Responsabili educatrice e bagnina dell’annegamento del bambino lasciato solo nella piscina (Cass. pen. n. 24165/2013)

Redazione 04/06/13
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Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Brescia con sentenza del 17/2/2010, affermata la penale responsabilità di F.S. e L.A. in ordine all’imputazione di aver causato per colpa la morte del piccolo K.M. (la prima in qualità di educatrice accompagnante il minore e la seconda in qualità di assistente bagnanti, secondo la contestazione, avevano concorso alla causazione dell’evento, non essendosi per tempo rese conto del sopravvenire dell’improvviso malore che aveva portato all’annegamento, in pubblica piscina della p.o.). La Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 29/2/2012, in parziale accoglimento dell’impugnazione proposta dalle imputate, concesse loro l’attenuante del risarcimento del danno, rideterminava la pena nella misura reputata di giustizia.
2. Al fine di favorire una più agevole comprensione della vicenda è bastevole ricordare in questa sede che i giudici del merito avevano ricostruito il fatto nei termini essenziali seguenti. Il 3/8/2007 il piccolo M., unitamente al fratello gemello U., ad altri bambini e ad una trentina di adolescenti (d’età superiore ai dieci anni), venne condotto dagli educatori addetti al centro ricreativo Le Vele di San Gervasio Bresciano, dotato di spazi attrezzati, una piscina grande con scivoli e di una piccola. Gli educatori erano preposti a sorvegliare i bambini a piccoli gruppi. La F., ad un certo punto, ebbe la necessità di allontanarsi dalla piscina grande, ove prendeva il bagno M., onde condurre una bambina, la quale aveva manifestato l’esigenza di essere tratta altrove dalla confusione della piscina, presso il vicino gazebo; ciò fece, assumendo di aver avvisato la L. (ma quest’ultima smentisce) della presenza in acqua della p.o. In quel frangente, ma non è dato sapere da quanto tempo, da parte di adulti e bambini fruitori della piscina viene lanciata l’allarme per il fatto che M. da qualche tempo galleggiava sul pelo dell’acqua con la testa affondata. Il bambino veniva recuperato, interveniva prontamente la L. a prestare il primo soccorso e poi il medico di turno del parco ludico, ottenendo una pur tenue ripresa delle funzioni vitali; indi il minore, tramite elisoccorso, veniva ricoverato presso gli “Spedali Civili” di Brescia, ove, nonostante le cure approntate, a causa del grave danno encefalico riportato, il giorno 16 dello stesso mese decedeva.
3. Entrambe le imputate hanno proposto ricorso per cassazione.
4. Con l’unica censura illustrata la F. denunzia violazione degli artt. 40 e 589, cod. pen.
I giudici di merito, adduce la ricorrente, avevano fatto discendere la di lei responsabilità valorizzando oggettivamente la posizione di garanzia rivestita, senza tener conto che alla stessa non avrebbe potuto muoversi rimprovero di alcun genere. L’allontanamento fu giustificato dalla necessità di assicurare, il rispetto delle esigenze di un’altra bambina e non godendo del privilegio dell’ubiquità non si coglieva la ragione della riprovazione. L’evento sopraggiunse del tutto imprevedibilmente: il bambino sapeva nuotare, non er scalmanato, non aveva mangiato poco prima ed anche la settimana antecedente era stato in un altro centro acquatico. In definitiva, mancando l’elemento della colpa, la sola posizione di garanzia rivestita non giustificava l’affermazione di responsabilità penale.
5. La L. articola anch’essa unitaria censura con la quale si duole del fatto che i giudici dei merito non avevano considerato che la morte in acqua, per il sopravvenire di un grave malore, non è prevenibile; i detti giudici, inoltre, non avevano tenuto conto che l’istruttoria non aveva consentito di acquisire elementi certi in ordine alle pregresse condizioni di salute del bambino, alla causa della morte, alla natura di talune ecchimosi riscontrate sul corpo (che avrebbero potuto ricondursi alle conseguenze di un malaccorto tuffo); mancava, in conclusione, la certezza del nesso di causalità. Per altro, la condotta omessa che le si rimproverava non era dalla stessa esigibile: da sola avrebbe dovuto costantemente ed attentamente vigilare sopra un’area non governabile da un solo addetto, che comprendeva, oltre alla piscina grande e agli scivoli, anche la piscina piccola, e accorgersi della difficoltà del bambino, non evidenziata da gesti percepibili, ma del tutto silente e caratterizzata dalla semplice anomalia della posizione inerme di galleggiamento assunta.
6. In data 28/3/2013 veniva depositata memoria nell’interesse della ricorrente L. con la quale vengono ripresi i punti salienti sopra illustrati: essa era l’unica assistente bagnanti per entrambe le piscine e gli scivoli; i bambini erano seguiti dagli educatori; l’annegamento del minore non venne; preceduto da gesti o grida; una corretta organizzazione dell’impianto avrebbe imposto la presenza di più assistenti.

Considerato in diritto

7. Al di là della formale intestazione adottata dalla F., la critica mossa con i due ricorsi contesta la giustificazione motivazionale della sentenza gravata.
Entrambi i ricorsi vanno disattesi in quanto volti ad ottenere riesame nel merito della decisione, ampiamente e coerentemente motivata.
Ovviamente, in questa sede non è consentito sostituire la motivazione del giudice di merito, pur anche ove il proposto ragionamento alternativo apparisse di una qualche plausibilità.
Sull’argomento può richiamarsi, fra le tante, la seguente massima, tratta, dalla sentenza n. 15556 del 12/2/2008 di questa Sezione, particolarmente chiara nel delineare i confini del giudizio dl legittimità sulla motivazione: Il nuovo testo dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., come modificato dalla l. 20 febbraio 2006 n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli “atti del processo”, non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere a una rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice dei merito. Il “novum” normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto travisamento della prova, finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza dei quale la Cassazione, lungi dal procedere a un’inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no “veicolato”, senza travisamenti, all’interno della decisione.
8. Quanto alla censura mossa dall’imputata F. la Corte territoriale (pagg. 13 e 14, in specie) ha convincentemente spiegato che la ricorrente era venuta meno al dovere di vigilare costantemente sul minore che le era stato affidato, proprio al fine di far fronte a pronta valutazione di situazioni rischiose non percepite come tali dal bambino a causa della sua immaturità, come la necessità di uscire dall’acqua e chiedere immediato aiuto al sopravvenire di un malore.
Lo stato di difficoltà del bambino si protrasse per un tempo che può, solo apparentemente e in astratto, stimarsi breve (da tre/quattro minuti fino a dieci minuti, come chiarito in sede peritale), ma che, paragonato al violato dovere di costante vigilanza, si staglia in tutta la sua tragica gravità.
Inoltre, in contrasto con il regolamento del centro ludico, la F. aveva lasciato incustodito in acqua un minore che non aveva compiuto gli anni dodici, in una situazione nella quale l’assistente bagnante era onerata del controllo di una zona vasta.
Anche a voler considerare non procrastinabile la necessità di allontanarsi per soddisfare le esigenze di un’altra bambina, appare evidente che ciò la F. avrebbe potuto fare solo dopo aver fatto uscire dall’acqua il piccolo M.; non corrispondendo a comportamento cautelare lecito affidarsi al carattere docile e alle capacità natatorie della giovanissima vittima, proprio tenendo conto dei limiti derivanti dalla giovane età del soggetto garantito.
Condivisibilmente, infine, la Corte di Brescia ha affermato che ove la F. non si fosse allontanata e fosse stata attenta della vigilanza, se non avrebbe potuto prevenire l’insorgere del malore che colse il bambino, certamente ne avrebbe scongiurato la morte per le conseguenze dell’annegamento, immediatamente soccorrendolo.
Invero, come risulta dagli accertamenti tecnici, si trattò di una “morte in acqua”, causata da un malore (presumibilmente una sindrome vagale), non preceduta da annegamento per incapacità natatoria, ai quale seguì il rapido meccanismo di devastazione chimica delle cellule, procurato dall’anossia. Evento, quest’ultimo, che, come riportato dal tecnico di settore, sarebbe stato evitato ove si fosse avuto intervento di soccorso tempestivo, sempre salvifico nei primi tre/quattro minuti (in acqua dolce, ove non si ha l’effetto di rallentamento dell’acidosi cellulare, sopravvenuta all’arresto cardiaco, dell’acqua salata).
9. Non sortiscono il risultato sperato neppure gli argomenti esposti dalla L.
In ordine alla protesa non prevedibilità dell’evento basti richiamare quanto immediatamente sopra esposto e alle esatte osservazioni della Corte territoriale (pag. 15), la quale ha chiarito che il compito dell’assistente è proprio quello di scongiurare sul nascere situazioni di pericolo, non solo ove le stesse appaiano macroscopicamente percepibili (come nel caso di colui che vistosamente si dimena non sapendo nuotare), ma soprattutto nelle ipotesi in cui il bagnante, vittima di una un malore, manifestatosi in forma subdola, si abbandoni, inerte e silente, sull’acqua.
Nonostante li tentativo d’insinuare perplessità sul punto, emerge nitidamente dalle risultanze istruttorie, riprese dalla sentenza di primo grado (non v’è dubbio che le argomentazioni del Tribunale, note alla Corte d’appello e all’imputato, coerenti con il percorso logico del secondo giudice, integrino la motivazione di quest’ultimo – cfr. a riguardo della motivazione per relationem, Sez. II, 17/2/2009, n. 11077 -), che il bambino, il quale non presentava patologie o anomalie significative (l’escoriazione a uno degli arti inferiori era dovuto all’avvio di fenomeno putrefattivo post mortem), morì a causa dei gravi danni cerebrali procuratigli dall’anossia asfittica e, quindi, in definitiva, a causa del bagno in piscina (per un caso in cui si è ritenuta analoga causalità tanatologica, cfr. Cass. Sez. IV, n. 4462/06 del 14/12/2005).
Il compito dell’imputata non era affatto inesigibile: era emerso; già dalla sentenza del Tribunale, richiamata dalla Corte territoriale, che, al contrario dell’asserto difensivo, pur non negata l’onerosità del compito (e di ciò i giudici del merito terranno conto nel determinare il trattamento penale), la L. posizionandosi adeguatamente, era in condizione di avere una buona visuale di tutta l’area sottoposta alla sua vigilanza, peraltro, in quel momento scarsamente frequentata; ciò esattamente al contrario del caso sottoposto al vaglio di questa Corte (Cass., Sez. IV, n. 38024 del 15/6/2012), impropriamente richiamato dalla predetta imputata.
10. All’epilogo consegue la condanna delle ricorrenti alle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Redazione