Ricorso straordinario per errore di fatto: ammesso anche per chi è condannato solo al risarcimento dei danni (Cass. pen. n. 28718/2012)

Redazione 17/07/12
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 19 gennaio 2011, la Sesta Sezione penale della Corte di cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Firenze il 26 settembre 2008 nei confronti di S.T.A., G.G.S. e C.G. – che aveva confermato la sentenza di condanna pronunciata nei confronti dei predetti dal Tribunale di Pisa il 13 luglio 2007 per truffa e tentata truffa ai danni di uffici postali e calunnia – per essere i reati ascritti ai ricorrenti estinti per intervenuta prescrizione, ferme restando le statuizioni civili.

Avverso la decisione indicata in premessa ha proposto ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., il difensore dei predetti, in quanto la Corte di cassazione avrebbe dichiarato l’estinzione dei reati per prescrizione senza prendere in considerazione le questioni di cui ai punti 1, 2 e 3 dei ricorsi, nei quali si era dedotta la mancanza di querela, nonchè la insussistenza della aggravante di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 7, c.p., in considerazione della qualità della parte offesa – nella specie le Poste Italiane – e la non configurabilità della stessa aggravante in riferimento alla ipotesi di tentata truffa.

2. La Seconda Sezione, cui il ricorso era stato assegnato, ha rilevato un contrasto di giurisprudenza in punto di ammissibilità, tenuto conto del fatto che la legittimazione a proporre il ricorso straordinario è attribuita al solo “condannato”, mentre nel frangente la condanna è stata mantenuta solo per il capo civile.

Secondo un primo orientamento, infatti, si è ritenuto che legittimato alla proposizione del ricorso straordinario di cui all’art. 625 bis, è anche l’imputato (o il responsabile civile ex art. 83 c.p.p.) che risulti condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, per errore di fatto prodottosi nella decisione della Corte di cassazione (Sez. VI, n. 26485 del 27/04/2010, *********, Rv. 247816; Sez. I, n. 12720 del 12/02/2003, ******, Rv. 224026). Altro indirizzo, ritiene, invece, che è inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto proposto contro la sentenza di inammissibilità del ricorso dell’imputato, pronunciata dalla Corte di cassazione, che abbia reso1 definitiva una decisione di estinzione del reato per prescrizione contenente anche statuizioni civili, confermate in favore della parte civile, di guisa che l’imputato risulti condannato solo agli effetti civili (Sez. I, n. 46277 del 03/12/2008, ****, Rv. 242079; Sez. I, n. 11653 del 15/02/2008, *****, Rv. 239518; Sez. V, n. 3201 del 19/12/2002, dep. 2003, *****, Rv. 224282; nonchè Sez. II, n. 28629 del 05/07/2007, ***********, Rv. 237171).

Pur mostrando di aderire a quest’ultima tesi, in quanto “fondata su una lettura sistematica della norma, in particolare della definizione di condannato, che nel codice di procedura penale è sinonimo di chi ha riportato condanna penale definitiva”, la Seconda Sezione ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite per la risoluzione del contrasto di giurisprudenza.

3. Il Primo Presidente, con decreto del 22 novembre 2011, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, per la risoluzione del quesito se sia ammissibile la proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto nei confronti della decisione di legittimità che confermi le statuizioni civili di condanna dell’imputato.

Motivi della decisione

1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: “se sia ammissibile la proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto nei confronti della decisione di legittimità che confermi le statuizioni civili di condanna dell’imputato”.

2. Al riguardo, infatti, si registrano due opposti orientamenti di giurisprudenza.

2.1. L’orientamento negativo fa leva sull’assunto, più volte espresso anche da queste Sezioni Unite, secondo il quale, poichè il ricorso straordinario è ammesso solo a favore del condannato e considerato che il rimedio previsto dall’art. 625 bis c.p.p., ha natura di norma eccezionale, possono costituire oggetto della impugnazione straordinaria soltanto quei provvedimenti della Corte di cassazione che rendano definitiva la sentenza di condanna, e non anche altre decisioni, fra le quali quelle che intervengano in procedimenti incidentali, o provvedimenti di altra natura, seppure collegati in modo indiretto con la pronuncia definitiva di condanna (Sez. U, n. 16103 del 30/04/2002, ******; Sez. U, n. 16104 del 30/04/2002, **********, nonchè, per i riflessi applicativi, Sez. IV, n. 42725 del 03/10/2007, Mediati, Rv. 238302 e Sez. V, n. 30373 del 16/06/2006, *****, in tema di revisione). Oggetto del ricorso straordinario possono essere, dunque, esclusivamente pronunce di condanna, dovendosi intendere con tale termine, l’applicazione di una sanzione penale: più in particolare, si è affermato che con l’indicazione del termine “condannato”, quale specificazione soggettiva che identifica la parte legittimata alla proposizione del ricorso straordinario, l’art. 625 bis c.p.p., avrebbe inteso individuare la figura del soggetto imputato, il quale in tale sua qualità abbia subito una condanna ad una delle pene contemplate dalle leggi penali (Sez. III, n. 6835 del 28/01/2004, *********, Rv. 228495; Sez. V, n. 45937 del 08/11/2005, Ierinò, Rv. 233218; Sez. I, n. 11653 del 15/02/2008, *****, ove si è esclusa la legittimazione della parte civile a proporre ricorso straordinario, ancorchè la stessa sia stata condannata al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro alla cassa delle ammende, e dichiarata manifestamente infondata la relativa eccezione di legittimità costituzionale; Sez. IV, n. 38269 del 21/07/2009, Somma, Rv. 245292).

Sul tema specifico che viene qui in discorso, si è implicitamente soffermata Sez. I, n. 23150 del 20/05/2008, ******, ove, nel rilevare la inapplicabilità dell’art. 625 bis c.p.p., in caso di proscioglimento, sia pure per prescrizione, si è tracciato un parallelismo rispetto all’istituto della revisione, rammentando come l’esperibilità di tale rimedio, ugualmente straordinario, sia preclusa nella ipotesi di sentenza dichiarativa di estinzione del reato per amnistia, e ciò anche quando vi sia stata conferma delle statuizioni civili. In termini ancor più espliciti, si è poi affermato che deve ritenersi inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto proposto contro sentenza di inammissibilità del ricorso dell’imputato, pronunciata dalla Corte di cassazione, che abbia reso definitiva una decisione di estinzione del reato per prescrizione contenente anche statuizioni civili, confermate in favore della parte civile, di guisa che l’imputato risulti condannato solo agli effetti civili (Sez. I, n. 46277 del 03/12/2008, ****). Si è infatti osservato che, attesa la natura straordinaria della impugnazione, la definizione normativa del perimetro di esperibilità del ricorso ha carattere tassativo, non suscettibile di interpretazione analogica, sicchè deve ritenersi inammissibile per difetto di legittimazione dell’istante il ricorso straordinario proposto contro una decisione della Corte di cassazione che abbia dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione. E ciò pure nella ipotesi in cui siano state confermate la statuizioni civili in favore della parte civile, con conseguente condanna dell’imputato, sia pure soltanto agli effetti civili. Infatti – si è osservato – pure in tale eventualità non è dato ravvisare una pronuncia della cassazione idonea a determinare il passaggio in giudicato di una decisione che renda incontrovertibile l’accertamento dei presupposti della potestà punitiva statale, in termini di “applicazione di una sanzione penale” e quindi di una condanna “agli effetti penali”, come suggerirebbe la interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 625 bis c.p.p.; evocandosi, ancora una volta, quale idoneo tertium comparationis, la corrispondente disciplina prevista per la revisione, secondo gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità, sullo specifico punto che qui interessa.

2.2. Sull’opposto versante, si è invece ritenuto che alla proposizione dell’errore di fatto contenuto in un provvedimento della Corte di cassazione sia legittimato anche il soggetto che, per effetto di esso, risulti condannato anche solo agli effetti civili, sul rilievo che la qualità di condannato sarebbe fatta discendere da una qualsiasi sentenza di condanna, senza ulteriori distinzioni. Ciò si desumerebbe da un passaggio della sentenza delle Sezioni Unite De Lorenzo, già citata, nel quale si afferma che, attesa la natura di strumento eccezionale insuscettibile di applicazione analogica, costituendo deroga al principio di irrevocabilità delle decisioni della Corte di cassazione, il ricorso straordinario non è esperibile se non contro sentenze di condanna, senza tuttavia distinguere se di condanna tout court o anche di condanna ai soli effetti civili; cosicchè, sarebbe legittimo ritenere che tale strumento sia esperibile, in via generale, contro tutte le sentenze di condanna (Sez. I, n. 12720 del 12/03/2003, ******).

Nella medesima prospettiva si è più di recente ribadita la legittimazione a proporre ricorso straordinario a norma dell’art. 625 bis c.p.p., anche in capo all’imputato (o al responsabile civile ex art. 83 c.p.p.) che risulti condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, per errore di fatto prodottosi nella decisione della Corte di cassazione. Si è infatti osservato che se, per un verso, il termine “condannato” può essere giuridicamente, oltre che semanticamente, riferito tanto alle statuizioni sulla azione penale che a quelle sulla azione civile, non può trascurarsi il dato per il quale nessuna delle disposizioni contenute nei successivi commi dell’art. 625 bis, qualifichi in senso restrittivo i connotati della legittimazione attiva al ricorso. Se, poi, si vogliono superare gli aspetti terminologia, in quanto reputati in ipotesi non dirimenti, e venire ai profili attinenti alla ratio ed alla collocazione sistematica della norma, si sottolinea come il giudice penale sia chiamato ad emettere pronunce di condanna, non solo per la responsabilità penale ma anche per quella civile, ove la relativa azione sia stata esercitata in sede penale mediante la costituzione di parte civile, ai sensi dell’art. 74 c.p.p. e segg., in relazione a quanto previsto dall’art. 185 c.p.. Ebbene, si osserva, mentre per l’azione civile esercitata in sede propria all’accertamento dell’errore di fatto soccorre l’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, ove l’art. 625 bis c.p.p., fosse inteso come riferibile soltanto all’errore di fatto incidente su una statuizione di condanna sul capo penale, verrebbe ad essere irragionevolmente preclusa al soccombente rispetto alla azione risarcitoria esercitata dal danneggiato in sede penale nei confronti dell’imputato, qualsiasi possibilità di far valere l’errore di fatto, in ipotesi decisivo, che si annidi in una pronuncia della Corte di cassazione (Sez. VI, n. 26485 del 27/04/2010, *********).

3. Quest’ultimo orientamento deve essere preferito, in quanto meglio rispondente ai principi affermati al riguardo dalla giurisprudenza costituzionale.

Occorre anzitutto osservare, preliminarmente, come dal complesso iter secondo il quale sono venuti a snodarsi i lavori parlamentari che hanno condotto alla formulazione della L. 26 marzo 2001, n. 128, art. 6, comma 6, introduttiva, appunto, dell’art. 625 bis c.p.p., emerga una sicura scelta del legislatore tesa a circoscrivere la platea dei soggetti legittimati ad avvalersi del ricorso straordinario, secondo una linea di inespressa – ma percepibile – tendenza assimilativa all’istituto della revisione. Secondo il testo unificato, assunto come testo base dalla Commissione Giustizia della Camera dei deputati (v. resoconto della seduta dell’8 febbraio 2000, della 2^ Commissione permanente – Giustizia – della Camera) e sul quale, poi, la Commissione stessa ebbe ad esprimere parere favorevole, era infatti previsto, quale primo comma del “nuovo” art. 625 bis c.p.p., che “se la sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione contiene un errore materiale o un errore di fatto, la parte interessata può chiederne la correzione”.

Si trattava, dunque, di una previsione quanto mai ampia, che non solo estendeva la legittimazione del ricorso a qualsiasi soggetto interessato, a prescindere, quindi, dalla specifica qualità rivestita nel processo, ma che, facendo generico riferimento ad ogni sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione, iscriveva nel perimetro applicativo del ricorso qualunque tipo di pronuncia, anche se relativa a procedimenti incidentali, di prevenzione o di qualsiasi altra natura. Una scelta restrittiva, dunque, quella operata in sede di approvazione definitiva della norma, di significativa dimensione, tanto sul versante dei soggetti legittimati al ricorso che sul piano dell’oggetto dei provvedimenti ricorribili, come d’altra parte è testimoniato dalle successive iniziative parlamentari, nelle quali si è al contrario auspicato un ampliamento delle possibilità di ricorso straordinario, anche ad opera delle altre parti processuali e dello stesso imputato assolto (v., ad es., la proposta di legge n. 5932 presentata il 21 giugno 2005 alla Camera dei deputati).

Ma immutata, pur se confinata all’interno dei rigorosi ambiti applicativi di cui si è detto, è la ratio di fondo che ha ispirato la novella e che, ovviamente, ne deve orientare la lettura, anche e soprattutto in aderenza ai valori costituzionali cui la stessa ha dichiaratamente inteso ispirarsi. L’immediato antecedente che, come è noto, influenzò la scelta del legislatore di introdurre l’art. 625 bis c.p.p., fu infatti rappresentato dalla sentenza n. 395 del 2000 della Corte costituzionale, nella quale il Giudice delle leggi, pur dichiarando inammissibile una questione di legittimità costituzionale degli artt. 629 e 630 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui tali norme “non prevedono e non disciplinano la revisione delle decisioni della Corte di cassazione per errore di fatto (materiate e meramente percettivo) nella lettura degli atti interni al giudizio”, tracciò alcuni punti di ineludibile risalto anche agli effetti dell’odierno scrutinio, in tale pronuncia, infatti, la Corte, dopo aver rievocato le varie decisioni intervenute in materia di errore di fatto commesso dalla Corte di cassazione nel campo del processo civile (in particolare, le sentenze nn. 17 del 1986, 36 del 1991 e 129 del 1995), ha sottolineato come l’impossibilità di far valere un simile errore, si porrebbe in palese contrasto, non soltanto con l’art. 3, ma anche con l’art. 24 Cost., per di più sotto uno specifico e significativo aspetto, quale è quello di assicurare la effettività del giudizio di cassazione. “Questa garanzia, infatti – soggiunse la Corte – si qualifica ulteriormente in funzione dell’art. 111 Cost., il quale non a caso prevede che contro tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge. Ciò sta dunque a significare non soltanto che il giudizio di cassazione è previsto come rimedio costituzionalmente imposto avverso tale tipo di pronunzie; ma, soprattutto, che il presidio costituzionale – il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l’espresso richiamo al paradigmatico vizio di violazione di legge) – contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione. Da ciò dunque – concluse la Corte – un evidente corollario. L’errore di tipo “percettivo” in cui sia incorso il giudice di legittimità e dal quale sia derivata l’indebita compromissione di quel diritto, deve avere un necessario rimedio”.

Gli stessi principi sono stati poi ulteriormente ribaditi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 207 del 2009, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 391 bis c.p.p., comma 1, nella parte in cui non prevedeva la esperibilita del rimedio della revocazione per errore di fatto, ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4, del medesimo codice, per le ordinanze pronunciate dalla Corte di Cassazione con il rito camerale a norma dell’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 1. Decisione, quella appena citata, nella quale la Corte, rievocando ancora una volta l’intero percorso della giurisprudenza costituzionale, ha sottolineato come, proprio al lume di quei principi, il legislatore fosse stato indotto ad operare un “riallineamento” degli istituti processuali in tema di errore di fatto della Corte di cassazione, proprio attraverso l’innesto, nel codice di procedura penale, dell’art. 625 bis. Ciò a denotare, dunque, non soltanto il primario risalto dei valori che quei principi chiamavano in causa, ma anche a dimostrazione della sostanziale identità delle garanzie processuali che ne devono presidiare la effettività, a prescindere dalla sede – penale o civile – in cui l’eventuale errore di tipo percettivo della Corte di Cassazione si sia trovato ad incidere.

In tale prospettiva, dunque, la disciplina approntata dal legislatore attraverso il ricorso straordinario di cui all’art. 625 bis c.p.p., lungi dall’apparire come una soluzione semplicemente compatibile con il dettato costituzionale, finisce per rappresentare una scelta, per molti aspetti, costituzionalmente imposta, nel quadro di un fascio di diritti che coinvolge, ad un tempo, il principio di uguaglianza, quello di effettività della difesa in ogni stato e grado del processo, il diritto alla riparazione degli errori giudiziari, nonchè quello al controllo effettivo in sede di legittimità di tutte le sentenze.

4. La soluzione che tende a limitare il ricorso straordinario alla condanna solo per il capo penale, si rivela dunque palesemente eccentrica rispetto al diritto del condannato, anche soltanto per il capo civile, a fruire di un giudizio di legittimità non compromesso dall’errore di fatto. Per un verso, infatti, la locuzione “condannato” che delimita soggettivamente la sfera di applicabilità del rimedio straordinario che viene qui in discorso, non può arbitrariamente scandirsi in ragione del tipo di condanna in capo al soggetto che sia stato sottoposto, come imputato, al processo penale, giacchè l’essere stato costui evocato in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili. Ma di tale distinzione non v’è traccia nel testo dell’art. 625 bis c.p.p., nè può dirsi ricavabile una qualsiasi incompatibilità logica o strutturale della norma a emendare l’errore che coinvolga la posizione dell’imputato condannato solo per gli interessi civili.

Se, dunque, i richiamati principi costituzionali valgono tanto nel processo civile che in quello penale, non v’è ragione alcuna – ma anzi si offrirebbe il destro per avanzare fondati dubbi di legittimità costituzionale – ove il sistema prefigurasse un rimedio per un tipo solo di condanna e lo precludesse per l’altro, per di più a differenza di quanto è previsto al riguardo nel processo civile. Si assisterebbe, infatti, ad una irragionevole disparità di trattamento, giacchè mentre, ove l’azione di danno fosse stata esercitata in sede propria, la parte sarebbe ammessa a far valere Terrore di fatto della Corte di cassazione attraverso i rimedi previsti dal codice di procedura civile, lo stesso diritto non sarebbe esercitabile in caso di azione civile esercitata nel processo penale.

E’ ben vero, a questo riguardo, che la scelta di esercitare l’azione civile in sede penale comporta che, ad una siffatta opzione, corrisponda l’accettazione delle regole processuali proprie del processo penale, con la conseguenza di rendere costituzionalmente compatibili – proprio perchè liberamente accettate – le eventuali divergenze di disciplina tra le due sedi (v. fra le tante, Corte cost. sent. n. 168 del 2006). Ma la posizione dell’imputato, “convenuto” in sede penale dalla parte civile, è reciproca e ribaltata. Se, infatti, il titolare della azione di danno o per le restituzioni ex art. 185 c.p., è libero di scegliere la sede processuale nella quale far valere le proprie ragioni nei confronti dell’autore del reato, l’imputato, chiamato a resistere alla azione civile, subisce la scelta del danneggiato: con l’ovvia conseguenza che, ove si dovesse escludere l’applicabilità dell’art. 625 bis c.p.p., per l’imputato prosciolto dal capo penale, ma condannato per il capo civile, si assisterebbe al bizzarro epilogo di far dipendere la emendabilita dell’errore di fatto compiuto nel giudizio di cassazione esclusivamente dalle scelta di dove esercitare l’azione di danno da reato operata dal relativo titolare. L’errore sarebbe, infatti, emendabile in caso di azione esercitata in sede propria, e non emendabile se esercitata in sede penale, pur in presenza di un vizio strutturalmente identico (stesso errore di fatto, di tipo percettivo, attinente alla lettura degli atti interni al giudizio) e di un ugualmente identico tipo di giudizio (davanti alla Corte di cassazione).

Ad ulteriore e definitiva conferma di tale assunto può, infine, ancora una volta evocarsi l’insegnamento desumibile dalla giurisprudenza costituzionale. Con la sentenza n. 112 del 1998, infatti, la Corte costituzionale ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 83 c.p.p., nella parte in cui tale disposizione non prevedeva che, nel caso di responsabilità civile derivante dalla assicurazione obbligatoria prevista dalla L. 24 dicembre 1969, n. 990, l’assicuratore potesse essere citato nel processo penale a richiesta dell’imputato. Nel frangente, la Corte sottolineò che, se doveva ritenersi pacifica la possibilità di operare la chiamata in garanzia dell’assicuratore da parte dell’assicurato convenuto in un giudizio civile per il risarcimento del danno provocato con la circolazione di autoveicoli sottoposti alle norme della legge per l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile, diveniva fondato domandarsi perchè analogo potere non fosse attribuito all’imputato nel processo penale. “La posizione del convenuto – soggiunse infatti la Corte – chiamato a rispondere del proprio fatto illecito in autonomo giudizio civile e quella dell’imputato per il quale, in relazione allo stesso tipo di illecito, vi sia stata costituzione di parte civile del danneggiato nel processo penale sono assolutamente identiche: con la conseguenza che il principio costituzionale di uguaglianza è violato da un sistema come quello dell’art. 83 c.p.p. e ss., per effetto del quale l’assicuratore, quando sia responsabile civile ai sensi di legge può entrare nel processo solo in forza di citazione della parte civile (o del pubblico ministero nel caso previsto dall’art. 77, n. 4) o in forza del proprio intervento volontario”. Da ciò l’assunto della irrazionalità di una disciplina che “deviando – senza alcun plausibile motivo – dallo schema del rapporto processuale civile”, privava l’imputato di ogni possibilità di coinvolgere nella pretesa di danno avanzata dalla parte civile il civilmente responsabile.

Affermazioni, dunque, del tutto pertinenti al caso di specie, per il quale l’immotivato scostamento dallo “schema del rapporto processuale civile” – cui si andrebbe ineluttabilmente incontro precludendo l’applicabilità dell’art. 625 bis c.p.p., all’imputato condannato per il solo capo civile – determinerebbe una automatica frizione con I principi costituzionali che la Corte ha, come si è visto, In più riprese ribadito.

5. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto: “E’ legittimato alla proposizione del ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., il condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativa a tale capo”.

6. Sgombrato il campo dal quesito pregiudiziale circa l’ammissibilità del ricorso e scendendo al merito delle doglianze proposte dai ricorrenti, deve rilevarsi che l’errore denunciato in effetti non sussiste.

Anche di recente, infatti, queste Sezioni Unite hanno avuto modo di ribadire che l’errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità e oggetto del ricorso straordinario, consiste in un errore di tipo percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dalla inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso.

Viceversa, qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviante rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall’orizzonte del rimedio straordinario (Sez. Un., n. 37505 del 14/07/2011, *******).

Ebbene, nella vicenda in esame, contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, la tematica della procedibilità, puntualmente evocata nella narrativa della sentenza impugnata, è stata scandagliata, seppure in forma succinta, dalla Corte di cassazione nella parte in cui – facendo leva sulle acquisizioni consacrate nelle pronunce di merito – ha escluso la sussistenza dei presupposti per pervenire alla adozione di una formula di proscioglimento diversa e più favorevole di quella per prescrizione, dando così atto di aver proceduto ad una valutazione dei profili sui quali si era concentrata la doglianza dei ricorrenti e che aveva formato oggetto di specifico motivo di ricorso.

Pertanto, nessun errore di tipo percettivo può dirsi ravvisabile nel caso di specie, con la conseguenza di rendere infondato il ricorso straordinario proposto, che deve essere rigettato con le conseguenze di legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Redazione