Responsabilità della struttura sanitaria e di consequenziale danno non patrimoniale c.d. da contratto (Trib. Brindisi, 14/6/2011) (inviata da A. I. Natali)

Redazione 14/06/11
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Ipotesi d’applicazione delle note Sezioni Unite di *********** dell’11.11. 2008 che hanno sancito la necessità che il pregiudizio esistenziale si ricolleghi alla violazione di un diritto costituzionalmente sancito e che hanno affermato ex novo il principio della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale.

 

FATTO E DIRITTO
Con atto di citazione notificato in data 11 ottobre 2004, l’attore ha convenuto in giudizio dinanzi a questo Tribunale l’Azienda Unità Sanitaria Locale BR. n. 1 e l’Azienda Unità Sanitaria Locale BR n.1 – Presidio Ospedaliero di Ostuni, per ivi sentire accogliere nei loro confronti le seguenti conclusioni: “Voglia il Giudice adito a) accertato che i fatti così come prospettati dall’attore comportano la responsabilità della convenuta, condannare l’A.U.S.L. BR/1 – B. e l’A.U.S.L. BR/1 – Presidio Ospedaliero di Ostuni, al pagamento della somma di euro 23.844,26, oltre interessi e svalutazioni dal giorno della costituzione in mora; b) condannare i convenuti, in solido fra loro, al pagamento delle spese e competenze di causa.”
A sostegno della propria domanda l’attore ha esposto:
– che in data 1 marzo 2004 sarebbe stato ricoverato presso il reparto di ortopedia di Ostuni per una frattura al polso destro;
– che durante l’intervento per la collocazione dei mezzi di sintesi sarebbe stato reciso il tendine del quarto dito della mano destra;
– che, in data 18 maggio 2004, sarebbe stato sottoposto ad altro intervento chirurgico per tentare di riannodare il tendine, senza risultati;
– che all’istante sarebbero residuati postumi invalidanti in misura pari al 14%;
– che l’ASL convenuta sarebbe, a detta di parte attrice, responsabile del sinistro asseritamente subito;
– che il S. avrebbe diritto, pertanto, al risarcimento dei danni in misura pari alla somma di Euro 23.844,26;
– che il S. avrebbe provveduto a richiedere il risarcimento dei danni lamentati al nosocomio di B. senza ottenere alcun esito.
Si è ritualmente costituita in giudizio l’Azienda Unità Sanitaria Locale di B. impugnando e contestando quanto ex adverso eccepito e dedotto perché infondato in fatto ed in diritto e chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni “Piaccia all’Ill.mo Tribunale adito, “contrariis reiectis”, 1 in via pregiudiziale: accertare e dichiarare l’incompetenza territoriale del Tribunale di B., Sezione distaccata di Ostuni, stante la competenza del foro di B. a conoscere della presente controversia ai sensi degli art. 19 e 20 c.p.c..; 2 nel merito: rigettare la domanda attrice perché infondata in fatto ed in diritto; 3 in via subordinata: nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda attorea: a accertare con rigore i danni eventualmente subiti dal S., liquidando eventualmente le sole somme corrispondenti all’asserito aggravamento della patologia sofferta; b negare il riconoscimento del danno morale per le ragioni esposte in narrativa; c negare, sulla somma eventualmente liquidata a titolo di risarcimento del danno, il cumulo di interessi e rivalutazione, stante il divieto sancito dalla Suprema Corte sul punto. 4 in via istruttoria: si chiede l’ammissione dei mezzi istruttori formulati al paragrafo 2.8 della presente comparsa di costituzione e risposta, con riserva di articolare ulteriori mezzi di prova. Con vittoria di spese, competenze ed onorari del presente giudizio”.

La pretesa attorea è fondata in parte qua.
Sotto il profilo dell’eziologia del danno, il Ctu, con ragionamento logico-deduttivo esente da vizi di sorta, ha evidenziato come “il ritardo con cui venne diagnosticata e successivamente trattata la lesione tendinea a distanza di circa due mesi e mezzo dalla frattura abbia compromesso irrimediabilmente la riuscita della tenografia”.

L’inadempimento della struttura e la natura contrattuale della responsabilità.

Quanto alla natura giuridica della responsabilità de qua, quella dell’ente convenuto è da ascriversi al paradigma contrattuale, in quanto “l’accettazione del paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, essendo essa tenuta ad una prestazione complessa che non si esaurisce nella prestazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già prescritte dalla L. n. 132 del 1968, art. 2, ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu alberghiere” (cfr. Cass., civ., 19 ottobre 2006, n. 22390; Cass., civ., 24 maggio 2006, n. 12362).
Ciò premesso, la responsabilità dell’ente ospedaliero ricorre 1) sia, ex art. 1218 c.c., in relazione a propri fatti d’inadempimento (ad es., in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione di medicinali o del personale medico ausiliario e paramedico, o alle prestazioni di carattere alberghiero), 2) sia, ex art. 1228 c.c., per quanto concerne il comportamento specifico dei medici dipendenti, dal momento che il debitore che, nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, per quanto non siano alle proprie dipendenze.
Ovviamente, si tratta di una responsabilità per fatto dell’ausiliario o preposto dalle caratteristiche peculiari in quanto “prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato del medico con la struttura (pubblica o privata) sanitaria, essendo irrilevante la natura del rapporto tra i medesimi sussistente ai fini considerati, laddove fondamentale rilevanza assume viceversa la circostanza che dell’opera del terzo il debitore originario comunque si avvalga nell’attuazione del rapporto obbligatorio” (Cass., civ., sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, cit.).
Da ciò la configurabilità di una responsabilità contrattuale della struttura per il fatto non solo del personale medico, dipendente, ma anche di quello meramente ausiliario.
Ciò spiega l’abituale richiamo del principio generale – tipico della responsabilità delle strutture organizzative – cuius commoda eius etiam incommoda; la responsabilità dell’ente traendo origine non già da un profilo di colpa nella scelta degli ausiliari o nella vigilanza, bensì dal rischio insito nell’utilizzazione di terzi, nell’adempimento delle obbligazione, gravanti sulla propria sfera giuridica (Cass., civ., 17 maggio 2001, n. 6756; Cass., civ., 30 dicembre 1971, n. 3776. Si veda anche Cass., civ., 4 aprile 2003, n. 5329).
Né la responsabilità dell’ente incontra il limite del fatto doloso del soggetto agente, quale fatto idoneo a interrompere il rapporto in base al quale l’ente è chiamato a rispondere, dal momento che, ai fini della responsabilità dell’ente, non si richiede un nesso di causalità in senso stretto, ma é sufficiente una mera occasionalità necessaria (Cass., civ., 17 maggio 2001, n. 6756; Cass., civ., 15 febbraio 2000, n. 1682).
In origine, la responsabilità della struttura ospedaliera era modulata su quella del medico-paziente, ragione per cui si considerava indefettibile presupposto della stessa l’accertamento di un comportamento, imputabile (colposo o doloso), del medico operante presso la stessa.
Più recentemente, invece, il rapporto intercorrente fra il paziente e la struttura ospedaliera è stato ricostruito, in via autonoma, da quello paziente-medico, individuandosi il fondamento giustificativo dello stesso, in un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (il già menzionato contratto di spedalità, in virtù del quale, la struttura deve fornire al paziente una prestazione “articolata”, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, ricomprensiva, oltre che della prestazione principale medica, anche di una serie di obblighi di protezione ed accessori che rinvengono, nella buona fede oggettiva, ex artt.1375-1175 c.c., la propria ragion di essere).
Da ciò l’affermarsi di un modello di responsabilità che prescinde dall’accertamento di un condotta negligente dei singoli operatori e che trova, invece, la propria fonte, nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente.
Questo revirement interpretativo ha trovato un autorevole avallo nella citata sentenza delle Sezioni Unite (1.7.2002
n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici: Cass. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006).
Ricostruita in termini contrattuali la responsabilità della struttura sanitaria, nel rapporto con il paziente, il riparto dell’onere probatorio risponde ai criteri, enucleati al riguardo dalle Sezioni Unite, con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento (vedasi anche SS.UU. 28.07.2005, n. 15781), secondo cui, il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale e per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.
Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.
Ciò premesso, l’inadempimento rilevante ai fini dell’azione risarcitoria, almeno in relazione alle obbligazioni c.d. di mezzo, non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno; competerà poi al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.
Nel caso che ci occupa, l’attore ha provato l’esistenza di un contratto di assistenza sanitaria (o di spedalità) e l’inadempimento, sub specie del ritardo “con cui venne diagnosticata e successivamente trattata la lesione tendinea a distanza di circa due mesi e mezzo dalla frattura”, nonchè l’efficienza causale di tal ultima condotta rispetto al buon esito della tenografia.
Il danno non patrimoniale da contratto
La risarcibilità del danno non patrimoniale, correlato all’inadempimento di un’obbligazione, ha costituito profilo controverso fino alle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008, per quanto talune pronunce, ad esse anteriori, avessero lasciato un margine di apertura all’ammissibilità del suddetto danno.
In particolare, Cass., civ., 9 novembre 2006, n. 23918, aveva tendenzialmente escluso il risarcimento del danno non patrimoniale, con riferimento all’ambito della responsabilità contrattuale, indicando l’art. 2087 c.c., in materia di lavoro subordinato, quale eccezione alla suddetta regola.
Ciò anche in considerazione della mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all’art. 2059 c.c. dettato in materia di fatti illeciti.
Peraltro, venendo in rilievo la lesione di beni di dignità costituzionale, quali quelli di cui agli artt. 2, 32, 13 Cost., si prefigurava l’applicazione, in aggiunta al regime dell’inadempimento contrattuale, della disciplina in materia di illecito aquiliano, secondo il principio del cumulo dei titoli di responsabilità.

Orbene, le Sezioni Unite dell’11 novembre 2008, in armonia con le conclusioni in materia di danno non patrimoniale – ricostruito quale un’unica grande categoria di cui il danno esistenziale rappresenterebbe una mera variante descrittiva – pervengono alla soluzione diametralmente opposta.
La Suprema Corte, ripercorrendo l’iter evolutivo in materia, ricorda come, al fine di superare l’ostacolo dato dall’assenza, nell’ambito della materia contrattuale di una norma di contenuto analogo all’art. 2059 c.c., la giurisprudenza (avesse) elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell’esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).
Nondimeno, il cumulo non era idoneo a giustificare il risarcimento del danno non patrimoniale, al di fuori delle ipotesi di espressa tipizzazione dello stesso in virtù dei ristretti limiti desumibili dal combinato disposto degli artt. 2059 e 185 c.p., per cui il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.
Ciò premesso, secondo le Sezioni Unite, l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. consentirebbe di sostenere che “anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali”. A tal riguardo, la pronuncia richiama il principio dell’indefettibilità del riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, di quella tutela, minima, costituita dal risarcimento; tutela che, quando questi siano stati lesi, dovrebbe essere assicurata, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale”. Ne consegue che é ammissibile far rifluire il danno non patrimoniale “nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni.
D’altronde, nonostante la mancanza di un’espressa previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale in materia contrattuale, è richiamabile, pur sempre, la previsione dell’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
Dalla suddetta norma, è deducibile “la libera deducibilità nell’ambito di un regolamento contrattuale di valori non strettamente patrimoniali, ma afferenti la persona”.
Inoltre, l’inerenza al programma contrattuale, per quanto non espressamente dedotti, di interessi a contenuto non patrimoniale discenderebbe anche dall’applicazione della c.d. causa concreta del negozio “da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006)”.
Dunque, le Sezioni Unite aderiscono alla più recente ricostruzione dogmatica della causa del contratto (intesa quale finalità pratica in concreto perseguita) ed “elaborata al fine di riconoscere tutela agli interessi effettivamente perseguiti dalle parti con l’adozione di un certo modello contrattuale, il cui schema normativo, dunque, non è più idoneo a delimitare, in via esclusiva, l’ambito degli interessi suscettibili di tutela per il tramite dello strumento contrattuale”.
Inoltre, esiste un legame inscindibile fra la c.d. causa in concreto e la fattispecie dei “c.d. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario”.
Poichè la causa concretamente perseguita attraverso i contratti “sanitari” consiste “nell’attuazione della tutela della sfera della salute in senso ampio”, l’inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del medico é idoneo a ledere “diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali” .

I danni risarcibili

E’ noto come le Sezioni Unite dell’11.11.2008 abbiano degradato il danno biologico a mera componente descrittiva della più ampia categoria del danno non patrimoniale.
Esso va inteso come menomazione dell’integrità psico-fisica in sè e per sè considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione.
Tale voce di danno, come precisato dalla Corte Costituzionale, n. 184/’86, non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza del danneggiato, con il conseguente paradosso, al contempo, dell’irrisarcibilità del danno biologico, subito da chi sia sprovvisto di un’attività lavorativa e della commisurazione del danno all’occupazione del soggetto o, persino – secondo un’inammissibile visione della società, rigidamente ripartita per classi – dei genitori.
Come espressamente affermato anche dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, per danno biologico deve, invece intendersi “la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.
Ciò premesso, il danno biologico consistente nella violazione dell’integrità psico-fisica della persona va considerato ai fini della determinazione del risarcimento, sia nel suo aspetto statico (diminuzione del bene primario dell’integrità psico-fisica in sè e per sè considerata) sia nel suo aspetto dinamico (manifestazione o espressione quotidiana del bene salute).
Orbene, l’espletata consulenza medico-legale, ha consentito di acclarare la entità delle lesioni riportate dalla istante sotto il profilo sia dell’inabilità temporanea sia del danno permanente
Il Ctu ha accertato che, in conseguenza del sinistro de quo, l’attore ha subito lesioni permanenti nella misura del 2%, nonché una invalidità temporanea totale di giorni 100 ed una invalidità temporanea parziale al 50% di giorni 30.
Le conclusioni del medico legale sul danno biologico, sono condivise dal Tribunale, in quanto basate su un completo esame anamnestico e su un obiettivo, approfondito e coerente studio della documentazione medica prodotta, valutata con criteri medico-legali immuni da errori e vizi logici.
Risulta, inoltre, provata, nel caso di specie, anche l’ulteriore figura descrittiva del danno non patrimoniale, individuata dalle Sezioni Unite del 2008, nel danno morale e, dalla stessa pronuncia, disancorato dal dato temporale, con conseguente abbandono dello schematismo concettuale per cui il danno morale deve essere necessariamente transeunte.
Né può accedersi alla tesi, frutto di un’interpretazione riduttiva delle Sezioni Unite, secondo cui il danno morale, nell’ipotesi di una sua derivazione “biologica” non sarebbe voce autonomamente risarcibile, rispondendo le due figure descrittive alla tutela di beni giuridici distinti, come, peraltro, evincibile anche dalle scelte della legislazione speciale. Tal ultima, spesso, (si pensi, ad esempio, al Decreto del Presidente della Repubblica 30 ottobre 2009, n. 181 che introduce un Regolamento recante i criteri medico-legali per l’accertamento e la determinazione dell’individualità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell’articolo 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206) non solo continua a distinguere le due categorie di danno ma contiene una nozione legale di danno morale.
Si ritiene opportuno applicare, al caso di specie, ai fini della valutazione del danno individuato dal CTU, le tabelle di Milano, in quanto strutturate e concepite – diversamente dalle attuali Tabelle di Lecce – in funzione del nuovo inquadramento concettuale del danno non patrimoniale, quale categoria unitaria, cui sono approdate le Sezioni Unite dell’11.11. 2008. Né la maggiore o minore diffusione delle stesse presso i tribunali locali – a fronte della prevalenza statistica delle tabelle milanesi sul territorio nazionale – può costituire ragione sufficiente ad impedirne l’applicaz
ione nel caso di specie.
Le nuove Tabelle – approvate il 28 aprile 2009 e aggiornate nel 2011 – presentano profili di innovatività rispetto alle precedenti tabelle quanto alla liquidazione del danno permanente da lesione all’integrità psico-fisica. Infatti, esse individuano il nuovo valore del c.d. “punto” muovendo dal valore del “punto” delle Tabelle precedenti (connesso alla sola componente di danno non patrimoniale anatomo-funzionale, c.d. danno biologico permanente), aumentato in riferimento all’inserimento nel valore di liquidazione “medio” anche della componente di danno non patrimoniale relativa alla “sofferenza soggettiva”di una percentuale ponderata (dall’1 al 9% di invalidità l’aumento è del 25% fisso, dal 10 al 34 % di invalidità l’aumento è progressivo per punto dal 26% al 50%, dal 35 al 100% di invalidità l’aumento torna ad essere fisso al 50%), e prevedendo inoltre percentuali massime di aumento da utilizzarsi in via di c.d. personalizzazione.
Applicando le predette tabelle, il danno da invalidità permanente subito dall’attore deve essere quantificato in euro:
– € 2118,00 (che discendono dal valore del “punto”, relativo al danno non patrimoniale ovvero € 1460,48, moltiplicato per il numero dei punti di invalidità, applicato il demoltiplicatore correlato all’età, al momento del sinistro, pari a 56 anni).
Quanto, invece, al calcolo del danno da inabilità temporanea, in applicazione dei suddetti valori tabellari e considerato che il risarcimento per ogni giorno di invalidità assoluta è pari ad euro 91,00, si quantifica in:
a) € 9100,00, l’ITT, giorni 100;
b) € 1365,00, l’I.T.P. al 50% giorni 30.
In totale, per i danni su indicati vanno liquidati all’attore complessivi € 12583,00 che derivano dalla liquidazione complessiva del pregiudizio.
Essendo stato il danno liquidato alla stregua di criteri e valori aggiornati al 2011, non va accordata la rivalutazione, altrimenti, avendosi un’indebita duplicazione del risarcimento.
Devono, invece, computarsi gli interessi legali con decorrenza dal giorno dell’evento lesivo, ovvero dal 1.03.2004.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano nell’importo in dispositivo fissato.
Le spese della disposta CTU devono essere poste a carico dell’ente convenuto.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da S.G., nei confronti di Azienda Unità Sanitaria Locale B. N. 1, in persona del legale rappresentante p.t., così provvede:
1) accoglie la domanda dell’attore, e, per l’effetto, condanna l’ente convenuto al risarcimento dei danni, in favore dell’attore, quantificati in Euro € 12583,00, oltre interessi legali dall’1.3.04 sino all’effettivo soddisfo;
2) condanna il convenuto al pagamento, in favore dell’attore, delle spese di giudizio che liquida in complessivi € 3.300,00 di cui euro 165,00 per spese, euro 1835,00 per diritti ed € 1300,00 per onorario, oltre iva e cap ed esborsi forfetizzati come per legge;
3) pone le spese della disposta CTU a carico del convenuto.

Il Giudice
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