Reati tributari: per la Cassazione la condotta elusiva va collegata alla violazione di una norma perché conti penalmente (Cass. pen. n. 19100/2013)

Redazione 03/05/13
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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 2.10.2012 il Tribunale di Roma rigettava l’appello proposto dal P.M. presso il Tribunale di Roma avverso il provvedimento emesso il 5.7.2012 dal GIP presso il medesimo Tribunale, con il quale era stata respinta la richiesta di sequestro preventivo per equivalente di immobili di proprietà di B.R. indagato per sei violazioni del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, per avere indicato nelle dichiarazioni relative agli anni dal 2005 al 2010 elementi passivi fittizi. Premetteva il Tribunale che, a seguito di un controllo della Polizia Tributaria, era emerso che, in data 11.7.1996, era stato stipulato un contratto (poi rinnovato negli anni successivi) tra l’attore B.R. e la società “Sanmarco srl” (le cui quote erano ripartite per il 20% a B.R. e per l’80% a B.T., sorella del primo; l’altra sorella B.D. era l’amministratore unico, mentre G.C.M.R., moglie dell’indagato, ne era la procuratrice), in forza del quale il B. cedeva alla società i diritti di utilizzazione economica della propria immagine dietro compenso annuale di un minimo garantito di Euro 100.000; il B. Inoltre era tenuto a versare alla società una percentuale dei compensi da lui fatturati nella misura del 40%.

Tanto premesso e richiamati i motivi di appello del P.M. e le deduzioni difensive dell’indagato, assumeva il Tribunale, sulla base degli elementi evidenziati dalla G.d.F., che l’unico scopo della costituzione della società e del contratto che prevedeva la corresponsione di una elevatissima percentuale degli incassi del B. era quello di operare una riduzione della base imponibile e quindi di eludere le imposte dovute. Senza che venisse ricavato alcun vantaggio economico dal conferimento, il 40% degli incassi (poste attive) veniva trasformato in costi deducibili (poste passive). Si era in presenza quindi dell’abuso di un diritto, essendo stata la società costituita non per finalità economiche ma per ottenere risparmi di imposta.

Dopo aver richiamato le più recenti pronunce giurisprudenziali in tema di abuso del diritto in materia tributaria, rilevava il Tribunale che, come condivisibilmente affermato nella sentenza “Dolce & *******”, non qualsiasi condotta elusiva può avere rilevanza penale, ma soltanto quella espressamente prevista, come tale, dalla legge. Nel caso di specie neppure il P.M. appellante aveva indicato la tassativa previsione normativa che vieta la costituzione di società di capitali con finalità diverse da quelle economiche.

Non poteva infatti invocarsi la L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, che fa riferimento alle “società di comodo” “scatole vuote” e quindi a società oggettivamente inesistenti; nel caso di specie Invece ci si troverebbe in presenza, tutt’al più, di inesistenza soggettiva della società.

Neppure pertinente è il richiamo del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, che riguarda il trasferimento di proprietà (beni immobili per lo più) dal socio alla società.

Secondo il Tribunale, quindi, la condotta elusiva posta in essere dal B. non aveva, allo stato della legislazione, rilevanza penale.

2. Ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma.

Dopo una premessa in fatto riepilogativa della vicenda, denuncia la violazione di legge (art.4 D.L.vo 74/2000 in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, ed al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis).

Lo stesso Tribunale, confutando correttamente le argomentazioni difensive, ha ritenuto che il B. abbia trasferito fittiziamente alla società buona parte dei suoi redditi quale persona fisica, con conseguente risparmio di imposta. Non ha tenuto conto però che, a norma dell’art. 37, comma 3 cit., sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona.

La provata (attraverso prove documentali) interposizione fittizia di persona, richiamata dalla norma in questione, rende configurabile l’ipotesi di reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4.

Pur non essendo stato richiamato nell’atto di appello, la fattispecie in esame rientra, inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, nella previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 3, lett. b), (“conferimenti in società, nonchè negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende”).

I conferimenti in società risultano definiti nell’art. 2464 c.c., (come riformulato dal D.Lgs. n. 6 del 2003). Fino al 31.12.2003 il conferimento nelle srl poteva essere costituito soltanto da denaro, beni o crediti; dal 1 gennaio 2004 è possibile conferire “qualunque elemento dell’attivo – suscettibile di valutazione economica” e quindi non necessariamente un bene materiale. Il Tribunale, senza indicare un diverso contenuto del termine, non spiega il motivo per cui nella fattispecie in esame non ci si trovi in presenza di un “conferimento”.

La costituzione della società “Sanmarco srl” e la stipula del contratto tra il B. e la società medesima rappresentano e costituiscono il conferimento di elementi dell’attivo reddituale del B. alla società, con indebito risparmio di imposta.

3. Con memoria depositata in cancelleria in data 15.2.2013 il difensore dell’indagato deduce che il Tribunale ha fatta propria l’impostazione della G.d.F. senza tener conto dei rilievi difensivi supportati dalla documentazione prodotta, da cui emergeva che la creazione della ******** srl e la contrattualizzazione del rapporto con l’artista avevano finalità gestionali, oltre che finanziarie ed economiche e che gli eventuali benefici fiscali erano assolutamente marginali. E, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, il carattere abusivo di un’operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza non marginale di ragioni extrafiscali.

A maggior ragione andava escluso l’elemento psicologico del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, ipotizzato.

Il ricorso del P.M., poi, è infondato in diritto. Secondo l’orientamento più recente della giurisprudenza della Corte di Cassazione la rilevanza penale dell’abuso di diritto va esclusa quando non si risolva nella violazione di tassative disposizioni antielusive previste dalla normativa tributaria. Il Tribunale si è correttamente attenuto a tali principi, escludendo che potesse ravvisarsi la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, e art. 37 bis.

Nel caso di specie, infatti, non è ravvisarle nè una interposizione fittizia (presupponendo essa la presenza di tre soggetti e non di due) nè dei conferimenti in società (riguardando tale ipotesi solo il trasferimento della proprietà).

Motivi della decisione

1. Il ricorso del P.M. è fondato nei termini di seguito indicati.

2. Il Tribunale, con motivazione pertinente ed immune da vizi, ha ritenuto che l’indagato avesse abusato del diritto di costituire una società. Tale costituzione era infatti avvenuta senza che vi fosse alcuna apprezzabile ragione economica, al solo scopo di conseguire vantaggi fiscali.

Dopo aver esaminato i rilievi difensivi e la documentazione prodotta in relazione alla sussistenza di ragioni economicamente apprezzabili, idonee a giustificare la costituzione della “Sammarco srl”, ed alla irrilevanza penale dell’abuso del diritto (pag. 8 e ss.), ha evidenziato che non era dato comprendere la differenza intercorrente “tra l’attività che il B. ha svolto di fatto da solo, ma sotto la schermatura societaria, e quella che egli avrebbe ugualmente potuto svolgere sempre da solo, assumendo direttamente alle sue dipendenze (invece che alle dipendenze della società “Sammarco srl) le segretarie necessarie per fissare appuntamenti, selezionare le chiamate, inviare mails…”.

Il parere “pro veritate” del prof. R., richiesto dalla difesa, si era limitato a chiarire gli effetti civilistici scaturenti dal contratto, ma non spiegava certo le ragioni economiche che avevano indotto il B. a far ricorso alla schermatura societaria per un’attività che aveva, di fatto, svolto da solo con l’ausilio dei familiari.

L’indagato aveva quindi, senza ricavarne alcun vantaggio economico, trasferito i propri guadagni alla società. Sicchè la finalità di tale operazione era palesemente quella di trasformare il 40% dei guadagni (poste attive) in costi deducibili (poste passive (pag. 11 e ss. Ord.).

I rilievi sul punto, contenuti nella memoria depositata in data 15.12.2013, non sono certo idonei a scalfire siffatta motivazione, anche perchè ripropongono questioni di fatto già esaminate e disattese dal Tribunale e presuppongono un riesame, non consentito in questa sede di legittimità, della documentazione prodotta.

3. Le Sezioni Unite Civili di questa Corte con la sentenza n. 30055 dei 23.12.2008 hanno affermato che in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici; tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’Imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel riconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere ai solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione.

La giurisprudenza successiva ha costantemente ribadito tali principi (cfr. Cass. Civ., sez. 5 n.4737 dei 26.10.2010; Sez., 5 n. 11236 del 20.5.2011, Sez. 5 n.21782 del 20.10.2011; Sez., 5 n.19234 del 7.11.2011; Sez. 5 n. 21390 del 30.11.2012).

4. Il Tribunale, richiamando la sentenza di questa Corte (Cass. pen. Sez. 2 22.11.2011 n.7739), ha rilevato che nulla osta, a livello di ordinamento nazionale (ed Europeo) alla rilevanza penale dell’abuso di diritto, proprio in ragione del rispetto del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e del principio di progressività dell’imposizione (art. 53 Cost., comma 2). Da tali due principi costituzionali deriva, invero, che il contribuente non possa trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l’operazione.

La sentenza della 2^ sezione sopra richiamata, che il Collegio condivide e che non è contrastata da altre pronunce (a parte qualche decisione non argomentata – v. Sez. 5 n.23730 del 18.5.2006 -, si sono pronunciate per la rilevanza penale anche Cass. Sez. 3 n. 6723 del 18.3.2011 e Cass. Sez. 3 n. 29724 del 26.5. 2010, per cui non è ravvisarle un reale contrasto sul punto), evidenzia che “ad avvalorare la tesi della rilevanza penale dei comportamenti elusivi specificamente previsti dalla normativa di settore è la stessa linea di politica criminale adottata dal legislatore, nell’ambito delle scelte discrezionali che gli competono, in occasione della riforma introdotta con il D.Lgs. n. 74 del 2000, che sono state ampiamente delineate dalle Sezioni Unite di questa Corte (sez. Un. n.27 del 25.10.2000, imp. Di *****; n. 1235 del 28.10.2010, 19.1.2011, ********) e dalla Corte Costituzionale (sent. n.49 del 2002)”.

Infatti “se le fattispecie criminose sono incentrate sul momento della dichiarazioni fiscale e si concretizzano nell’infedeltà dichiarativa, il comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente irrilevante. Se il bene tutelato dal nuovo regime fiscale è la corretta percezione del tributo, l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici ben può coinvolgere quelle condotte che siano idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile”. Laddove il comportamento antielusivo contrasti con specifiche disposizioni, rimane, poi, salvaguardato anche il principio di legalità. Nella sopra richiamata sentenza si evidenzia in proposito: “La affermazione della rilevanza penale delle condotte elusive in materia fiscale, nei limiti sopra specificati, non contrasta con il principio di legalità, inteso nel senso sopra precisato, poichè se tale principio non consente la configurabilità della generale fattispecie di truffa, in presenza di una espressa previsione nel sistema tributario di una specifica condotta elusiva, non è, invece, ostativo alla configurabilità della rilevanza penale della medesima condotta, trattandosi di un risultato interpretativo “conforme ad una ragionevole prevedibilità”, tenuto conto della ratio delle norme, della loro finalità e del loro inserimento sistematico. Se il principio di legalità venisse diversamente applicato nella materia di cui si parla si chiuderebbero gli spazi non solo della normativa penale generale, ma anche di quella speciale di settore: la plurima invocazione del principio di specialità trasformerebbe questo in principio di impunità, pur in presenza di una descrizione della fattispecie elusiva provvista dei caratteri di determinatezza”.

5. Come rileva il ricorrente P.M. e come del resto riconosce il Tribunale (e perfino lo stesso indagato il quale richiede solo che, per non superare i principi di determinatezza e tassatività, l’interpretazione debba essere tassativa e letterale – pag. 15 memoria), specifiche norme antielusive sono rinvenibili nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, (“In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari dei soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”) e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, (“Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti (comma 1).

L’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione (comma 2). Le disposizioni dei commi 1 e 2, si applicano a condizione che, nell’ambito, del comportamento di cui al comma 2, siano utilizzate una o più delle seguenti operazioni: a) trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverso da quelle formate con utili; b) conferimenti in società, nonchè negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende; c) cessioni di credito…” comma 3).

Dalla norma per ultimo richiamata emerge chiaramente che per la rilevanza della condotta antielusiva è necessario che essa si estrinsechi in una delle operazioni tassativamente elencate dal comma 3. E per la “individuazione” di siffatte operazioni non può che farsi riferimento alle norme del codice civile. Per quanto riguarda, in particolare, i conferimenti in società (previsti dall’art. 37 bis, comma 3, lett. b), cit. l’art. 2464 c.c. (che ha sostituito a partire dall’1 gennaio 2004 il previgente art. 2476) in relazione alle società a responsabilità limitata il valore dei conferimenti non può essere inferiore all’ammontare globale del capitale sociale (comma 1); possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica (comma 2).

Concordemente la dottrina e la giurisprudenza hanno evidenziato che, come emerge dal tenore letterale della norma, in attuazione delle lett. c) ed e), del secondo comma della legge delega, in materia di conferimenti nelle società a responsabilità limitata possono essere oggetto di conferimento tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica. Si è ritenuto così che ai tipi di conferimento già previsti in precedenza (denaro, beni, crediti) se ne siano aggiunti altri quali ad es. il conferimento d’opera, di partecipazioni non proporzionali ai conferimenti eseguiti, conferimenti dell’attivo non configurabili in beni, apporti atipici e di facere quali prestazioni d’opera e di servizi. L’ampia nozione adoperata dalla norma (“elemento dell’attivo”) consente infatti di far rifermento a qualsiasi posizione soggettiva con l’unico “limite” della variabilità in termini economici.

6. Il Tribunale ha liquidato ogni problematica in proposito, limitandosi ad affermare che non poteva ritenersi pertinente l’ipotesi del “conferimento in società” in quanto tale ipotesi concerne il caso di trasferimento della proprietà (per lo più di beni immobili, ma non solo) dal socio alla società. E sbrigativamente ha concluso che non poteva essere accolto l’appello del P.M. in quanto “Il B. ha posto in essere una condotta elusiva non espressamente e tassativamente prevista come tale dalla legislazione tributaria e che quindi allo stato può essere repressa esclusivamente con gli strumenti amministrativi e civilistici..”.

Tale motivazione, oltre che meramente apparente ed apodittica (non spiegando il motivo per cui le previsioni contrattuali non potessero essere ricondotte alla ipotesi dei “conferimenti”), rivela che non si è tenuto conto della nuova formulazione dell’art. 2464 c.c., applicabile alla fattispecie in esame essendo stato il contratto tra il B. e la società ******** srl (stipulato in data 11.7.1996), comunque, rinnovato di anno in anno.

6.1. L’ordinanza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio al Tribunale di Roma.

I Giudici del rinvio, tenendo conto dei rilievi e dei principi sopra richiamati, accerteranno se la ritenuta (dallo stesso Tribunale) condotta elusiva violi le specifiche disposizioni sopra richiamate e possa, quindi, configurarsi come penalmente rilevante.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Roma.

Così deciso in Roma, il 6 marzo 2013.

Redazione