Reato di ingiuria per il legale che definisce “inqualificabile” il comportamento del collega (Cass. pen. n. 42954/2012)

Redazione 07/11/12
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Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Teramo, decidendo in grado di appello sulla sentenza emessa dal Giudice di pace della stessa città in data 09/11/2004, confermava detta pronuncia, recante la condanna di An.C. alla pena di € 300,00 di multa per il delitto di ingiurie, nonché al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento del danno subito dalla parte civile costituita, La.G..
Il giudicante disattendeva le doglianze espresse nell’atto di appello, in particolare circa la presunta nullità della sentenza di primo grado, dovuta al mancato accoglimento di un’istanza di rinvio del difensore dell’An., impedito per motivi di salute; condivideva al contrario le argomentazioni esposte nel merito dal Giudice di pace, reputando che nel caso di specie l’espressione utilizzata dall’imputato nella lettera assunta come ingiuriosa (“siamo certi che saprà prendere atto della propria inqualificabile condotta e, pentendosi, restituire quanto di diritto alla mia assistita, e ciò eviterà serie conseguenze al prosieguo della vostra attività professionale”) fosse concretamente idonea a ledere l’onore del La.. In particolare, trattandosi di una controversia fra esercenti la professione forense, con l’An. subentrato alla parte civile nell’assistere un dato cliente (tale Mu.), veniva sottolineato che l’imputato aveva addebitato al La. di non aver restituito un fascicolo di parte, che invece risultava essere già stato consegnato al nuovo difensore.
In punto di computo della prescrizione, la sentenza oggi impugnata dava atto non essersi ancora realizzata la causa estintiva, stante la sospensione dovuta ad una questione di legittimità costituzionale sollevata il 5 aprile 2006 e decisa dal Giudice delle leggi nel dicembre 2008.
2. L’Avv. An., a mezzo del proprio difensore/procuratore speciale, ricorre avverso la sentenza in epigrafe, lamentando violazione dell’art. 178, lett. c), cod. proc. pen. in ordine alla già illustrata questione di nullità, e deducendo comunque carenza di motivazione. Rileva quindi l’intervenuta prescrizione del reato addebitato.
2.1 Con il primo motivo, il ricorrente segnala che il certificato medico a suo tempo depositato (il pomeriggio precedente rispetto all’udienza di cui si sollecitava il rinvio) conteneva l’espressa dicitura, vergata dal medico curante, “deve rimanere a casa”: il fatto che non fosse stato dato atto della sintomatologia nel suo complesso, spiegabile in virtù delle sottese ragioni di riservatezza, non poteva quindi prevalere sulla tassativa prescrizione del sanitario, da cui era doveroso evincere l’impossibilità del difensore dell’An. di allontanarsi dal proprio domicilio.
2.2 Con il secondo motivo, viene rappresentato che i giudici di merito avrebbero travisato le emergenze processuali, atteso che il fatto presupposto alla missiva asseritamente ingiuriosa consisteva nella mancata restituzione non già di un fascicolo di parte, bensì di un atto di appello, indispensabile al successore dell’Avv. La. per provvedere alla difesa del cliente e che certamente, non era stato ancora consegnato. In ogni caso, non sarebbe corretto affermare che l’espressione riportata in rubrica comporti un giudizio denigratorio sull’intera persona della presunta parte offesa, piuttosto che su un singolo comportamento.
2.3 Con il terzo motivo, il ricorrente prospetta nuovamente l’intervenuta prescrizione del reato, che si assume commesso il 20 gennaio 2003, censurando la motivazione della sentenza del Tribunale di Teramo perché non contenente un computo reale dei termini decorsi e del periodo di sospensione.

 

Considerato in diritto

1. Il ricorso deve essere rigettato.
1.1 A proposito del presunto impedimento a presenziare da parte del difensore dell’Avv. An., dall’esame degli atti si evince che il certificato medico fatto pervenire in vista dell’udienza del 09/11/2004, recante la data del giorno precedente, ha il seguente contenuto: “Sindrome da raffreddamento – Necessita di gg. 2 (due) s.c. di riposo e cure – Deve rimanere a casa”.
La patologia consisteva pertanto in un semplice raffreddore, diagnosi che – stante l’assenza di riferimenti a stati di iperpiressia od a qualsivoglia complicanze – si attaglia per dato di comune conoscenza ad una generica indisposizione, con naso chiuso o poco più: il fatto che il medico prescrivesse la permanenza in casa del paziente, dunque, altro non significava se non la normale cautela di riguardarsi, non certo l’assoluto impedimento ad uscire dall’abitazione.
La giurisprudenza di questa Corte, tenendo anche conto dell’intervento delle Sezioni Unite sulla problematica in argomento (sent. n. 36635 del 27/09/2005, *********), ha già avuto modo di affermare che «è legittimo il provvedimento con cui il giudice di merito – investito di una richiesta di rinvio per impedimento dell’imputato a comparire con allegato certificato medico che si limiti ad attestare l’infermità di per sé non invalidante (nella specie, “colica renale”) e la prognosi, senza nulla affermare in ordine alla determinazione dell’impossibilità fisica assoluta di comparire – abbia ritenuto l’insussistenza del dedotto impedimento e dichiarato la contumacia dell’imputato» (Cass., Sez. VI, n. 24398 del 26/02/2008, **********). Nella fattispecie si discute di assai meno di una colica renale, e non è seriamente sostenibile che al difensore fosse precluso di presenziare all’udienza.
1.2 Quanto alla valenza ingiuriosa delle espressioni utilizzate dall’An., va osservato che in effetti il nodo del contendere non riguardava un fascicolo di parte, bensì un atto di appello: l’erroneo punto di partenza da cui muovono le analisi del Giudice di pace e del Tribunale non è tuttavia sufficiente per inficiare la validità delle rispettive argomentazioni.
Infatti, nella stessa missiva del 20/01/2003 che si assume corpo del reato, conseguente ad un pregresso epistolario con cui l’imputato aveva stigmatizzato altre condotte dell’Avv. La. (all’epoca, vi era già stata una prima querela di quest’ultimo), si legge l’espressa e rinnovata richiesta di “restituzione dell’atto di appello da Voi illecitamente trattenuto sin dal 28/01/2002”, e questa doveva appunto intendersi la “inqualificabile condotta” sulla quale la parte civile avrebbe dovuto palesare pentimento.
I fatti presupposti a quella missiva appaiono però illuminanti, come si evince dall’esame degli atti: era stato proprio l’Avv. La., a ben guardare, ad informare il collega di aver ricevuto la notifica di un atto di appello relativamente alla causa Mu.U./(omissis) s.a.s., perciò era evidente che egli non intendesse affatto trattenerlo indebitamente presso di sé. Dalla lettera del 01/02/2002, recante appunto la comunicazione dell’avvenuta – tre giorni prima – notifica dell’impugnazione, risulta che la parte civile significava all’An. di volergli far avere l’atto di appello, ma chiedeva che ciò non avvenisse mediante consegna o spedizione di un plico chiuso, essendo già accaduto che l’odierno imputato lamentasse di avere ricevuto un piego raccomandato non contenente alcunché (cosa che aveva provocato le rimostranze dell’Avv. La., tanto da determinarlo a segnalare all’Avv. An. di non intendere aver più rapporti di sorta con lui). Ergo, si diceva disponibile ad una consegna presso il proprio studio, previo appuntamento telefonico, allo stesso destinatario o direttamente al cliente.
A quel punto, invece di determinarsi – nell’interesse preminente dello stesso assistito, di cui doveva apprestare la difesa – a fare il possibile per ottenere copia dell’atto del quale era stato messo a conoscenza, l’imputato replicava con un fax in pari data, definendo “stravagante” l’iniziativa del collega e diffidandolo a consegnare invece l’atto di appello entro tre giorni, presso di sé od al più presso il Consiglio dell’Ordine e in plico chiuso, previo ammonimento su iniziative “in ogni competente sede, non escludendosi da tal novero quella penale”.
L’Avv. La. replicava a sua volta con missiva del 12/02/2002, invitando il contraddittore a guardarsi dal formulare minacce ed insistendo nelle modalità di consegna già segnalate: escludeva in particolare la praticabilità di consegne in busta chiusa, visti i precedenti, e significava all’imputato (domiciliato nella provincia di Ascoli Piceno) che doveva intendersi indifferente, per lui, recarsi presso lo studio del mittente o presso il Consiglio dell’Ordine, trattandosi in ogni caso di effettuare una trasferta in quel di Teramo.
Seguiva due giorni dopo un telegramma dell’Avv. An., il quale si diceva certo che il comportamento della parte civile fosse dovuto a “banale ignoranza dei propri doveri professionali”, e preannunciava azione penale e disciplinare, con riserva di chiedere il risarcimento dei danni.
Poi, almeno in base al carteggio in atti, null’altro fino alla missiva riportata nel capo d’imputazione. La consegna dell’atto di appello avveniva, finalmente, il 03/02/2003, come da attestazione su una copia a firma di un collaboratore dell’Avv. An..
In definitiva, l’Avv. La. non intese trattenere per forza e sine titulo un atto pertinente alla posizione di un ex assistito: comunicò tempestivamente al nuovo difensore del cliente che vi era stato un atto di appello, e si limitò a segnalare che – avendo l’Avv. An. già protestato che un plico inviatogli consisteva in una busta vuota – intendeva cautelarsi con modalità di consegna che escludessero equivoci siffatti. Non è dunque in alcun modo giustificata la condotta dell’imputato, nel reputare “inqualificabile” (aggettivo che esprime ex se una valenza denigratoria ed altamente negativa) la condotta della parte civile, viepiù se considerata potenzialmente idonea ad incidere – per le iniziative che secondo l’imputato sarebbe stato doveroso intraprendere – sulla futura attività professionale del legale.
1.3 In ordine alla prescrizione, si deve rilevare che i termini massimi di 7 anni e 6 mesi sarebbero venuti a scadere il 20/07/2010, tenendo conto della data del commesso reato; debbono però sommarsi alcuni periodi di sospensione.
Uno è dovuto a rinvii disposti nel corso del giudizio di merito, per complessivi 6 mesi e 29 giorni; l’altro, come opportunamente evidenziato nella sentenza impugnata, deriva dalla questione di legittimità costituzionale a suo tempo sollevata (con ordinanza del 05/04/2006, fino alla restituzione degli atti da parte della Corte Costituzionale avvenuta il 19/12/2008, per un totale di 2 anni, 8 mesi e 14 giorni). Già la sola sospensione ricordata da ultimo risulta sufficiente per giungere alla conclusione che il reato non può ancora ritenersi estinto.
2. Si impone pertanto il rigetto del ricorso, con la conseguente condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 17 settembre 2012.

Redazione