Reato di sercizio abusivo della professione per il socio che esercita senza titolo (Cass. pen. n. 9725/2013)

Redazione 28/02/13
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RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Firenze confermava la pronuncia di primo grado del 28/09/2010 con la quale il Tribunale della stessa città aveva condannato S. T. alla pena di giustizia, condizionalmente sospesa, in relazione al reato di cui all’art. 348 cod. pen., per
avere, in Montelupo Fiorentino fino al 27/11/2003, quale titolare del Centro (omissis) s.a.s., esercitato la professione di consulente del lavoro senza essere Iscritta nel relativo albo professionale ovvero senza aver conseguito la relativa abilitazione professionale, in particolare provvedendo a compilare le buste paga dei dipendenti di ventisette aziende.
Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali avessero provato con certezza la colpevolezza dell’imputata in ordine al reato ascrittole, essendo irrilevante che la s.a.s., di cui ella socio accomandatario titolare del 99% di quote, fosse partecipata all’1% da un’associazione artigiana, la A., asseritamente abilitata per legge a curare gli adempimenti previdenziali dei lavoratori subordinati.
2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso S. T., con atto sottoscritto dal suo difensore avv. *****************, la quale ha denunciato la carenza di motivazione, per avere la Corte territoriale omesso di pronunziarsi sullo specifico motivo di doglianza formulato con l’atto di appello circa l’assenza dell’essenziale elemento costitutivo del reato contestato, e, in ogni caso, la violazione dl legge, per non avere tenuto conto che la disciplina in materia abilitava la A. a svolgere quella attività, associazione di categoria rispetto alla quale la società della T. altro non era se non una “articolazione”.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile, perché manifestamente infondati i relativi motivi.
2. I giudici di merito, con motivazione completa e priva di vizi di manifesta illogicità, hanno congruamente spiegato come non potesse “scriminare” ovvero altrimenti rendere penalmente irrilevante la condotta posta in essere dalla imputata T. la circostanza che la stessa svolgesse quella attività professionale — riservata, per legge, ai consulenti del lavoro, senza averne conseguito l’abilitazione — quale socia accomandataria di una società in accomandita semplice partecipata, nella veste di accomandante, da una associazione di categoria abilitata per legge alla cura degli adempimenti previdenziali relativi ai lavoratori subordinati delle ditte associate.
E’ vero che l’art. 1 comma 4 della legge n. 12 del 1979, contenente le norme per l’ordinamento della professione di consulente del lavoro, prevede che le imprese considerate artigiane al sensi della legge n. 860 del 1956, nonché le
altre piccole imprese, anche in forma cooperativa, possono affidare l’esecuzione degli adempimenti in materia dl lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti a servizi istituiti dalle rispettive associazioni di categoria, ma deve escludersi che le medesime attività possano essere da tali associazioni di categoria “delegate”, in qualsiasi maniera, a terzi, pena l’aggiramento delle suddette norme stabilite a tutela dell’interesse a che ai cittadini possano essere garantite determinate prestazioni professionali solo da soggetti che hanno un minimo di standard di qualificazione.
Né conduce ad una differente conclusione il fatto che il predetto art. 1 comma 4 preveda che le citate associazioni di categoria possano e non debbano affidare quei servizi anche a consulenti del lavoro, in quanto condizione indefettibile per la operatività di tale disposizione è che gli adempimenti lavori stivi, previdenziali e assistenziali dei lavoratori delle imprese associate, siano in ogni caso curati da dipendenti dell’associazione di categoria: situazione evidentemente diversa da quella oggi in esame nella quale – come correttamente messo in risalto dalla Corte distrettuale – l’associazione di categoria era socio accomandante, per giunta con un percentuale di partecipazione dell’1%, di una società facente capo esclusivamente all’imputata T. accomandaria con una partecipazione al 99%, cui era direttamente riferibile la gestione di quei servizi il cui esercizio è riservato per legge a specifiche categorie professionali.
Deve, dunque, affermarsi il principio di diritto per il quale “sussistono gli estremi del reato di esercizio abusivo di una professione laddove la gestione dei servizi e degli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale
venga curata, non da dipendenti di un’associazione di categoria, cui l’art. 1 comma 4 della legge n. 12 del 1979 (contenente le Norme per l’ordinamento della professione del lavoro) eccezionalmente riconosce la possibilità di quella gestione, ma da un soggetto privo del titolo di consulente del lavoro, ovvero non iscritto al relativo albo professionale, che sia socio di una società solo partecipata da una di quelle associazioni di categorie”.
3. Il reato si è formalmente prescritto, essendo decorso il termine massimo di sette anni e mezzo, ma alla dichiarazione di estinzione è di ostacolo l’accertata inammissibilità del gravame.
Sul punto questo Collegio non ha motivo per disattendere il consolidato principio di diritto secondo il quale l’inammissibilità del ricorso per cassazione, non consentendo il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione (così, da ultimo, Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, *******, Rv. 231164; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, *******, RV. 217266).
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del presente procedimento ed a quello in favore della Cassa delle ammende di una somma, che si stima equo fissare nell’importo indicato nel dispositivo che segue.

 

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 21/02/2013

Redazione