Responsabilità medica: non è certo che l’intervento chirurgico abbia causato il trombo, assolti i medici (Cass. pen. n. 9457/2013)

Redazione 27/02/13
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Ritenuto in fatto

Con sentenza del 30/6/2011 la Corte d’Appello di L’Aquila confermava la sentenza di primo grado con la quale Ma.En. e A.K., tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Pescara per rispondere del reato di cui all’art. 589 c.p., erano stati assolti perché il fatto non sussiste. Agli imputati era mosso l’addebito di avere, quali medici della Casa di Cura (omissis) , nelle rispettive qualità, il Ma. di esecutore dell’intervento chirurgico di resezione di prostata e l’A. di medico che aveva effettuato il ricovero e le dimissioni presso la clinica e compilato la cartella clinica, per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, cagionato la morte di Di.Fo.Gi. , avendo prescritto entrambi una terapia farmacologica non corretta (fatto avvenuto in (omissis) ).

Secondo l’addebito tale trattamento terapeutico (consistente, da un lato, nel non aver somministrato, al momento delle dimissioni, la terapia con calciparina che, instaurata all’atto dell’intervento, era stata, invece, interrotta prematuramente e non proseguita a domicilio, pur potendo essa ostacolare o rallentare il fenomeno trombotico, e, dall’altro, nel somministrare alla vittima, all’esito di intervento in relazione al quale il rischio di trombo-embolia era di routine, durante tutto il ricovero e anche al momento delle dimissioni, il farmaco Tranex, antiemorragico ad azione trombizzante, comunemente utilizzato nella terapia delle emorragie), invece di ostacolare il processo eziologico di formazione del trombo, ne aveva agevolato la genesi.

La Corte riteneva che non fosse dimostrata con certezza e al di là di ogni ragionevole dubbio la sussistenza del nesso causale tra la condotta colposa quale contestata ai due imputati e l’evento mortale, rilevando che i periti di ufficio avevano ragionevolmente e convincentemente escluso che trombi rilevanti, quali quelli accertati nell’esame autoptico in sede polmonare, fossero stati originati dalla zona d’intervento, dovendo gli stessi essere partiti da vene più grandi, quali quelle iliache o femorali, non interessate dall’operazione. Da ciò il convincimento che l’intervento chirurgico, in se stesso, non possa essere stato alla base della formazione dei trombi medesimi; che fosse da escludere che i trombi suddetti potessero essersi formati nel periodo post operatorio in ospedale, per assenza di gravi riscontrate alterazioni dei processi coagulativi e la copertura determinata sia da antibiotico sia da calciparina al fine di evitare la formazione di nuovi coauguli; che, altresì, fosse del tutto inverosimile che detti grossi trombi potessero essersi formati ex novo nel brevissimo periodo di convalescenza a domicilio, per effetto della sospensione della calciparina e della contemporanea assunzione, peraltro a dosi ordinarie, del Tranex, posto che tale farmaco favorisce una maggiore persistenza del coaugulo, sicché lo stesso, alle dosi terapeutiche quali quelle nella specie adottate, non interferisce nella formazione dei trombi, potendo al più aggiungere una maggiore resistenza a un trombo già esistente.

Rilevano che, poiché “è stato sufficientemente e concordemente acclarato nel processo che il Tranex, nel mentre inibisce che possa lidersi un coaugulo o trombo già esistente (trattandosi di antiemorragico e anticoagulante) non tende esso stesso a creare ex novo dei coaguli o trombi che non siano già esistenti prima dell’intervento e ancora poiché… è assai improbabile che un trombo, per di più di quella portata che ha determinato la morte, possa essersi formato nel breve periodo dei ricovero in ospedale” (nel quale il Di.Fo. venne trattato con calclparina e Tranex), anche a ritenere che ci fosse stata una indicazione terapeutica errata, “la eventuale prosecuzione della somministrazione di caldparina a domicilio non avrebbe potuto scongiurare, ma, al più, solo ridurre il rischio di tromboembolo”.

Da tutto ciò la Corte desumeva che non fosse stato sufficientemente e univocamente dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, un nesso di causalità tra la condotta terapeutica adottata dagli imputati dopo l’intervento e la formazione dei grossi trombi responsabili della morte improvvisa del Di.Fo. . Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione i congiunti del Di.Fo. , costitutisi parti civili, deducendo:

1) Erronea applicazione dell’art. 40 c.p. e inosservanza dell’art. 41 c.p. Inosservanza degli artt. 192 commi 1 e 2 c.p.p. e 546 comma 1 lett. e) c.p.p. Contraddittorietà della motivazione. Manifesta illogicità della motivazione Rilevano i ricorrenti che sarebbe errata la conclusione della Corte d’Appello, secondo la quale la trombosi che ha condotto a morte il paziente era patologia preesistente al ricovero e all’intervento chirurgico, perché in contrasto con lo statuto della causalità come disciplinato dagli artt. 41 e 42 CP e illogicamente motivata. Osservano che era illogico affermare, senza adeguato riscontro probatorio sul punto, che il paziente fosse affetto da tromboembolia già al suo ingresso in clinica prima dell’intervento. Evidenziano una contraddizione nella sentenza impugnata, dal momento che la stessa da un lato afferma che i trombi non si sono potuti formare nel periodo perioperatorio pre e post intervento, che va dal ricovero alle dimissioni (in quanto, altrimenti, gli esami ematochimici eseguiti in sede avrebbero dovuto evidenziare una grave alterazione dei processi coagulativi), e dall’altro sostiene che il paziente era entrato già in ospedale con la trombosi in atto, ipotesi contraddetta proprio dagli stessi esami di laboratorio eseguiti il giorno del ricovero, che evidenziavano valori normali anche per i fattori emocoaugulanti.

Osservano che dall’accertamento medico legale (esame autoptico e esame istologico) reso dal consulente del PM si evinceva che era stato riscontrato enfisema della sacca scrotale e del pene e flogosi granulocitaria, dunque infezione delle pelvi, ben idonea a parere del consulente a determinare l’innesco di fattori di poi cagionanti la trombo-embolia polmonare (come accertato dalla sentenza di primo grado, sul punto non censurata). Affermano che, in sostanza, i periti non hanno messo in discussione che la trombosi sia stata conseguente a complicanza dell’intervento, talché la motivazione sarebbe contrastante con i risultati dell’istruttoria dibattimentale.

Rilevano altra contraddizione laddove la Corte afferma che i trombi non si sono potuti formare nel periodo di ricovero postoperatorio, in quanto il paziente è stato trattato con calceparina – con ciò attribuendo valenza al farmaco nella inibizione della formazione del trombo – successivamente affermando che non vi è certezza che la calceparina impedisca la formazione del trombo, talché non poteva ritenersi che i trombi si fossero formati dopo le dimissioni, allorquando il paziente non era trattato con eparina.

Osservano che il ragionamento della Corte di merito non convince alla luce dello statuto della causalità in termini di alta probabilità logica e alto grado di credibilità razionale, secondo i parametri indicati da Cass. S.U. 30328/2002, con specifico riguardo al dettato dell’art. 41 c.p. circa l’incidenza delle concause preesistenti e concomitanti, ravvisandosi nesso causale con riferimento alla condotta del medico che, prescrivendo terapia controindicata nelle patologie tromboemboliche, aveva posto in essere un contributo causale rispetto all’evento.

Le reciproche posizioni di parte civile e imputati sono state illustrate con memorie.

 

 

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato.

La Corte d’Appello, infatti, con motivazione logica e coerente, ha fatto corretta applicazione del criteri, anche attinenti al giudizio controfattuale, di verifica dell’esistenza della causalità giuridica tra la condotta colposa contestata e l’evento mortale, escludendo la sussistenza della responsabilità degli imputati al di là di ogni ragionevole dubbio.

Va evidenziato preliminarmente che compito della Corte di legittimità è il controllo della razionalità delle argomentazioni giustificative poste a fondamento della decisione, sulla scorta dei dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, delle inferenze formulate in base ad essi e dei criteri che sostengono le conclusioni, talché la disamina che segue avrà ad oggetto non la correttezza in sé della decisione, bensì l’adeguatezza del suo contesto giustificativo.

Con riferimento, specificamente, alla genesi della tromboembolia, la Corte territoriale ha precisato – fondando il rilievo sul riscontro autoptico, oltre che sulle conclusioni dei periti di ufficio – che l’accertato massivo interessamento di entrambi i rami polmonari, oltre alla mancata constatazione di un rialzo febbrile e di altri sintomi normalmente riscontrabili in presenza di significativa flogosi postoperatoria, lasciavano ragionevolmente presumere che essa fosse riconducibile ai vasi venosi degli arti inferiori, escludendo che l’intervento potesse porsi come origine o anche concausa nella formazione dei grossi trombi letali.

Il ragionamento appare argomentato in modo logico, in base a dati istruttori univoci e nel rispetto delle regola della causalità. Né è ravvisabile contraddizione con riferimento alla considerazione degli esami ematici effettuati in sede ospedaliera, ritenuti congrui ad accertare la mancata formazione di fenomeni trombotici nel periodo periospedaliero e non, invece, ad escludere la preesistenza al ricovero di grossi trombi risultati poi letali, non essendo dimostrato che semplici esami ematologici potessero dare conto della preesistenza di grossi trombi in distretti ben distinti da quelli venuti in considerazione in relazione all’intervento.

Allo stesso modo la Corte stessa ha escluso, con ragionamento logico supportato da elementi tecnici, e, pertanto, non censurabile, che i trombi si fossero formati nel periodo di degenza ospedaliera successivo all’intervento, e ciò sia in ragione del lasso temporale, inadeguato per la formazione di trombi così imponenti come quelli rilevati in sede autoptica, sia per l’avvenuta sottoposizione del paziente a terapia antibiotica e antitrombotica in quel periodo, sia per l’esito delle indagini ematiche eseguite in fase perioperatoria.

La Corte d’Appello ha, infine, escluso che i trombi possano essersi formati durante la fase postoperatoria domiciliare, specificamente a seguito dell’assunzione di Tranex, prescritto in sede di dimissioni ospedaliere. I giudici di merito hanno in proposito evidenziato gli orientamenti terapeutici non univoci in materia di somministrazione di farmaci antitrombotici nella fase postoperatoria dell’intervento, in forza dei quali la terapia adottata dagli imputati non poteva essere definita come errata. Inoltre, con notazione risolutiva quanto all’accertamento della sussistenza del rapporto di causalità, hanno evidenziato, in forza di un corretto ragionamento controfattuale, che, anche a ritenere errata e non appropriata la condotta terapeutica posta in essere, l’elisione di tale condotta, consistente in un’errata prescrizione, non avrebbe comunque consentito di scongiurare l’evento-morte.

Hanno affermato, infatti, i giudici di merito, richiamando sul punto una precisa notazione dei periti d’ufficio, che la sospensione della terapia con calciparina e la somministrazione del Tranex avrebbero potuto determinare al più una maggiore resistenza di un trombo già presente, ma giammai incidere sulla formazione di un trombo, escludendo in tal modo all’eventuale errore terapeutico la connotazione di concausa minima, giacché nulla avrebbe potuto il normale atteggiarsi del fenomeno di lisi della fibrina contro i trombi che hanno determinato il decesso del Di.Fo. .

Il suindicato giudizio controfattuale consente di ritenere irrilevante il rilievo relativo alla presunta contraddizione motivazionale in punto di assunzione come significativa dell’effettuazione della terapia antitrombotica ai fini dell’esclusione delle formazione dei trombi nel periodo post intervento e di contemporanea esclusione di decisività della mancata effettuazione di detta terapia nella fase successiva della degenza domiciliare, con conseguente correttezza dell’affermazione della mancata dimostrazione, al di là di ogni ragionevole dubbio, della incidenza della condotta dei medici nella determinazione dell’evento.

In conclusione va evidenziato che il ragionamento svolto dalla Cotte di merito, immune da vizi logici, appare conforme all’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 30328/2002 ********), in forza del quale nello specifico settore dell’attività medico-chirurgica, “il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva” e ciò non in forza di un mero coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, ma secondo un “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”, con l’effetto che “il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo” determina la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

In base a tutte le argomentazioni svolte il ricorso va rigettato, con onere in capo ai ricorrenti del pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Redazione