Reato di ricettazione (Cass. pen., n. 43105/2013)

Redazione 21/10/13
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Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza in data 4 aprile 2008 dal Tribunale di Locri, sezione distaccata di Siderno, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato W.C. in ordine al reato di commercio di prodotti falsi (ex art. 474 c.p.) di cui al capo B dell’imputazione (relativo alla detenzione e all’esposizione in pubblico per la vendita di prodotti industriali con marchi e segni distintivi contraffatti) per essersi lo stesso estinto per prescrizione; ha confermato la condanna con riferimento al reato di cui al capo A per il delitto di ricettazione (per aver acquistato o comunque ricevuto, al fine di procurarsi un profitto, i predetti beni); ha conseguentemente rideterminando la pena.

2. Ricorre, assistito dal difensore, l’imputato contestando erronea applicazione dell’articolo 648 del codice penale e vizio di motivazione per avere la Corte di appello ritenuto la penale responsabilità dell’imputato a titolo di ricettazione per essere i beni ricevuti di provenienza illecita. Se infatti, argomenta la difesa, come pacificamente emerso nella istruttoria dibattimentale, i beni in questione (penne ed orologi), recanti marchi contraffatti, erano difformi dai prodotti commercializzati dalle imprese offesa dal reato (e infatti tali beni non erano presenti nei relativi cataloghi), evidentemente si tratterebbe di imitazioni grossolane come tali inidonee a ingenerare inganno nell’utente finale.

3. Con un secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per avere la Corte territoriale affermato la responsabilità dell’imputato a titolo di ricettazione senza considerare come in tal modo sia stato ritenuto penalmente rilevante un mero antefatto non punibile del reato di cui all’art. 474 c.p.;

infatti, per l’integrazione di tale reato, concernente la detenzione per la vendita di prodotti contraffatti, è sufficiente che il soggetto sia entrato in possesso della merce contrassegnata, per porla successivamente in vendita. Cosicchè, la ricezione della merce, non potrebbe mai integrare il diverso delitto di ricettazione.

A tal riguardo, nel ricorso si contesta espressamente il contrario indirizzo sul punto di questa Corte di legittimità, ritenendolo viziato da artifici interpretativi, determinato da problematiche di politica sociale ma comunque in urto con il diritto positivo e anche con il buon senso giuridico (cfr. ultimo foglio del ricorso).

Motivi della decisione

1. Il ricorso è manifestamente infondato.

Con riguardo alla prima doglianza, relativa alla grossolanità della falsificazione dei prodotti, è sufficiente richiamare la pronuncia di questa sezione del 12 gennaio 2012 n. 15080, che peraltro si limita ad esplicitare ulteriormente un radicato indirizzo giurisprudenziale volto a definire l’ambito di responsabilità per il delitto di cui all’art. 474 c.p., individuando il bene giuridico tutelato dalla norma nel pericolo di inganno del consumatore: “Come già affermato in Cass. Sez. 5, 9.1.2009 n. 14876, va qui ribadito che l’apposizione della dicitura “falsi d’Autore” su prodotti industriali recanti marchi contraffatti non esclude l’integrazione del reato di cui all’art. 474 c.p. (Cass. pen., sez. 5, 25.9.2008, n. 40556, con riferimento anche all’apposizione della diversa dicitura “fac simile”); infatti il reato in esame configura una fattispecie di pericolo contro la fede pubblica (v. Cass. 19.6.2007 n. 31482Cass., 4 ottobre 2007, n. 40874 e più recentemente: Cass. 17.4.2008 n. 33324) per la cui integrazione è sufficiente anche la sola attitudine della falsificazione ad ingenerare confusione, con riferimento non solo al momento dell’acquisto, ma anche a quello della successiva utilizzazione del prodotto contraddistinto dal marchio contraffatto (Cass. pen., sez. 5, 1.7.2009, n. 40170). Di qui consegue anche che non può parlarsi di reato impossibile là dove la contraffazione sia grossolana o anche ove le condizioni di vendita – per il prezzo praticato, il luogo di esposizione, le caratteristiche personali del venditore – siano tali da escludere la possibilità ragionevole che i clienti vengano tratti in inganno (Cass. pen., sez. 2, 17.6.2005 *************)”.

Per queste ragioni, deve ritenersi integrata la fattispecie descritta dall’art. 474 del codice penale; e, pertanto, deve ritenersi così integrato anche il presupposto per la contestazione della ricezione di tale bene di provenienza illecita (perchè delittuosa) a titolo di ricettazione.

Nemmeno può trascurarsi che la Corte di appello, con valutazione di merito insindacabile in questa sede, ha osservato come le penne e gli orologi contraffatti riproducessero piuttosto fedelmente i corrispondenti modelli originali e che soltanto ad una attenta analisi, soprattutto per i materiali utilizzati, persone esperte avrebbero potuto rilevare che si trattava effettivamente di merce contraffatta; cosicchè doveva ritenersi effettivo il pericolo di inganno; e la condotta delittuosa, ex art. 474 c.p., doveva ritenersi comunque assolutamente integrata. Ne discende l’infondatezza del motivo sollevato, volto a dimostrare la liceità della condotta invece correttamente definita dai giudici di merito come di contraffazione, la quale funge da presupposto di fattispecie per l’accusa di ricettazione quale delitto contestato all’odierno imputato.

Con riguardo alla seconda doglianza, va ribadito che per costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità il delitto di ricettazione è configurabile anche nell’ipotesi di acquisto o ricezione, al fine di profitto, di cose con segni contraffatti nella consapevolezza dell’avvenuta contraffazione, atteso che la cosa nella quale il falso segno è impresso – e che con questo viene a costituire un’unica entità – è provento della condotta delittuosa di falsificazione prevista e punita dall’art. 473 c.p. (Cass. sez. 2^, 3.10.2012, n. 42934).

La questione fu risolta non pochi anni fa dalle sezioni unite di questa Corte, con sent. 9.1.2001, n. 23427. A fronte delle critiche sinteticamente sollevate nel ricorso, conviene riportare per esteso la motivazione di seguito sempre condivisa nelle pronuncia di questa Corte:

“Il quesito per il quale il gravame è stato rimesso alle Sezioni Unite concerne dunque la possibilità o meno di concorso tra il reato di ricettazione e quello di commercio di prodotti con segni falsi, previsti rispettivamente dagli artt. 648 e 474 c.p. (…) Queste Sezioni osservano. Innanzitutto occorre affrontare il problema – che si colloca su di un piano ben distinto da quello del concorso, apparente o reale, degli artt. 474 e 648 c.p. – circa la ipotizzabilità della ricettazione qualora la ricezione abbia ad oggetto cose con marchi o segni contraffatti: se la risposta dovesse essere negativa è chiaro che non si porrebbe più questione di concorso, derivando l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 648 c.p., dalla circostanza che essa non qualifica il citato contesto e non già dall’essere questo incriminato da entrambe le norme. In realtà una siffatta conclusione va respinta.

Il legislatore, nel sanzionare ex art. 648 c.p., l’acquisto o la ricezione di cose “provenienti da qualsiasi delitto” ovvero l’intromissione in simili attività, ha inteso colpire ogni acquisizione patrimoniale consapevolmente ottenuta o procurata in virtù di beni aventi origine delittuosa; in codesta visione e considerato altresì il fine di profitto nel quale si concreta il richiesto dolo specifico (“fine di procurare a se o ad altri un profitto”), trova spiegazione l’inserimento della figura tra i reati contro il patrimonio, dovendosi al contempo riconoscere che la condotta tipica è idonea a rafforzare l’offesa arrecata con il fatto criminoso presupposto.

Quest’ultimo, peraltro, può essere di qualsiasi natura e non necessariamente contro il patrimonio: il che è confermato dal termine “qualsiasi” e corrisponde alla illustrata ratio dell’incriminazione; del resto la giurisprudenza di legittimità si è ripetutamente pronunciata in tal senso, ravvisando la ricettazione con riguardo a pistola con matricola abrasa, a opere cinematografiche e musicassette abusivamente riprodotte, a assegni turistici falsi, a sigilli contraffatti, a moduli falsificati di identità (Cass. 30-11- 83 n. 10251; Cass. 6-5-93 n. 04625 RV. 194158; Cass. 12-1-94 n. 00148 RV: 197027; Cass. 29-12-95 n. 12788 RV. 203148; Cass. 16-4-97 n. 03527 RV. 207227; Cass. 15-5-97 n. 02667 RV. 207833).

Tanto premesso, onde individuare l’esatta area di operatività dell’art. 648 c.p., deve stabilirsi la portata dell’espressione “cose provenienti da reato”.

La stessa si palesa ampia nè sussiste ragione alcuna, sotto il profilo letterale ovvero dal punto di vista logico, per interpretarla siccome limitata a quanto costituisce “il profitto” del reato e non invece quale volta a comprendere in sè anche “il prodotto”, puntualizzandosi che “proviene” da reato ciò che col reato è creato.

Orbene, è indubbio che l’apposizione di un segno contraffatto su un bene (fattispecie delittuosa ai sensi dell’art. 473 c.p.) funga da fonte rispetto alla cosa così realizzata nella quale il segno si fonde: ne deriva che acquisizione del tutto, con la consapevolezza della sua contraffazione, integra una condotta rilevante ai sensi della suddetta previsione.

La tesi contraria è priva di aderenza al dato normativo, testualmente e razionalmente inteso; in particolare non può sostenersi che attraverso l’acquisto della cosa avente il segno contraffatto non si arrechi offesa al diritto del titolare dell’esclusiva ed alla correttezza del mercato. Così ragionando si confonde l’oggettività giuridica del reato di ricettazione con quella del delitto presupposto di cui all’art. 473 c.p., mentre in realtà è innegabile che un acquisto del genere realizzi l’offesa tipica del primo: basti osservare che gli acquirenti o più in generale i destinatari ricevono la cosa con un attributo che essa non potrebbe avere, il quale viene valutato dal mercato in termini positivi ed è conseguente alla ingerenza indebita nell’altrui creazione e diritto di esclusiva.

Riconosciuto dunque che l’apprensione di entità con segni o marchi falsificati è in astratto riconducibile alla ricettazione, può passarsi all’esame dell’ulteriore questione.

Sussiste concorso fittizio di nome qualora una pluralità di disposizioni sia apparentemente applicabile nei confronti di un determinata condotta, mentre in effetti una sola di esse può operare perchè altrimenti verrebbe addebitato più volte un accadimento unitariamente valutato dal punto di vista normativo, in contrasto col principio del ne bis in idem sostanziale posto a fondamento degli artt. 15, 68 e 84 c.p.. Una tale convergenza ricorre in primis quando, ai sensi dell’art. 15 c.p., due norme regolino “la stessa materia”, ossia qualifichino una identico contesto fattuale nel senso che una delle suddette comprenda in sè gli elementi dell’altra oltre ad uno o più dati specializzanti: in questo caso dovrà prevalere, salvo che sia altrimenti stabilito, la previsione speciale ossia quella che descrive la situazione con maggiori particolari.

Poichè il citato criterio presuppone una relazione logico- strutturale tra norme ne deriva che la locuzione “stessa materia” va intesa come fattispecie astratta – ossia come settore, aspetto dell’attività umana che la legge interviene a disciplinare – e non quale episodio in concreto verificatosi sussumibile in più norme, indipendentemente da un astratto rapporto di genere a specie tra queste.

In base a quanto sopra è da escludersi che gli artt. 648 e 474 c.p., attribuiscano rilevanza penale alla stessa materia. All’uopo il richiamo alla natura del bene protetto – effettuato, con divergente valutazione, sia dalle sentenze che affermano una situazione di specialità sia da quelle che la negano – non pare decisivo.

E’ pur vero che vari precedenti di queste Sezioni, ai fini della nozione che qui interessa, si sono riportati a detto dato: esso, in ogni caso, non è stato preso in considerazione quale unico fattore, ma unitamente agli aspetti comportamentali, oggettivi e soggettivi, della fattispecie. (Cass. S.U. 30-4-76 n. 00010 imp. Canidu RV. 13365; Cass. S.U. 7-7-81 n. 06713 imp. Santamaria RV. 149667; Cass. S.U.19-1-82 n. 00420 imp. ***********. 151618; Cass. S.U. 8-1-98 n. 00119 imp. **********. 20912. Il concetto de quo in Cass. S.U. 13-9- 95 n. 09568 imp. La ********. 202011 è stato utilizzato per così dire ad abundatiam, essendosi escluso un concorso fittizio tramite il rilievo espressamente definito “risolutivo” della diversa natura, penale e procedimentale, delle norme esaminate: art. 218 C.d.S. comma 6, e art. 108 disp. att. c.p.p.).

D’altro canto è da ricordare che recentemente queste Sezioni hanno chiaramente sottolineato, in tema di individuazione di continuità normativa o meno tra reati, la necessità di accertare ed identificare, secondo le regole proprie del concorso apparente di norme, gli elementi strutturali delle ipotesi tipiche, con riguardo alla natura ed modalità dei comportamenti nonchè ai caratteri del dolo (Cass. S.U. 7-11-00 n. 00027 imp. Di ********. 217031; Cass. S.U. 15-1-00 n.00035 imp. *********. 217374). Nè va sottaciuto che il riferimento alla identità o diversità dei beni tutelati può dare adito a dubbi nel caso di reati plurioffensivi; a ciò aggiungasi che le parole “stessa materia” sembrano utilizzate in luogo di “stessa fattispecie” o “stesso “fatto”, per comprendere nel dettato dell’art. 15 c.p.p., anche il concorso di norme non incriminatrici che altrimenti resterebbe escluso.

Tornando ai rapporti tra l’art. 648 c.p., e l’art. 474 c.p., si rileva: nella ricettazione viene incriminato l’acquisto e più in generale la ricezione (ovvero l’intromissione in tali attività) di cose provenienti da reato; l’art. 474 c.p. sanziona invece la detenzione per la vendita o comunque la messa in circolazione di beni con marchi o segni contraffatti e non contempla il momento dell’acquisto; l’azione raffigurata nella prima norma è istantanea, mentre la detenzione a fini di vendita è permanente ed interviene successivamente.

Dal raffronto che si è operato emerge dunque che le condotte delineate sono ontologicamente nonchè strutturalmente diverse e che esse non sono neppure contestuali, essendo ipotizzabile una soluzione di continuità anche rilevante; nè varrebbe assumere che l’una presuppone l’altra: infatti, se la detenzione implica per sua natura un’apprensione, questa non integra sempre la ricettazione, ben potendosi verificare un acquisto senza la consapevolezza del carattere contraffatto dei segni (elemento essenziale della ricettazione), con posticipata presa di conoscenza e deliberazione di porre in circolazione i relativi prodotti. In tal caso la ricettazione non sarà addebitabile, non certo perchè vi sia concorso apparente di norme, bensì perchè gli estremi della medesima non risultano realizzati; di converso potrebbe accadere che la ricezione del bene con marchio contraffatto integri detto reato, ma non si addivenga all’altro ed allora è ovvio che si risponderà solo di ricettazione.

Sintomatica è la circostanza che l’art. 455 c.p. – in tema di messa in circolazione e spendita di monete falsificate – abbia inserito l’acquisto tra i comportamenti incriminati, così atteggiandosi, stante la peculiarità dei beni ricevuti, quale disposizione speciale rispetto all’art. 648 c.p.: l’assenza di una analogo elenco nell’art. 474 c.p., indica la inapplicabilità dell’art. 15 c.p.p..

Rimane da verificare se, al di là del principio di specialità, il concorso materiale dei reati per cui si discute debba essere escluso alla luce di una diversamente manifestata volontà normativa di valutare in termini di unitarietà le pur disomogenee fattispecie.

L’esito è negativo.

Non esiste al proposito clausola di riserva, essendo quella di cui all’art. 474 c.p., limitata al concorso nel reato di cui all’art. 473 c.p.; nè potrebbe invocarsi il criterio della consunzione e precipuamente ipotesi di “ante factum” non punibile affermandosi che la detenzione a fini di vendita – se non necessariamente, quantomeno secondo l’id quod plerumque accidit – passa attraverso una ricettazione per cui il legislatore si sarebbe rappresentato una tale evenienza con previsione globale sotto il profilo sanzionatorio.

Una siffatta operazione interpretativa di giudizi di valore, onde evitare che venga pregiudicata la fondamentale esigenza di determinatezza in campo penale, postula che la considerazione abbinata delle vicende tipiche sia resa oggettivamente evidente e detta risultanza non può che essere individuata nella maggiore significatività della sanzione inflitta per il reato consumante o assorbente; quando invece sia più grave la pena sancita per quello che andrebbe assorbito, la consunzione va negata, dovendosi ravvisare un intento di consentire, attraverso una effettivo autonomo apprezzamento del disvalore delle ipotesi criminose, il regime del concorso dei reati. Invero, l’avere sottoposto a più benevolo trattamento il fatto/reato che potrebbe per la sua struttura essere assorbente, sta a dimostrare che della fattispecie eventualmente assorbibile non si è tenuto conto: pertanto la norma che la punisce è applicabile in concorso con l’altra, senza incorrere in duplicità di addebito.

Nel presente caso, poichè la ricettazione è punita più gravemente rispetto al commercio di prodotti con segni contraffatti, non ricorrono gli estremi per l’assorbimento del primo delitto nel secondo. Concludendo si enunciano i seguenti principi:

La ricettazione è configurabile con riguardo a condotta che abbia ad oggetto beni con segni o marchi falsi.

Il reato di ricettazione dei suddetti beni può concorrere con quello di commercio dei medesimi”.

Di tale articolata motivazione, posta alla base di un indirizzo di legittimità decisamente consolidato, nel ricorso non si tiene alcun conto, limitandosi la difesa in primo luogo a richiamare sinteticamente argomenti già superati nella pronuncia in oggetto senza addurre, a sostegno, ragioni per una rivisitazione delle conclusioni medesime da parte di questa Corte; e limitandosi, in secondo luogo, ad esprimere congetture su supposte ragioni metagiuridiche che l’avrebbero determinato, e a biasimare tanto duramente quanto apoditticamente la Corte per l’assunta violazione del “buon senso giuridico”.

2. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso e, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00, in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2013.

Redazione