Reato di peculato per il commissario liquidatore che falsifica l’estratto conto bancario della società appropriandosi dei soldi (Cass. pen. n. 41520/2012)

Redazione 24/10/12
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Cass. pen., sez. VI, 24 ottobre 2012, n. 41520 – pres. FATTO E DIRITTO

Con sentenza in data 17/2/09 il Tribunale di Milano Z. L. era condannato alla pena di anni nove di reclusione oltre al risarcimento in solido con il Ministero dello Sviluppo Economico, responsabile civile, al risarcimento dei danni sofferti dalle parti civili costituite, siccome colpevole di concorso in peculato continuato e aggravato ex artt. 81-110-314-61 n.7 cp. (capo A), nonché di concorso in falsità in scrittura privata aggravata ex artt. 110-61 n. 2 e n. 7-485 cp.(capo B), perché nella sua qualità di pubblico ufficiale, derivante dall’incarico di commissario liquidatore di varie procedure fallimentari, riguardanti imprese esercenti attività di intermediazione finanziarie, si appropriava di rilevanti somme di danaro, di cui aveva la disponibilità in ragione del proprio ufficio, nonché di avere falsificato l’estratto conto della Banca al fine di compiere il reato di peculato.
A seguito di gravame dell’imputato e del Ministero anzidetto, la Corte di Appello di Milano con sentenza in data 23/3/2011 in parziale riforma della sentenza impugnata dichiarava n.d.p. in ordine ai fatti anteriori al 23/9/1998 perchè estinti per prescrizione, rideterminava la pena per i residui fatti in anni otto di reclusione, confermando le statuizioni civili anche per quelli dichiarati prescritti.
Contro tale decisione ricorrono l’imputato e il Ministero dello Sviluppo Economico, responsabile civile.
L’imputato a mezzo dei suoi difensori articola tre motivi.
Con il primo motivo denuncia la mancata applicazione dell’indulto ex lege 241/2006 nella massima estensione, del tutto ignorata dal giudice del gravame, nonostante la specifica richiesta in sede di discussione; con il secondo motivo denuncia il vizio di motivazione in riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, nonostante la prospettazione degli elementi che ne giustificavano la concessione; con il terzo motivo denuncia il medesimo vizio di motivazione in riferimento alla entità della pena, alla scelta del reato ritenuto più grave e alla misura dell’aumento per la continuazione, effettuate senza tener conto dell’ammontare delle somme e del numero dei fatti caduti in prescrizione.
Con la memoria difensiva depositata in data 24/9/2012 insiste nella richiesta di applicazione dell’indulto nonchè in quella di rideterminazione della pena, eccependo la prescrizione del reato più grave contestato al capo A).
Più articolato il ricorso del Ministero, che pone vari motivi a sostegno della richiesta di annullamento delle statuizioni civili e di sospensione dell’esecuzione delle relative condanne.
Con il primo motivo denuncia l’erronea applicazione degli artt. 100 e 122 cpp in riferimento alla citazione del responsabile civile da parte di tutte le parti civili, assistite dall’avv. Dondè per difetto di procura speciale in capo al difensore e la illogicità della motivazione, che l’aveva ritenuta esistente.
Con il secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 83 cpp., sostenendo che la citazione del responsabile civile da parte di alcuni avvocati era inammissibile, siccome tardiva, essendosi essi erroneamente avvalsi della proroga del termine, concesso solo ad altri legali.
Con il terzo motivo deduce l’erronea applicazione dell’art. 74 cpp., sostenendo che il danno cagionato dall’imputato era stato causato alle società, di cui era commissario liquidatore, onde i singoli privati avevano azione diretta verso le società e non verso lo Z.
Con il quarto motivo eccepisce l’erronea applicazione dell’art. 185 cp. e sostiene che nel caso in esame mancavano i presupposti legittimanti la qualifica di responsabile civile in capo al Ministero, non sussistendo alcuna norma civile, che prevedesse una responsabilità dell’Amministrazione per il reato
di peculato o per il falso commesso dal commissario liquidatore, definito dall’art. 199/1 legge fallimentare come pubblico ufficiale, che svolge funzioni in autonomia e al di fuori di un rapporto di impiego con la Pubblica Amministrazione, ipotesi nelle quali quest’ultima era da considerarsi addirittura parte offesa.
Con il quinto motivo rileva l’erronea applicazione dell’art. 204 legge fallimentare e dell’art. 185 cp. ed osserva che il Ministero non aveva alcun obbligo di vigilanza in ordine all’attività svolta dal commissario liquidatore, che benché nominato dal Ministero non poteva considerarsi inserito nella sua organizzazione funzionale, siccome titolare di ampi poteri discrezionali, che lo distinguevano dall’Autorità che lo aveva nominato. L’errore dei giudici del merito era consistito nell’avere ipotizzato in aggiunta ad un inesistente nesso di immedesimazione organica, anche una sorta di titolo autonomo per la chiamata del Ministero quale responsabile civile, consistente in una presunta omessa vigilanza da esercitare ai sensi della cit.norma ex art. 204.
Con il sesto motivo denunzia il vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta omessa vigilanza sull’attività del commissario, esplicatasi attraverso la mancata scelta di nominare tre liquidatori, anzichè di uno solo ai sensi dell’art.l98 legge fallimentare, alla negligenza nella verifica della capacità professionale dell’imputato, della sua posizione finanziaria e sui suoi precedenti penali e si sofferma sui motivi, per i quali tali presunte omissioni non qualificavano il Ministero quale responsabile civile per i fatti commessi dal commissario liquidatore.
Evidenzia infine con il sesto e ultimo motivo l’enorme pregiudizio, cui andrebbe incontro il ricorrente Ministero delle Attività Produttive in caso di riforma della sentenza di merito per il recupero delle somme, liquidate in via provvisionale,tenuto conto dell’importo delle stesse e del numero dei
beneficiari, e chiede la sospensione dell’esecuzione della condanna civile ai sensi dell’art. 612 cpp, in una con
l’annullamento delle statuizioni di condanna a carico dell’Amministrazione.
Dal canto loro le parti civili costituite tramite i propri difensori hanno fatto pervenire in data 20/9/2012 memorie difensive a sostegno della infondatezza di entrambi i ricorsi.
Il ricorso dell’imputato è inammissibile.
Quanto alla doglianza sull’omessa applicazione del condono, spetterà al Giudice dell’Esecuzione ogni determinazione al riguardo. Le altre doglianze non indicano in maniera specifica vizi di legittimità o profili di manifesta illogicità della motivazione della decisione impugnata, ma mirano sostanzialmente a sollecitare un nuovo e diverso apprezzamento di merito in ordine alla congruità della pena inflitta e al diniego delle circostanze attenuanti generiche, che il giudice del gravame ha adeguatamente giustificato con argomenti immuni da vizi logici o interne contraddizioni e come tali incensurabili in questa sede.
Quanto infine alla censura sulla prescrizione del reato base ritenuto più grave, la inammissibilità delle precedenti censure rendono il ricorso soltanto apparente e quindi inidoneo a instaurare un valido rapporto di impugnazione e a valutare l’eccezione esplicitata per la prima volta nella memoria difensiva (Cass. Sez. Un. 27/6-11/9/2001 n. 33542 Rv. 219531).
Fondata è la censura di cui al quarto motivo del ricorso del Ministero dello Sviluppo Economico, in essa assorbite tutte le altre censure.
Ed invero la chiave di lettura della questione sottoposta all’esame di questa Corte va individuata nella definizione del commissario liquidatore e nell’analisi dei suoi poteri e della sua funzione.
La legge fallimentare (artt. 199 e 204) qualifica il commissario liquidatore, quale organo centrale del procedimento di liquidazione coatta amministrativa, come pubblico ufficiale, investito di una funzione pubblica che esercita con autonomia e discrezionalità per tutelare sia gli interessi pubblici verso cui è indirizzata l’attività dell’ente, sia i diritti dei creditori.
Egli ha tutti i poteri necessari per la liquidazione dei beni: provvede a tutte le operazioni strumentali alla liquidazione, sceglie le banche, che ritiene più vantaggiose, preleva danaro dai conti correnti, agisce in giudizio contro gli amministratori, tutto ciò al di fuori di un rapporto di impiego con la Pubblica Amministrazione e senza vincoli di poteri gerarchici o di ordini rispetto all’amministrazione che l’ha nominato.
E’ evidente quindi il duplice errore, in cui incorrono i giudici di merito.
Un primo errore è rilevabile quando affermano che il commissario liquidatore viene a trovarsi in rapporto di dipendenza con il Ministero ovvero in un rapporto assimilabile a quello organico con la Pubblica Amministrazione. Al contrario, ancorchè nominato dal Ministero, è un soggetto formalmente e sostanzialmente distinto da esso, nessuna disposizione normativa prevedendo un suo inserimento nell’organizzazione funzionale di detto Dicastero. L’art. 204 della legge fallimentare, sul quale ha fatto perno la corte di merito, fa riferimento a un potere direttivo dell’autorità, di carattere del tutto generico, tanto più che è la stessa norma invocata a contemplare un obbligo di controllo in capo al comitato di sorveglianza, composto “possibilmente tra i creditori” ai sensi dell’art. 198 legge cit., cui è estraneo il Ministero.
Quindi non sussiste alcun rapporto organico tra il commissario liquidatore e la P.A., senza poi contare che deve rimanere fermo il costante insegnamento della giurisprudenza, per cui ogni rapporto organico – ancorché sussistente – si interrompe quando a il fatto doloso del soggetto che quell’organo impersona.
Un secondo errore commettono o giudici del merito, quando, per giustificare la chiamata in causa del Ministero, configurano una responsabilità per fatto proprio, evocando a carico del medesimo culpa in eligendo ed in vigilando. Tale inquadramento si pone però in radicale contrasto con l’art. 185 cp. e con l’art. 83 cpp., che delineano la figura del responsabile civile. Come correttamente posto in luce dal ricorrente Ministero, la legittimazione passiva del responsabile civile in tanto sussiste in quanto nel processo penale sia imputato un soggetto, del cui operato lo stesso debba rispondere in base alla legge civile; ne discende al contrario che non può assumere la veste di responsabile civile il soggetto, che eventualmente versando in colpa, debba rispondere per fatto proprio, cioè a dire colui che abbia un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dalla parte civile, diverso da quello dell’imputato. Ma nel caso in esame, come si è dimostrato con le considerazioni in precedenza svolte, non sussiste alcun rapporto di dipendenza o di immedesimazione organica con l’apparato ministeriale in capo del commissario liquidatore, onde deve escludersi una responsabilità ex art.2049 c.c. azionabile in sede penale con la chiamata in causa del responsabile civile. E se per ipotesi si volesse ravvisare una responsabilità di tipo aquiliana ex art.2043 c.c. a carico del Ministero, essa dovrà essere valutata in sede civile e non in questa sede.
Siffatto principio, pacifico e condiviso da questa Corte, si rinviene in numerose pronunce, anche riguardo a situazioni in qualche modo assimilabile a quella in esame (da ult. Cass. Sez. IV 1/2-19/3/20l2 n. 10701 Rv. 252674; 27/5-25/10/2011 n. 38704 Rv. 251098).
La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata senza rinvio limitatamente alla condanna al risarcimento del danno nei confronti del Ministero dello Sviluppo Economico, quale responsabile civile.
Va poi dichiarato inammissibile il ricorso dello Z., che va pertanto condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della cassa delle ammende della somma, ritenuta di giustizia ex art. 616 cpp, di € 1.000,00.
Va poi il ricorrente condannato al pagamento delle spese di costituzione e rappresentanza delle parti civili, che si liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti del Ministero dello Sviluppo Economico.
Dichiara inammissibile il ricorso dello Z. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, nonchè a rifondere le spese sostenute dalle parti civili costituite attraverso gli avv.ti ***********è, *****************, **********************, **************, che liquida in € l.500,00 ciascuna
oltre IVA e CPA.
Così deciso in Roma 27/9/2012

Redazione