dovesse intendersi formato un giudicato preclusivo dell’esame della questione relativa all’esistenza ed alla validità del medesimo contratto). Il giusto equilibrio era, peraltro, già stato raggiunto dalle enunciazioni della sentenza n. 11356 del 2006 (a cui si è ispirata la Corte bresciana in sede di rinvio), con la quale era stato statuito che “la pronunzia di rigetto (nella specie, della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento) non più soggetta ad impugnazione non costituisce giudicato implicito – con efficacia vincolante nei futuri giudizi – laddove del rapporto che ne costituisce il presupposto logico-giuridico non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice le questioni concernenti l’esistenza, la validità e la qualificazione. Ne consegue che la sentenza di rigetto della domanda di risoluzione del contratto adottata sulla base del principio della c.d. ragione più liquida (in base al quale la domanda può essere respinta sulla base della soluzione di una questione assorbente senza che sia necessario esaminare previamente tutte le altre) ovvero emessa in termini meramente apodittici, senza un accertamento effettivo, specifico e concreto del rapporto da parte del giudice, al punto da risultare un evidente difetto di connessione logica tra dispositivo e motivazione, non preclude la successiva proposizione di una domanda di nullità del contratto (che a norma dell’art. 1421 c.c. il giudice deve rilevare anche d’ufficio non solo se sia stata proposta l’azione di adempimento ma anche se sia stata chiesta la risoluzione o l’annullamento o la rescissione del contratto), in quanto in tal caso si fanno valere effetti giuridici diversi e incompatibili rispetto a quelli oggetto del primo accertamento, sicché, trattandosi di diritti eterodeterminati (per l’individuazione dei quali è cioè necessario fare riferimento ai fatti costitutivi della pretesa che identificano diverse causae petendi), non può ritenersi che, all’intero rapporto giuridico, ivi comprese le questioni di cui il primo giudice non abbia avuto bisogno di occuparsi per pervenire alla pronunzia di rigetto, il giudicato si estenda in virtù del principio secondo cui esso copre il dedotto ed il deducibile” (v., anche, in tal senso, Cass. n. 21632 del 2006; Cass. n. 21266 del 2007 e Cass. n. 9395 del 2011). In questo quadro complessivo, le Sezioni unite, con la sentenza n. 14828 del 2012, da un lato, escludono che, senza un’espressa domanda di parte, la rilevazione officiosa della nullità importi efficacia di giudicato sulla “non validità” del titolo, mentre, dall’altro lato, ammettono la formazione di un giudicato implicito sulla validità del titolo allorché, omessa l’indicazione prevista dall’attuale art. 183, comma 4, c.p.c., il giudice pervenga al rigetto della domanda di risoluzione per aver escluso che il fatto allegato dall’attore costituisca inadempimento o per altra ragione riconducibile al mancato assolvimento delle obbligazioni pattuite. In altri termini, secondo tale impostazione, in quest’ultima eventualità si verrebbe a formare un giudicato implicito sulla “non nullità” del contratto (ovvero sulla sua validità “ad ogni effetto”, alla stregua dell’art. 2909 c.c.) con la conseguente preclusione dell’esercizio di successive azioni dirette alla declaratoria della nullità del titolo tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito.
Questa costruzione non sembra pienamente condivisibile e del tutto coerente perché consente di ritenere, ad un tempo, che nel caso di rilevazione e trattazione della questione preliminare di nullità del contratto su di essa non si formi mai un giudicato “a tutti gli effetti” se non quando sia stata, in proposito, formulata espressa domanda di parte (di accertamento incidentale ai sensi dell’ari 34 c.p.c.) e, allo stesso tempo, di considerare che, nell’ipotesi di rigetto della domanda di risoluzione causata dall’accertamento dell’insussistenza dell’inadempimento e o della sua gravità, ciò sia idoneo a precludere irrimediabilmente successive azioni volte a far dichiarare la nullità di quel medesimo contratto. Come è stato osservato da acuti orientamenti dottrinali, sulla base di tale approccio, si dovrebbe pervenire a sostenere che la questione della “non nullità” (e, quindi, della sua validità) costituisca sempre e comunque (ossia in ogni caso in cui venga proposta una domanda fondata sul contratto stesso) una questione pregiudiziale in senso meramente logico, come tale sottratta al meccanismo previsto dall’art. 34 c.p.c., ovvero che questa medesima questione pregiudiziale si inserisca nell’ambito di quelle da decidersi con efficacia di giudicato ex art. 34 c.p.c. “per volontà di legge” (ma tale prospettiva è ripudiata dalla stessa sentenza delle Sezioni unite n. 14828 del 2012 nel momento in cui si sostiene la necessità di un’espressa domanda di parte).
In sostanza, deve ritenersi che l’affermazione – trasparente dalla sentenza n. 14828 del 2012 delle Sezioni unite – secondo la quale, nel caso in cui sia rilevata d’ufficio la questione di nullità del contratto, la decisione su di essa non da luogo a giudicato se non su esplicita richiesta delle parti, non pare conciliabile con l’asserzione in virtù della quale, ove la questione di nullità non sia sollevata, la decisione sulla risoluzione è idonea a determinare la formazione di un giudicato implicito sulla “non nullità” del contratto stesso. Infatti, la prima affermazione implica che si tratti di questione pregiudiziale non in senso logico, ma in senso tecnico (alla quale si rivolge l’art. 34 c.p.c.), suscettibile di accertamento solo “incidenter tantum” in mancanza di domanda di parte, cosicché sarebbe inidonea a comportare la formazione di un giudicato implicito, il quale presuppone una pregiudizialità in senso logico. Al riguardo costituisce principio pacifico (cfr. Cass., S.U., n. 2619 del 1975; Cass. n. 3248 del 2001; Cass. n. 14578 del 2005, ord.) che, in tema di questioni pregiudiziali, occorre distinguere quelle che sono tali soltanto in senso logico, in quanto investono circostanze che rientrano nel fatto costitutivo del diritto dedotto in causa e devono essere necessariamente decise “incidenter tantum”, e questioni pregiudiziali in senso tecnico, che concernono circostanze distinte ed indipendenti dal detto fatto costitutivo, del quale, tuttavia, rappresentano un presupposto giuridico, e che possono dar luogo ad un giudizio autonomo, con la conseguenza che la formazione della cosa giudicata sulla pregiudiziale in senso tecnico può aversi, unitamente a quella sul diritto dedotto in lite, solo in presenza di espressa domanda di parte di soluzione della questione stessa.
11. In definitiva, ritiene il collegio che, alla stregua dell’esposta disamina (ed, in particolare, delle argomentazioni da ultimo svolte), di non poter pienamente condividere il principio di diritto (e le relative motivazioni a sostegno) della sentenza delle Sezioni unite n. 14828 del 4 settembre 2012, nella parte in cui, per un verso, si afferma che, poiché la risoluzione contrattuale è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere, previa provocazione del contraddicono sulla questione, di rilevare ogni forma di nullità del contratto stesso (salvo che non sia soggetta a regime speciale) e, per altro verso, si asserisce che il medesimo giudice di merito accerta la nullità “incidenter tantum” senza effetto di giudicato, a meno che non sia proposta la relativa domanda, pervenendosi, tuttavia, alla conclusione che il giudicato implicito sulla validità del contratto si forma tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito (e ciò deve ritenersi si verrebbe a verificare – anche nell’ipotesi come quella specificamente ricorrente nella controversia oggetto del ricorso in esame – di suo rigetto per effetto della ritenuta “ragione più liquida”, ovvero in virtù dell’esclusivo esame di una questione assorbente idonea, da sola, a sorreggere la decisione del giudice adito, che non abbia richiesto alcuna valutazione – nemmeno meramente incidentale – sulle questioni concernenti l’esistenza e la validità del contratto stesso).
La questione in discorso deve, perciò, essere rimessa al Sig. Primo Presidente di questa Corte affinché – ritenuti sussistenti i presupposti indicati dall’art. 374, comma 3, c.p.c. – voglia sottoporla alla decisione delle Sezioni unite o, qualora ritenga che non ricorrano i suddetti presupposti, voglia valutare l’emergenza delle condizioni per la rimessione della medesima questione di diritto – da qualificarsi come di massima di particolare importanza (ai sensi del citato art. 374, comma 2, c.p.c.) – alle stesse Sezioni unite.

P.Q.M.

Il collegio rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374, comma terzo (o, in subordine, comma secondo), c.p.c..

Redazione