Reati societari: falso in bilancio solo se si superano tutte le soglie di punibilità (Cass. pen. n. 3229/2013)

Redazione 22/01/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione R.M. – con distinti atti di impugnazione a firma dell’avv. Bottoni e dell’avv. *****, nonchè G.F., D.C., N. F. e G.E., con atto di impugnazione a firma dell’avv. *********, avverso la sentenza della Corte di appello di Messina in data 18 aprile 2011 con la quale – per quanto qui d’interesse – è stata confermata la condanna inflitta in primo grado (sentenza del 3 maggio 2001) in ordine alle imputazioni di cui ai capi A) e B) della rubrica e cioè ai reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria da reato societario (*******., ex art. 223, comma 2, in rel. art. 2621 c.c., comma 2, n. 1) e di bancarotta fraudolenta per distrazione.

Il R., nella qualità di Presidente del consiglio di amministrazione della Cooperativa edilizia Poker e gli altri nella qualità di componenti del consiglio stesso ( G. e N.) o di sindaci ( N. – evidentemente in un periodo non incompatibile – G. e D.), sono stati ritenuti responsabili di avere esposto, nelle relazioni nei bilanci e nelle comunicazioni sociali relativi al periodo del 1981 al 1990, fatti non rispondenti al vero sulle condizioni economiche della Cooperativa (tra gli altri, inserimento di operazioni inesistenti, omessa contabilizzazione di prelievi mediante assegni emessi all’ordine di R. etc.), così dando luogo alla omessa indicazione di passività per centinaia di milioni e alla falsa rappresentazione della situazione economico patrimoniale, con conseguente danno rilevante per la cooperativa, della quale veniva cagionato il dissesto:un danno, cioè, che è stato rilevato in sede di apprezzamento del dichiarato stato di insolvenza e ha dato luogo alla procedura della liquidazione coatta amministrativa.

In altri termini, hanno osservato i giudici del merito, si è realizzato, con la dichiarazione giudiziaria dello stato di insolvenza, un evento il cui accertamento, risalente alla sentenza del 14 gennaio 1991, è equiparato alla dichiarazione di fallimento ai fini che qui ci occupano, secondo quanto disposto dalla L. Fall., art. 237, norma che, per questo, è stata inserita nella qualificazione giuridica dei fatti, così precisata già dal primo giudice, con riferimento sia al capo A) e al capo B).

Nel secondo capo d’imputazione la contestazione ha riguardato la distrazione e la dissipazione delle somme meglio dettagliate nel capo precedente e l’utilizzo di fondi societari per il pagamento di spese personali ed estranee alla gestione.

I reati, secondo il giudice del merito, non risultano allo stato prescritti (pur dovendosi considerare che a D., N. e G. sono state concesse le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti) a causa della reiterata sospensione ex art. 159 c.p., del relativo termine per complessivi otto anni, come attestato nella sentenza impugnata, ove si è dato atto dei numerosi rinvii dovuti ad astensione degli avvocati dalle udienze, ad impedimento del difensore o dell’imputato, ai tempi di trattazione della istanza di rimessione del processo ad altra sede e, prima fra tutti, alla sospensione del processo ex art. 479 c.p.p., per la pendenza nella sede civile della questione attinente alla dichiarazione dello stato di insolvenza.

La vicenda processuale aveva avuto origine da un esposto presentato nel lontano 1989, col quale i soci della Cooperativa, che non vedevano assegnarsi gli alloggi per ritardi imputabili all’amministrazione societaria, avevano chiesto, all’ente regionale preposto, un’ispezione e la nomina di un commissario straordinario.

La Cooperativa in questione era una società cooperativa a responsabilità limitata costituita con lo scopo sociale della costruzione di case popolari, a quanto sembra, per i soli soci. Nel corso dell’ispezione da parte dell’assessorato regionale, il Tribunale aveva dichiarato lo stato di insolvenza della società (*******., ex art. 195), essendo la stessa soggetta alla procedura di liquidazione coatta amministrativa: ne conseguiva, ad opera dell’assessorato, lo scioglimento della cooperativa, la messa in liquidazione coatta amministrativa e la nomina del commissario liquidatore.

Gli ispettori avevano sostenuto, indicandone i fattori significativi, che la Cooperativa Poker,con sede in Messina, in realtà, aveva i tratti tipici di una impresa operante nel settore immobiliare e, per quello che qui rileva, avevano accertato ingenti spese estranee allo scopo sociale: spese, in taluni casi, addirittura personali come quelle relative all’acquisto di gioielli. Inoltre era stato accertato un vuoto di circa quattro anni nel funzionamento degli organi societari tanto che i bilanci relativi al 1976, 1977, 1978 e 1979 erano stati approvati in un’unica soluzione nel 1980.

Era emersa, come sottolineato dai giudici di merito, sulla base della consulenza tecnica di ufficio, una contabilità caotica e bilanci assolutamente inattendibili essendo basati su dati numerici non rispondenti alla realtà a fronte di spese fatturate non pertinenti all’oggetto sociale e rilevantissimi importi di spese nemmeno fatturate.

Era stato anche accertato che il R. aveva effettuato, come detto, spese di natura personale utilizzando una carta di credito ad esso intestata nella qualità di Presidente della cooperativa, per il cui rilascio, però, egli non era stato mai autorizzato dal consiglio.

La grandissima confusione contabile non consentiva neppure di calcolare con certezza l’entità delle entrate dovute ai mutui e ai contributi dei soci, relativamente alle quali, tuttavia, neppure il consulente della difesa D.L. – che pure aveva su sostenuto la regolarità contabile per tutto il 1989 – riusciva a spiegare la destinazione impressa ad un ammontare pari a lire 473. 527.571 di cui non si trovava traccia.

In conclusione, le anomalie apprezzate consistevano essenzialmente in movimenti del conto-banca, in addebito o in accredito, riportati in contabilità ma risultati inesistenti negli estratti di conto corrente e, viceversa nella omessa contabilizzazione nei bilanci nelle scritture della società di movimenti constatati e riportati dagli estratti conto bancari: in conclusione, una discordanza non solo estremamente eloquente ma comprovata sulla base di dati oggettivi inconfutabili rappresentati dagli estratti conto bancari.

Osservava, in particolare, la Corte d’appello, facendo proprie le conclusioni del primo giudice, che gli artifici contabili evidenziati, lungi dal poter essere addebitati a mera inesperienza data la loro macroscopicità, erano, piuttosto, volti a creare un apparato contabile fittizio non già per rendere conto dell’uso dei mutui e dei contributi dei soci, ma per mascherare quello che era stato l’uso di dette risorse come affare eminentemente privato e cioè in vista di una finalità perfettamente capace – secondo i parametri normativi che qui rilevano – di integrare il dolo specifico del delitto di false comunicazioni sociali. Infatti, prosegue il giudice, il reato resta integrato dalla condotta che sia volta a determinare un errore negli organi sociali o nei soci o nei terzi allo scopo (dolo specifico) di indurli a tenere comportamenti diversi da quelli che avrebbero tenuto se fossero stati a conoscenza della realtà della situazione e dei rischi effettivi.

La Corte ha ritenuto, altresì, verificato il superamento della soglia prevista per la punibilità del reato di false comunicazioni sociali, così che non le è parso neppure necessario l’espletamento di una perizia sul punto.

Ha osservato, poi, il giudice dell’appello, che era integrato anche il requisito del nesso di causalità tra il reato societario e il dissesto, con la precisazione che tale nesso sussiste anche quando la sua efficacia causale non sia esclusiva ma concorrente con altre cause concomitanti: e, nel caso di specie, le spoliazioni sistematiche del patrimonio sociale, mascherate con artifici contabili e prolungate per quasi un decennio, non potevano che porsi in rapporto quanto meno di con-causalità rispetto allo stato di dissesto successivamente constatato e dichiarato dall’autorità giudiziaria.

A tal proposito, nella sentenza è stata sottolineata la specifica competenza dell’imputato R. il quale era stato funzionario di banca, poi iscritto all’albo dei commercialisti e infine al registro dei revisori contabili; con riferimento agli altri ricorrenti è stata d’altra parte, sottolineata la sicura consapevolezza delle irregolarità commesse e quindi l’inadempienza dell’obbligo di intervento, alla luce della assoluta evidenza e rilevanza delle irregolarità medesime.

In ordine alla contestazione di cui al capo B) la Corte ha fatto proprie le conclusioni del primo giudice a proposito della sussistenza inequivocabile della prova delle somme che risultavano uscite dalle casse sociali per scopi del tutto estranei al relativo oggetto (nell’importo di circa 2 miliardi di lire secondo la ricostruzione degli ispettori ovvero in quello, inferiore, di circa 470 milioni di lire, secondo il consulente della difesa) ed erano state così dissipate e dilapidate in maniera insensata.

Alla udienza del 12 dicembre 2012 risulta pervenuta sia una istanza di rinvio dell’avv. *****, per impedimento professionale non documentato, sia una successiva nota con rinuncia alla richiesta di rinvio.

Hanno dedotto i difensori di R..

1) (motivi nn. 1 del ricorso dell’avv. Bottoni e dell’avv. *****) la nullità assoluta delle udienze di appello in data 2 aprile 2004 – nella quale era stata pure dichiarata la contumacia – 5 ottobre 2007, 26 ottobre 2007, 23 novembre 2007 e 6 dicembre 2010, per le quali sia la citazione originaria sia i rinnovi degli avvisi all’imputato, ai sensi dell’art. 601 c.p.p., a seguito di rinvii dovuti ad impedimenti, erano stati notificati non già presso il domicilio che quello aveva eletto presso lo studio dell’avvocato D.L. in (omissis) (con atto depositato all’udienza del 20 marzo 2001), bensì, ex art. 157 c.p.p., nel luogo di residenza, in (omissis), e senza che l’avviso di deposito della raccomandata fosse ritirato da alcuno.

Si trattava di una modalità di notificazione diversa da quella dovuta e che non aveva prodotto il proprio effetto, tenuto conto che all’imputato, gravemente malato, era sempre stata taciuta la pendenza del procedimento come si poteva evincere dalla perizia del dottor R.N..

I motivi in questione sono manifestamente infondati.

Sentenza SSUU Palumbo del 2004, rv 229539, ha fornito una risolutiva chiave di lettura e di soluzione delle questioni in esame, affermando il principio – del tutto innovativo rispetto alla giurisprudenza fino a quel momento formata e da ribadire, oggi, appieno – secondo cui in tema di notificazione della citazione dell’imputato, la nullità assoluta e insanabile prevista dall’art. 179 c.p.p., non ricorre in ogni ipotesi di esecuzione della notificazione della citazione in luogo diverso da quello dovuto ma soltanto nel caso – da aggiungersi a quello della omessa notifica – in cui la notificazione della citazione, pur essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato; la medesima nullità non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione: situazione nella quale, pur configurandosi la nullità di ordine generale di cui all’art. 178 c.p.p., ben può verificarsi la sanatoria di cui all’art. 184 c.p.p..

Nel caso di specie risulta dalla lettura degli atti che tutte le notifiche denunciate di nullità sono state realizzate – evidentemente non essendo stato notato l’atto di elezione di domicilio depositato in atti tre anni prima, nel corso del processo di primo grado – con le modalità dell’art. 157 c.p.p., comma 8, ossia presso il luogo di residenza dell’imputato, luogo risultato, anche sulla base di rinnovate ricerche (Vedi nota CC di Messina – Giostra del 1 aprile 2004), proprio quello nel quale il R. continuava a risiedere.

I difensori dell’imputato, d’altra parte, sebbene presenti alle udienze sopra menzionate,hanno ora dichiarato la loro volontà di aderire alla astensione di categoria, ora eccepito l’impedimento fisico e psichico dell’imputato, ma non hanno mai denunciato il vizio della notificazione ad esso della citazione o del rinvio.

Tale evenienza va considerata unitariamente al rilievo che è da escludersi che l’imputato nulla sapesse del processo, essendo stato destinatario di una perizia psichiatrica, conclusa con la esclusione del vizio della sua volontà o di un suo oggettivo impedimento a comparire: una perizia svolta, per di più, mediante redazione di un verbale nel quale si è dato atto della presenza del periziando e del mandato della Corte d’appello di Messina.

Consegue ai rilievi svolti che le notificazioni della citazione e dei rinvii sono affette da nullità non assoluta ma di ordine generale ex art. 178 c.p.p., posto che la notifica delle citazioni non è stata omessa ma effettuata con una modalità diversa da quella prevista e quest’ultima non è stata tale da impedire in concreto la conoscenza del processo da parte dell’imputato, del quale, oltretutto, si dice negli atti che abbia reso le proprie conclusive e spontanee dichiarazioni. Tale nullità si è sanata per omessa deduzione nei tempi previsti dal codice – ossia nel primo atto successivo al compimento della nullità- da parte del difensore di fiducia, presente in udienza.

Deve aggiungersi che, stante la sanatoria della nullità di ordine generale, anche la dichiarazione di contumacia è stata legittima.

In ogni caso, è da osservare che la pretesa nullità della declaratoria di contumacia rileverebbe, a danno dell’imputato, soltanto nel caso in cui avesse comportato la mancata valutazione di un legittimo impedimento e tale evenienza, per la udienza del 2 aprile 2004 nella quale essa è stata dichiarata, non risulta neppure rappresentata nel presente ricorso, con conseguente mancata indicazione dell’interesse alla eccezione.

2) (motivi 2 e 3 del ricorso dell’avv. Bottoni e n. 2 dell’avv. *****) La inosservanza degli artt. 70, 71 e 423 c.p.p., e il vizio di motivazione in relazione alla mancata sospensione del procedimento, alla udienza del 23 febbraio 2009, per incapacità a comparire dell’imputato R.. Il perito di ufficio dottor R. si era espresso per la possibilità che l’imputato, il quale aveva subito un’emorragia cerebrale nel 2006, potesse non reggere emozionalmente lo stress del processo, essendovi il pericolo incorresse in una crisi epilettioide: ne conseguiva che il giudice dell’appello avrebbe dovuto rilevare l’incapacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo, incorrendo, con la scelta della prosecuzione, nella violazione dell’art. 185 c.p.p., n. 3.

Tale conclusione è stata avvalorata dalla sentenza della Corte costituzionale numero 39 del 2004, ove si è fatto riferimento all’incapacità derivante non solo dalla malattia psichica ma da qualsiasi infermità che comprometta le facoltà mentali.

La nullità della ordinanza era eccepita con riferimento sia alla mancata considerazione delle condizioni dell’imputato nell’ottica del legittimo impedimento a comparire ex art. 420 ter c.p.p., sia alla omessa declaratoria di sospensione del processo ai sensi dell’art. 70 c.p.p..

In particolare era stata del tutto trascurata la consulenza di parte del professor L.R. il quale aveva partecipato all’operazione neurochirurgica e del quale è stato negato il confronto con il perito.

Inoltre, proseguiva la difesa, la Corte aveva evocato una norma, quella dell’art. 486 c.p.p., da tempo abrogata.

I motivi sono inammissibili.

E’ riportata in sentenza l’ordinanza in data 23 febbraio 2009 con la quale la Corte d’appello ha motivato ampiamente e congruamente le ragioni per le quali non ha ritenuto sussistenti i presupposti per la sospensione del processo ai sensi dell’art. 70 c.p.p.. In particolare, la Corte ha fatto proprie le conclusioni del perito secondo cui l’imputato era in grado di partecipare e di comprendere l’attività processuale, essendo stato diagnosticato a suo carico uno stato di estrema labilità emotiva che rendeva probabile che l’imputato potesse “non reggere emozionalmente il cimento”.

E di tutta evidenza che la difficoltà psicologica a sostenere lo stress del processo è un’evenienza che, con diverse sfumature di gravità, può riguardare un numero indefinito di soggetti i quali sono e restano tuttavia in grado, al di là della risposta emotiva, di comprendere lo svolgersi della attività processuale e di partecipare ad essa pieno titolo, salva la prova – che in concreto è mancata-, che tale risposta emotiva abbia prodotto un effettivo stato di impossibilità assoluta a comparire, rilevante semmai, e solo in caso di specifica deduzione e di verifica, ai sensi di una norma del codice di rito diversa dall’art. 70.

La difesa ha del tutto trascurato l’ordinanza della corte d’appello, sceverando una parte soltanto delle dichiarazioni del perito che, non solo non possono essere apprezzate in via diretta da questa Corte ma che, per di più, non risultano in maniera evidente essere in contrasto con i rilievi in fatto e in diritto della Corte territoriale, versandosi dunque un’ipotesi che nulla ha a che vedere con il travisamento della prova ma che attiene alla valutazione di questa, sottratta al sindacato della cassazione in presenza di una motivazione esaustiva e razionale del giudice del merito.

Con particolare riferimento al profilo della denuncia di mancata valutazione dell’eventuale impedimento assoluto dell’imputato, poi, va osservato che questa è contraddetta dalla esistenza della motivazione adottata dalla Corte d’appello nella quale è stato valutato lo stato emotivo e l’effetto ansiogeno prodotto dal processo sull’imputato, escludendo la sua rilevanza anche ai fini dell’art. 420 ter c.p.p..

Il mancato confronto del consulente con il perito, d’altra parte, non è apprezzabile sotto l’unico profilo che lo renderebbe rilevante e cioè quello dell’art. 606 c.p.p., lett. d), posto che il carattere decisivo di tale prova non è dimostrato dalla difesa, dovendosi anche considerare che il consulente ha modo di esprimere le proprie osservazioni nel corso dell’espletamento delle perizia e il contraddittorio con esso può dirsi già pienamente attuato.

D’altra parte non risulta neppure dal ricorso che il consulente di parte abbia motivatamente argomentato l’esistenza, a carico dell’imputato, di un impedimento assoluto a comparire per l’udienza indicata nel ricorso, cosi come la evocazione dell’art. 486 c.p.p., sull’impedimento assoluto a comparire, nella formulazione oggi trasfusa nella corrispondente norma dell’art. 420 ter, non può ascriversi ad un’errata valutazione giuridica da parte della Corte territoriale, quanto al richiamo dei principi giurisprudenziali in materia, in tutto analoghi con riferimento sia all’una che all’altra norma.

3) (motivo n. 4 del ricorso dell’avv. Bottoni). La nullità del giudizio di appello (rectius, di primo grado) per violazione del diritto di rappresentanza e difesa dell’imputato (artt. 96, 97,178, 179, 185 e 477 c.p., nonchè art. 24 disp. att. c.p.p.).

Si segnala che all’udienza del 3 maggio 2001, l’allora difensore di fiducia, avv. *****, aveva eccepito la irritualità delle precedenti udienze svoltesi alla presenza degli avvocati ******* e *******, che avevano anche rinunciato a taluni testi della difesa, essendo priva di effetto la loro nomina perchè in esubero rispetto alla nomina degli originari difensori di fiducia, avv.ti Autru Ryolo e *******, mai revocati in seguito e tantomeno all’atto della nomina dei nuovi difensori.

In realtà, precisa in seguito l’avvocato ricorrente a pagina 28 del ricorso, i menzionati avv.ti Autru Ryolo e ******* erano stati revocati il 20 marzo 2001.

Tale situazione aveva comportato la nullità di cui all’articolo 178 C, nuovamente eccepita nei motivi d’appello ma dalla Corte territoriale non riconosciuta, in base al rilievo del carattere implicito della revoca ed inoltre del fatto che la difesa esercitata mediante un numero di difensori eccedente quello legale non integra alcuna nullità ed anzi giova all’imputato; essa, in ogni caso, doveva essere eccepita tempestivamente dalla parte presente all’atto.

Osserva la difesa che la revoca implicita non è ammessa dall’attuale sistema normativo.

Inoltre la difesa denuncia la nullità che si sarebbe prodotta all’udienza del 13 dicembre 1996 quando era stato disposto il rinvio (per la data del 25 marzo 1997) e il rinnovo della citazione all’imputato R.. Ebbene, l’avviso di tale rinvio, agli avvocati, doveva essere dato ai difensori di ******* e Autru Ryolo perchè erano i soli con nomina legittima.

Il motivo è infondato. Non si intende qui porre in discussione il principio, correttamente evocato dal ricorrente, circa la mancanza di efficacia – salve specifiche eccezioni individuate condivisibilmente dalla giurisprudenza – della nomina dei difensori in eccedenza rispetto al numero legale, senza revoca espressa dei precedenti: in tal senso, da ultimo si sono espresse le Sezioni unite con sentenza n. 12164 del 15/12/2011, Rv. 252027.

Sotto tale profilo è sicuramente errata la decisione del giudice dell’appello basata sul riconoscimento della revoca implicita.

Senonchè, la decisione dello stesso giudice è da condividere nella parte in cui, conformemente, del resto, a quanto dedotto anche dal ricorrente, rileva che la celebrazione di alcune udienze in presenza di difensori nominati di fiducia dall’imputato ma senza effetto per il processo, integra una nullità non assoluta ma di carattere generale ex art. 178 c.p.p.: non si verte, infatti, nella ipotesi detta della nullità assoluta che è prevista, dall’art. 179 c.p.p., per il caso dell’assenza del difensore nel caso in cui ne è obbligatoria la presenza, ma della diversa ipotesi della udienza celebrata alla presenza di due legali la cui nomina da parte dell’imputato ha comunque avuto un’efficacia negoziale indiscutibile.

Ed allora, posto che la nullità di ordine generale non può essere eccepita da chi vi ha dato o ha concorso a darvi causa (così art. 182 c.p.p., comma 1), si deve evidenziare che l’imputato R. si è trovato in tale condizione avendo egli stesso effettuato tutte le nomine dei legali di cui oggi si discute.

Sempre a norma dell’art. 182 c.p.p., comma 1, deve rilevarsi che non è stato in cui in alcun modo indicato, da parte dell’imputato e del difensore ricorrente, nei termini di specificità richiesti in via generale dell’art. 581 c.p.p., l’interesse che egli vanta all’osservanza della disposizione violata, considerato che non è stato neppure allegato che i difensori privi di nomina processualmente efficace abbiano svolto attività processuale rilevante.

4) (motivo n. 5 del ricorso dell’avv. Bottoni e n. 3 del ricorso dell’avv. *****) La mancata assunzione di prova decisiva e il vizio di motivazione.

Ad avviso dell’avv. Bottoni avrebbe dovuto essere accolta, da parte della Corte d’appello, la richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale per espletare una perizia contabile – già esclusa anche dal primo giudice – ed altresì una perizia edile.

Tali incombenti si rendevano assolutamente necessari, diversamente da quanto ritenuto dai giudici del merito, per valutare, ad esempio, il fatto che 76 soci della cooperativa avevano dichiarato di non aver versato contributi; il fatto che gli ispettori regionali avevano attestato l’ammanco di circa 2 miliardi di lire mentre il consulente del pubblico ministero e il consulente dell’imputato avevano attestato un ammanco assai inferiore, pari a circa 470 milioni di lire; il fatto che la società cooperativa era stata costretta, per effetto del finanziamento conseguito presso la Sicilcassa, a costruire gli alloggi in più del previsto utilizzando i fondi della cooperativa stessa. In alternativa alla perizia, si rendeva necessario quantomeno un confronto tra i due periti escussi in primo grado: e ciò tanto più in un caso come quello di specie, nel quale vi era stata una modifica della qualificazione giuridica del fatto (applicazione della *******., art. 237, di nuova formulazione in luogo dell’abrogato capoverso della *******., art. 203) ed era stata data applicazione alle nuove ipotesi di reato societario, comprensive delle soglie di punibilità.

Aggiunge l’avv. ***** che la perizia si rendeva indispensabile dopo che, su richiesta della difesa, il Tribunale aveva autorizzato l’acquisizione – altrimenti non ottenibile – della documentazione rimasta in possesso della Cooperativa Poker, gestita dal nuovo consiglio di amministrazione.

Si trattava di migliaia di pagine custodite nei relativi faldoni e rimaste ignote anche al consulente tecnico di parte, ***********, il quale non aveva potuto completare la sua analisi.

Di tale documentazione, pure acquisita dal Tribunale con l’ausilio della polizia giudiziaria e ritenuta necessaria ai sensi dell’art. 507 c.p.p., non era stata fatta una valutazione.

E tanto poteva desumersi sia dal brevissimo tempo intercorso fra l’acquisizione della documentazione e la pronuncia della sentenza (circa un mese e mezzo), sia dal rilievo che la documentazione era rimasta sigillata.

Ulteriore richiesta della difesa, formulata neh’ atto d’appello e illegittimamente, a suo parere, disattesa, era stata quella di una perizia edile, volta a verificare se le somme di cui la Cooperativa aveva avuto la disponibilità fossero state utilizzate per scopi sociali (realizzazioni degli alloggi e richieste varie dei soci) ovvero per finalità estranee: infatti soltanto il disordine contabile aveva consentito ai giudici di affermare la esistenza di esborsi dell’imputato in concreto non conteggiati.

Una prima anomalia era data, sul punto, dal fatto che la Corte territoriale si era pronunciata solo sulla non necessità della perizia contabile e non anche di quella edile, incorrendo nel corrispondente vizio di motivazione e nella conseguente nullità della sentenza: una perizia, quella edile, che avrebbe dato risultati sorprendenti tenuto conto che i soci non hanno mai contestato gli esborsi ed i bilanci nel corso delle assemblee alle quali hanno partecipato, essendosi limitati a presentare un esposto in relazione ai ritardi nella consegna degli alloggi.

Ma anche la motivazione con la quale era stata rigettata la richiesta, in appello, della perizia contabile era basata, secondo l’avv. *****, su osservazioni illogiche.

La Corte territoriale aveva infatti evidenziato – recependo le identiche conclusioni del primo giudice – che la documentazione prodotta dalla difesa a istruttoria conclusa e cioè all’udienza del 13 febbraio 2001 era ininfluente perchè, a fronte della eloquenza delle scritture comunque acquisite e valutate e delle rilevazioni parzialmente ammissive del consulente di parte, quella si presentava come posticcia struttura contabile e comunque espressione proprio del già rilevato disordine gestionale voluto e organizzato: una motivazione apodittica e superficiale, tanto da avere giustificato una richiesta di ricusazione del relatore nel giudizio di appello.

Si trattava inoltre di una motivazione viziata dal non avere rilevato la contraddizione in cui era incorso il Tribunale il quale aveva dapprima disposto l’acquisizione della documentazione ritenuta assolutamente necessaria e poi aveva rigettato la richiesta e della relativa disamina peritale.

Ebbene, sottolinea l’avv. ***** che le rilevazioni del consulente di parte- il quale aveva effettivamente ha riconosciuto un ammanco di circa 470 milioni di lire – non potevano dirsi esaustive in quanto frutto di una conoscenza solo parziale della documentazione societaria: ad esempio era stata omessa la considerazione di maggiori spese dovute alla costruzione di sei appartamenti non previsti nel programma iniziale, così come è stato omesso l’esame del commercialista della cooperativa, dottor L.C..

E tali spese, se correttamente considerate, comprese quelle che comunque i soci avevano approvato, avrebbero quantomeno gettato una luce diversa sul dolo – nella forma sia generica e specifica – che doveva assistere la condotta materiale in contestazione, non bastando ad integrare il reato le accuse di disordine e di negligenza.

Inoltre le conclusioni del Tribunale, fatte proprie dalla Corte d’appello, soffrivano comunque della mancata valutazione della documentazione prodotta dal R. e afferente ad elementi nuovi quali i rapporti con le imprese appaltatici.

In terzo luogo la perizia si rendeva assolutamente necessaria per verificare la sussistenza o meno della causa di non punibilità costituite dalle c.d. soglie, introdotta con la modifica dell’art. 2621 c.c., intervenuta, da ultimo, nel 2005: soglie, oltretutto, da valutarsi con riferimento ad ogni bilancio di esercizio e che la Corte d’appello aveva erroneamente valutato con riferimento al parametro dell’1%, mentre avrebbe dovuto verificare il superamento del 10% del risultato di esercizio.

In quarto luogo la perizia si rendeva necessaria per superare l’errore di calcolo in cui erano incorsi gli ispettori regionali ravvisando un ammanco di circa 1.900.000.000 di lire, riconosciuto errato dal consulente della difesa che aveva calcolato un ammanco assai inferiore.

E comunque non di un ammanco si trattava ma di incertezze dovute al carattere confusionario delle scritture.

Comunque, ad avviso della difesa, la Corte d’appello è tenuta ad ammettere una richiesta di perizia quando questa si presenti fondata e inerente all’oggetto su cui si esercita il diritto di prova ai sensi dell’art. 187 c.p.p..

Tanto più quando, come nel caso di specie, era stata persino ignorata la richiesta della difesa, rivolta alla Corte d’appello, di rimuovere i sigilli che impedivano l’accesso alla documentazione.

La difesa infine contesta, ai sensi dell’art. 521 c.p.p., il fatto che la Corte d’appello abbia, per la prima volta, motivato in ordine al danno di particolare gravità cagionato sia ai soci che ai creditori della Cooperativa Poker, elemento, quest’ultimo, non presente nel capo d’imputazione.

Il motivo è fondato nei termini e per il profilo che si indicheranno.

Come bene posto in evidenza dal Procuratore Generale di udienza, è noto l’orientamento costante e consolidato della giurisprudenza di legittimità, citato anche nel ricorso, secondo cui la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove il citato art. 606, attraverso il richiamo all’art. 495 c.p.p., comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. 4, Sentenza n. 4981 del 05/12/2003 Ud. (dep. 06/02/2004) Rv. 229665; conformi N. 6861 del 1993 Rv. 195139, N. 9788 del 1994 Rv. 199279, N. 275 del 1997 Rv. 206894, N. 6074 del 1997 Rv. 208090, N. 13086 del 1998 Rv. 212187, N. 12027 del 1999 Rv. 214873, N. 4981 del 2003 Rv. 229665, N. 9279 del 2003 Rv. 225345, N. 17629 del 2003 Rv. 226809, N. 37033 del 2003 Rv. 228406; Sez. 4, Sentenza n. 14130 del 22/01/2007 Ud. (dep. 05/04/2007) Rv. 236191).

E’ utile aggiungere il principio secondo cui la perizia è mezzo di prova neutro ed è sottratta al potere dispositivo delle parti, che possono attuare il diritto alla prova anche attraverso proprie consulenze. La sua assunzione è pertanto rimessa al potere discrezionale del giudice e non è riconducibile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. d), e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e) (Sez. 5, Sentenza n. 12027 del 06/04/1999 Ud. (dep. 21/10/1999) Rv. 214873).

Deve anche valorizzarsi, ai fini del decidere, il principio secondo cui la mancata assunzione di una prova decisiva – quale motivo di impugnazione per cassazione – può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495 c.p.p., comma 2, sicchè il motivo non potrà essere validamente invocato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 c.p.p., e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione (Sez. 6, Sentenza n. 12539 del 12/10/2000 Ud.

(dep. 01/12/2000) Rv. 218171; conforme Sez. 6, Sentenza n. 33105 del 08/07/2003 Ud. (dep. 05/08/2003) Rv. 226534; Sez. 1, Sentenza n. 16772 del 15/04/2010 Ud. (dep. 03/05/2010) Rv. 246932): un principio valido, a maggior ragione, con riferimento alla richiesta di perizia formulata a istruttoria dibattimentale espletata, ai sensi dell’art. 508 c.p.p., e rigettata.

D’altra parte, i giudici dell’appello hanno assolto l’onere motivazionale che su di essi incombeva a proposito della non assoluta necessità della perizia contabile.

La motivazione esibita nella sentenza impugnata a proposito della richiesta di perizia contabile è congrua, essendo basata sul rilievo che l’assoluto disordine contabile e le falsità, oltre agli ammanchi, sono stati oggettivamente verificati dal consulente del pubblico ministero sulla base della documentazione bancaria, costituente punto di riferimento oggettivo per l’analisi.

La Corte ha anche segnalato le conclusioni del consulente di parte, di assoluto rilievo a fondamento delle ipotesi accusatorie, essendo indifferenti in tale ottica, le dimensioni attenuate degli ammanchi, come attestate dallo stesso: nè tale rilievo è stato, in sè, sottoposto a critica da parte della difesa del ricorrente.

Per quanto concerne la mancata risposta alla richiesta di perizia edile, è appena il caso di notare che la motivazione adottata per rigettare la richiesta di perizia contabile è utile a sostenere anche l’ulteriore diniego, considerato che la perizia edile, come rappresentata dalla difesa, nel caso di specie era destinata a fornire un chiarimento sull’utilizzo delle entrate e sulla natura delle uscite e quindi rappresentava una sottospecie della perizia contabile.

E dunque, venendo all’unico profilo del motivo di ricorso apprezzabile nella presente sede, e cioè quello della congruità della motivazione con la quale è stata rigettata la richiesta di perizia in appello, deve replicarsi alle osservazioni dell’avv. ***** che:

a) il giudice dell’appello ha condiviso l’argomento del primo giudice, del tutto plausibile, secondo cui la documentazione in questione è stata sottoposta al suo vaglio con un ritardo di circa otto anni e tale da giustificare il sospetto del carattere meramente dilatorio e artificioso della richiesta di perizia, a fronte del già chiaro quadro delineato dagli ispettori e dal consulente del PM, unitamente a quanto ammesso dal consulente di parte sull’ammanco di oltre 400.000.000 di lire;

b) la difesa non ha addotto elementi specifici a confutazione di tale rilievo di carattere logico, non avendo indicato il contenuto in ipotesi decisivo della documentazione di cui ha chiesto ed ottenuto l’acquisizione: una allegazione richiesta a pena di inammissibilità a carico della parte richiedente il mezzo di prova, nel caso di denuncia di omessa assunzione di una prova decisiva;

c) il giudice dell’appello non ha dato atto di alcun errore degli ispettori nel calcolo della differenza tra entrate e spese pari a circa 2 miliardi di lire, essendosi limitato ad osservare, a pagina 29, che anche il minor calcolo di ammanchi effettuato dal consulente di parte è idoneo ad integrare la condotta distrattiva;

d) del tutto eventuale risulta, proprio per il carattere neutro della perizia richiesta e non disposta, l’affermazione difensiva per cui il risultato della disamina peritale avrebbe potuto portare a conclusioni differenti in tema di dolo e di valutazione delle soglie di non punibilità;

e) non risponde al vero che gli ammanchi siano stati fatti discendere da una valutazione soltanto inerente il carattere confusionario delle scritture, essendo riportata nello stesso ricorso, a pagina 40, la motivazione con la quale la Corte d’appello ha evidenziato la esistenza di giustificativi di acquisti concernenti spese del tutto estranee all’oggetto sociale e, in definitiva la organizzazione di una posticcia struttura contabile diretta ad ingenerare in capo ai soci l’erroneo convincimento sulla florida condizione economica della cooperativa: una motivazione, come è evidente, tutta volta valorizzare il dolo della condotta e non il carattere meramente negligente nella tenuta della contabilità;

f) la verifica del superamento della soglia di non punibilità era effettuabile dalla Corte d’appello, anche con riferimento alla misura dell’1% della variazione del patrimonio netto, tenuto conto che tale soglia costituisce criterio valido esattamente come quello relativo alla soglia del 10% evocata dal difensore e operativa ovviamente rispetto ad un termine di raffronto (entità della posta corretta) diverso da quello da utilizzare con riferimento alla soglia dell’1% (patrimonio netto).

Senonchè, pur non potendosi censurare, in questa sede, la scelta del giudice del merito di non fare ricorso alla perizia contabile per dare una soluzione al tema accusatorio posto dal titolare della azione penale, viene in risalto ed è decisivo il rilievo che, nella sentenza impugnata, la motivazione resa con riferimento al tema del superamento delle soglie di punibilità, rilevanti per la configurazione del reato societario richiamato per la configurazione del reato di bancarotta sub A), è del tutto insufficiente ed inadeguata.

E’ appena il caso di sottolineare che l’art. 2621 c.c., richiamato nel capo di imputazione, prevede, per la esclusione della punibilità, che le falsità o le omissioni debbano, in via alternativa – come si legge anche nella relazione del Governo al decreto legislativo – 1) o non alterare in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, o 2) determinare una variazione del risultato economico di esercizio non superiore al 5% o 3) una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%; quale clausola di chiusura è previsto 4) che, comunque, le valutazioni estimative singolarmente considerate debbono differire in misura non superiore al 10% rispetto a quella corretta.

In conclusione, al giudice del merito resterebbe inibita l’affermazione di responsabilità per la fattispecie di false comunicazioni sociali, se gli risultasse non superata la soglia sub 4) che deve invece esserlo “in ogni caso”, sempre che in ragione del suo oggetto (valutazioni estimative), sia applicabile alla fattispecie concreta in discussione. Ma anche nella ipotesi di esito positivo della verifica sul superamento o sulla inapplicabilità di tale criterio al caso di specie, egli dovrebbe passare alla verifica – alternativa- del superamento della soglia sub 2) o sub 3) o, in caso di impossibilità, alla verifica quantomeno del criterio della “alterazione sensìbile” (vedi sul tema, analogamente, rv 235322).

Infatti la punibilità resterebbe esclusa in presenza della verifica del mancato superamento anche di una sola delle soglie previste le quali, come sottolineato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 161 del 2004, sono “elementi di tipicità del fatto”.

Esse, cioè, vanno verificate singolarmente nel modo detto, perchè sono requisiti di “delimitazione” dell’area di intervento della sanzione prevista dalla norma incriminatrice, e non possono essere considerate o trattate come elemento che abbia il solo scopo di “sottrarre” determinati fatti all’ambito di applicazione di altra norma, più generale.

Siffatta osservazione si traduce nel dovere, incombente sul giudice, di accertare in fatto il mancato superamento delle soglie secondo l’ordine e il rapporto di alternatività di cui si è detto o comunque di attestare – con giudizio sottoponile al pari del precedente alle denunzie ex art. 606 c.p.p. – la assenza di dati utili o la non pertinenza di una o più delle soglie al caso concreto: situazione, quest’ultima, che renderebbe sufficiente, per la punibilità, la prova del superamento anche di una soltanto delle soglie. Orbene, il calcolo che sul punto è stato effettuato dalla Corte d’appello a pag 28 della sentenza oggetto di ricorso, è stato esclusivamente quello di tipo percentuale, riferito alla ipotesi sub 3 appena citata.

Esso presenta l’evidente difetto di non contenere alcuna disamina sulla esistenza o meno, in atti, di elementi utili e idonei a verificare il superamento del parametro sub 4); quanto al controllo del parametro sub 3), il difetto di non porre, come misura di riferimento, quella del patrimonio netto relativo ad ognuno degli anni ai quali il calcolo stesso si riferisce, e tantomeno di considerare le falsità od omissioni ripartite per ciascuno degli anni di pertinenza.

Si legge infatti che la Corte d’appello ha valorizzato soltanto il dato dello stato patrimoniale accertato all’esito della verifica contabile sollecitata dal nuovo Cda insediato nel marzo 1990 e indicato in 5.839.598.960 lire “sia di attivo che di passivo” e, altresì, ha utilizzato le voci delle falsità od omissioni analizzate a pag. 6 e seguenti, ma esposte dagli ispettori, a quanto è dato comprendere, in forma “aggregata”con riferimento all’intero periodo (quasi decennale) preso in considerazione. Il computo dovrà dunque essere ripetuto- ed il rilievo vale, come si vedrà, anche in riferimento alla posizione degli altri ricorrenti che hanno formulato analoga questione – sempre che i dati a disposizione della Corte lo consentano e liberi i giudici di fare ricorso a tutti gli strumenti processuali previsti per l’incombente.

Allo stato, peraltro, non essendovi motivo per escludere che una nuova ed esaustiva motivazione possa essere resa in luogo di quella censurata, non trova applicazione il principio – peraltro enunciato per un caso in cui la modifica dei reati societari era intervenuta dopo la sentenza di appello, senza quindi che la Corte territoriale avesse potuto motivare al riguardo – secondo cui “la Corte di cassazione deve fare riferimento alla decisione impugnata, provvedendo, in caso di esito positivo della verifica, a definire il giudizio e, in caso negativo, ad annullare senza rinvio la decisione medesima, secondo la regola dell’art. 129 c.p.p., che impone l’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, prevalente anche sull’ipotesi di un’opposta conclusione cui dovessero condurre accertamenti ulteriori esperibili dal giudice di merito in caso di annullamento con rinvio” (Sez. U, Sentenza n. 25887 del 26/03/2003 Ud. (dep. 16/06/2003) Rv. 224606).

5) (motivi da 7 a 11 del ricorso dell’avv. Bottoni e motivo n. 4 del rie, avv. *****) la errata applicazione dell’art. 2 c.p., *******., artt. 203, 237, 5, 195, 216 e segg., nonchè degli artt. 2621 e 2622 c.c., ed altri, nonchè il correlato vizio di motivazione.

Sostiene la difesa, in primo luogo che la L. Fall., art. 237, nel testo introdotto con il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 99, prevede (nella prospettiva della configurazione dei reati fallimentari), che sia equiparato alla dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza accertato giudizialmente a norma della *******., artt. 195 e 202.

La difesa aveva chiesto inutilmente che fosse riconosciuta la non operatività di tale norma con riferimento al caso di specie, evidenziando che la Cooperativa Poker, non svolgendo attività commerciale (come del resto riconosciuto dal primo giudice in sentenza) non era neppure soggetta al fallimento; ed inoltre non aveva i requisiti per essere soggetta ad amministrazione straordinaria ai sensi del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 2; in terzo luogo era comunque mancato l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza.

E tale stato era soltanto rimasto oggetto di valutazione da parte del giudice del merito del processo in esame.

D’altra parte la difesa sostiene che anche gli artt. 2621 e 2622 c.c., sono stati modificati con novazioni che hanno comportato l’abolitio criminis delle corrispondenti figure di reato preesistenti, soprattutto con l’introduzione di nuovi elementi soggettivi (la intenzione di ingannare i soci e il fine di conseguire un profitto ingiusto) in ordine ai quali non vi era motivazione in sentenza.

In particolare il dolo dell’imputato avrebbe dovuto essere saggiato tenendo conto che i numerosi debiti della Cooperativa erano solo apparenti, che non erano state conteggiate le somme attribuite ai soci “recessi”, che somme dell’importo di 350 milioni di lire erano state incassate dal nuovo consiglio d’amministrazione e che, infine, non erano stati conteggiati i costi dei sei edifici realizzati in più.

Tali circostanze di fatto erano destinate a spiegare effetto anche ai fini del superamento (o meno) delle soglie di punibilità di cui all’art. 2621 c.c., e della determinazione dell’aggravante di cui alla *******., art. 219.

Partendo da analoghe rilevazioni in fatto, l’avv. ***** denuncia la violazione dell’artt. 521, 522 e 598 in relazione agli artt. 2621 e 2621 c.c..

L’imputato è stato chiamato a rispondere di reati societari come richiamati nell’ipotesi di bancarotta fraudolenta di cui alla *******., art. 223, comma 2, profondamente modificati dal D.Lgs. n. 61 del 2002.

La modifica ha riguardato sia il danno patrimoniale cagionato dalle dette false comunicazioni, sia l’elemento psicologico oggi individuato anche nella forma del dolo intenzionale, sia la previsione di soglie di non punibilità.

Tutti questi elementi sono stati ritenuti verificati dalla corte d’appello, pur in assenza di un supporto peritale e alla luce di consulenze che, essendo stati espletati anteriormente alla modifica legislativa, non potevano contenere tutti gli elementi utili per affermare la sussistenza del nuovo reato.

La corte d’appello avrebbe dovuto, in mancanza di perizia, far regredire il processo per consentire la contestazione delle nuove fattispecie mentre invece l’aveva ritenuta addebitabile, senza consentire che l’imputato potesse difendersi, ad esempio, con riferimento alla insussistenza del dolo intenzionale.

Il motivo è in parte infondato e per altra parte assorbito dall’accoglimento del precedente.

In ordine al tema della operatività della *******., art. 237, e al requisito della dichiarazione giudiziaria dello stato di insolvenza, si osserva, preliminarmente, che è attestato in sentenza – e il dato non risulta contestato nella sua specificità – che lo stato di insolvenza della Cooperativa Poker ha formato oggetto di sentenza del Tribunale di Messina in data 14 gennaio 1991, pronunciata su istanza di alcuni soci e di vari creditori. Risulta peraltro (a pagina 16 sent. imp.) che tale sentenza è stata opposta dall’interessato il quale ha così conseguito un ulteriore rigetto da parte del Tribunale di Messina in data 20 luglio 1996 con sentenza che, all’atto della pronuncia qui impugnata, era gravata da appello.

Appare dunque errata l’affermazione del ricorrente secondo cui difetterebbe nella specie l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza, dovendosi anche considerare che tale accertamento – al pari di quanto già rilevato dalle Sezioni unite di questa Corte sul tema del requisito costituito, per i reati fallimentari, dalla sentenza dichiarativa di fallimento (Sez. U, Sentenza n. 19601 del 28/02/2008 Ud. (dep. 15/05/2008 ) Rv. 239398) – non è sindacabile dal giudice penale investito del giudizio relativo ai reati di bancarotta. E’ del tutto valida anche nella materia della dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza, quale presupposto previsto dalla L. Fall., art. 237, per la applicazione delle norme di cui al titolo VI della L. n. 267 del 1942 (comprensivo delle norme in tema di bancarotta fraudolenta), nei casi in cui si proceda per la liquidazione coatta amministrativa, la osservazione contenuta nella sentenza delle SSUU del 2008 sopra citata, secondo cui nella struttura dei reati di bancarotta “la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale”, e non per i fatti con essa accertati. Sicchè, in quanto atto della giurisdizione richiamato dalla fattispecie penale, la sentenza dichiarativa di fallimento è insindacabile in sede penale.

Ed invero, l’articolo 195 della legge fallimentare prevede e disciplina esattamente, proprio per il caso in cui l’impresa non sia soggetta a fallimento, l’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza anteriore alla liquidazione coatta amministrativa da effettuarsi, ad opera del tribunale adito dai creditori, con sentenza emessa tenuto conto anche dei rilievi dell’autorità governativa che ha vigilanza sull’impresa: una sentenza soggetta ad opposizione, da discutersi in contraddittorio un commissario liquidatore.

Si tratta cioè di un accertamento giudiziario nel senso pieno del termine ed espresso in un provvedimento giurisdizionale che, per quanto soggetto a gravami al pari della sentenza dichiarativa di fallimento, non può essere oggetto di sindacato da parte del giudice penale.

Il fatto, poi, che la L. Fall., art. 237, nella parte in cui prevede l’equiparazione detta, sia dovuto ad una legge – la L. n. 270 del 1999 – successiva alla consumazione dei reati in discussione (determinata, appunto, dalla dichiarazione dello stato di insolvenza del gennaio 1991) non chiama in gioco il principio della irretroattività della norma penale e dei precetti integrativi.

Come, infatti, sottolineato in sentenza, la giurisprudenza di questa Corte, sia pure nel diverso ambito della disciplina della amministrazione straordinaria, ha già posto in evidenza come la equiparazione in questione non presentasse valore innovativo rispetto alla situazione precedente ma valore soltanto di recepimento di un orientamento giurisprudenziale già affermatosi per altra via interpretativa.

Orbene, la operatività dello stesso principio anche alla materia qui in esame appare evidente tenuto conto che, come già rilevato, prima della entrata in vigore della L. del 1999, da questa Corte, la sentenza dichiarativa di fallimento, di cui alla *******., art. 16, e la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, prevista dalla L. Fall., art. 195, per le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento, sono provvedimenti di identica natura e fine, avendo entrambi come presupposto lo stato di insolvenza e come scopo la tutela dei diritti dei creditori e l’attuazione di una procedura concorsuale. Comunque, ai fini penali, dal combinato disposto della *******., artt. 203 e 238, discende una completa parificazione tra le due procedure, sia sul piano delle norme di diritto sostanziale, sia su quello delle norme di diritto processuale. La *******., art. 203, comma 1, prevede infatti, una volta che sia accertato lo stato di insolvenza, l’applicabilità delle norme in tema di bancarotta e ricorso abusivo al credito ai soci, direttori generali, liquidatori, eccetera delle imprese soggette al regime di liquidazione coatta amministrativa (Sez. 5, Ordinanza n. 1249 del 23/11/1976 Cc. (dep. 15/12/1976) Rv. 134978).

In ordine ai limiti di incidenza della abrogazione formale della disposizione citata della *******., art. 203, si dirà appresso.

Per quanto poi concerne il tema della asserita abolitio criminis relativamente ai reati societari di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., la difesa denuncia la mancata rilevazione di tale abrogazione per effetto delle novelle del 2002 e del 2005, con riferimento al nuovo requisito delle soglie di punibilità e a quello rappresentato dall’elemento psicologico dei reati.

Si tratta peraltro di una doglianza articolata in maniera generica ed inammissibile posto che non viene dedotta, sulla base di dati concreti, la mancata dell’uno e dell’altro requisito con riferimento alle fattispecie contestate nell’imputazione e ritenute in sentenza.

Con particolare riferimento all’elemento rappresentato dalle soglie di punibilità, comunque, la giurisprudenza di questa Corte ha osservato in primo luogo che la nuova formulazione delle norme che prevedono i delitti di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 c.c.) e di bancarotta fraudolenta impropria “da reato societario” (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 223, comma 2, n. 1), ad opera, rispettivamente, del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, artt. 1 e 4, non ha comportato l’abolizione totale dei reati precedentemente contemplati, ma ha determinato una successione di leggi con effetto parzialmente abrogativo in relazione a quei fatti, commessi prima dell’entrata in vigore del citato decreto legislativo, che non siano riconducibili alle nuove fattispecie criminose (Sez. U, Sentenza n. 25887 del 26/03/2003 Ud. (dep. 16/06/2003) Rv. 224605).

Resta invece operativo per il caso di specie, con le conseguenze sopra evidenziate, il dovere del giudice, nelle fattispecie nelle quali le soglie percentualistiche risultassero improponibili per la impossibilità del raffronto di dati rilevanti con un risultato di esercizio (ad es. voci rendicontate in seno ai “conti di ordine”, informazioni afferenti la situazione finanziaria, relazioni, comunicazioni aventi ad oggetto un unico dato), attenersi al criterio della “alterazione sensibile” e verificarne la eventuale operatività nel caso concreto anche alla luce dei dati oggetto di contestazione nel capo di imputazione, dovendo – e solo in caso di soluzione negativa al problema – dare atto della abolitio criminis (Sez. 5, Sentenza n. 26343 del 15/06/2006 Cc. (dep. 27/07/2006) Rv. 235322).

Nel caso di specie, le premesse per effettuare la verifica ci sono atteso che il capo di imputazione contiene l’indicazione dell’ammontare delle false scritturazioni, analiticamente elencate, nell’ordine complessivo di oltre 2 miliardi di lire.

Per quanto poi concerne quello che la difesa ha prospettato come “ampliamento” del perimetro dell’elemento psicologico del reato, per effetto di legge sopravvenuta alla condotta in esame, basta qui ricordare, in primo luogo, l’insegnamento delle Sezioni unite nella sentenza Giordano sopra ricordata. Si è aggiunto, con orientamento costante, che, al fine di verificare se i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, siano sussumibili nell’attuale fattispecie criminosa di cui all’art. 2622 c.c., occorre che tutti gli elementi richiesti dalla nuova disciplina (quali, ad esempio, il superamento delle soglie di punibilità) siano stati contestati e abbiano formato oggetto di accertamento in contraddittorio. Ne consegue che nel giudizio di cassazione, nel quale la Corte è chiamata a decidere sulla base di un accertamento già compiuto dal giudice di merito, soltanto se i nuovi elementi non hanno formato oggetto di valutazione nella decisione impugnata, il fatto-reato rientra nell’ambito dell’abolitio criminis (Sez. 5, Sentenza n. 45712 del 03/10/2003 Cc. (dep. 26/11/2003) Rv. 226918).

Nel caso di specie, l’elemento psicologico dei reati societari, rappresentato dal dolo specifico dato dal fine di conseguire un ingiusto profitto e dalla intenzione di ingannare i soci o il pubblico – in luogo della corrispondente formula onnicomprensiva del “fraudolentemente” prevista nel previgente testo dell’art. 2621 c.c. – risulta oggetto di sostanziale contestazione all’interno di un capo d’imputazione che enuncia non solo la finalità fraudolenta delle false comunicazioni nelle relazioni, nei bilanci e nelle comunicazioni sociali, ma anche la falsa rappresentazione della situazione economico sociale e il danno patrimoniale che da essa è derivato ai soci, con corrispondente vantaggio economico per il R., con riferimento al quale si citano gli assegni emessi all’ordine di se stesso nonchè le diverse somme in lire oggetto delle false scritturazioni.

Tanto premesso – e fatta salva la eventuale incidenza del rinnovato accertamento concernente le soglie percentuali, sul detto elemento psicologico – deve rilevarsi che gli elementi che la difesa ha dedotto nel ricorso per sostenere la insussistenza dell’elemento psicologico del reato di false comunicazioni sociali, sono stati esposti come dati fattuali e come tali, nella presente sede, non apprezzabili direttamente, non potendo certo richiedersi alla Corte di cassazione di ritenere rilevanti argomenti semplicemente elencati, in maniera assertiva, dalla difesa quali quello dell’esservi stati soci “recessi” pagati con fondi della società o essersi provveduto alla costruzione di alloggi in più rispetto per le originarie previsioni. Tantomeno essi possono ritenersi rilevanti e incisivi, in questa sede, nella prospettiva del mancato raggiungimento delle soglie di punibilità o della prova sulla circostanza aggravante speciale del danno di rilevante gravità.

6) (motivo n. 12 del ricorso dell’avv. Bottoni e n. 4 del ricorso dell’avv. *****) La erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in tema di dolo.

Ad avviso della difesa avrebbe dovuto essere motivato il dolo specifico in riferimento al reato di cui al capo A) costituito dallo scopo di arrecare danno ai creditori o di trarre profitto per l’agente mentre, quanto al capo B) sarebbe necessaria la prefigurazione di una situazione di pericolo per la società.

Il motivo è Infondato.

Dell’elemento psicologico del reato di bancarotta fraudolenta da reato societario si è detto sopra, nel senso che occorre effettivamente la prova del doppio dolo specifico la quale, tuttavia, con riferimento agli accertamenti del giudice a quo ritenuti non meritevoli di censura, risulta bene argomentata, attesa la analisi delle singole ma anche numerose voci oggetto di falsificazione nella esposizione: una falsificazione che essendosi dimostrata plurima, articolata e perdurante nel tempo, mediante condotte artificiosamente funzionali alla rappresentazione di una realtà economica difforme dal reale, ha di fatto provocato anche un notevole danno, quantificato nei termini di cui all’imputazione (così pagina 26 sentenza impugnata). Quanto poi all’elemento psicologico del reato di bancarotta per distrazione di cui al capo B), è appena il caso di ribadire che il costante e condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità – correttamente richiamato anche nella sentenza impugnata – è nel senso che la fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione di cui alla prima parte della *******., art. 216, n. 1), non richiede il dolo specifico, e si perfeziona con il dolo generico, ossia la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. 5, sent. n. 11899 del 14/01/2010 Rv. 246357).

E ciò per la ragione che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo ed è pertanto irrilevante che al momento della consumazione l’agente non avesse neppure consapevolezza dello stato d’insolvenza dell’impresa per non essersi lo stesso ancora manifestato (vedi – con la eccezione di Rv. 253493, unico e isolato precedente contrario -, Sez. 5, Sent n. 44933 del 26/09/2011 Ud. (dep. 02/12/2011) Rv. 251214; N. 16579 del 2010 Rv. 246879; N. 9299 del 2009 Rv. 243162; N. 36088 del 2006 Rv. 235481; N. 3555 del 2006 Rv. 233413; N. 29896 del 2002 Rv. 222388;, N. 8327 del 1998 Rv. 211366, N. 12897 del 1999 Rv. 214863; N. 15850 del 1990 Rv. 185883; N. 12762 del 1989 Rv. 182121,) così come è irrilevante la configurazione di uno scopo dell’agire nel senso di provocare un effettivo pregiudizio ai creditori. Vi è anche da considerare che la previsione del danno per i creditori e del correlato pericolo per la società, da parte del soggetto che compia atti di distrazione, pur valorizzata dal filone giurisprudenziale citato nel ricorso, non costituisce tuttavia, neppure per la stessa giurisprudenza che lo ha menzionato (Sez. 5, Sentenza n. 29896 del 01/07/2002 Ud. (dep. 20/08/2002) Rv. 222388 ; Sez. 5, Sentenza n. 7555 del 30/01/2006 Rv. 233413) elemento capace di trasformare il descritto dolo generico in altro tipo di dolo: e comunque non in dolo specifico, atteso che è la stessa giurisprudenza in questione a chiarire che la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell’impresa include, di norma, anche quella di compiere atti previsti e accettati come capaci di cagionare danno alle ragioni dei creditori, con la conseguenza che l’agente, il quale non abbia perseguito o comunque previsto e accettato anche tale risultato, è tenuto quantomeno ad allegare – comunque tempestivamente e nella sede deputata seri principi di prova circa I’ avere agito senza quella previsione e, ancor più, in assenza di qualsivoglia volontà in tal senso dando conto del fine alternativo perseguito, utile per le sorti economiche e strategiche della società.

Una evenienza che, nella specie, non solo non si è verificata ma che si è cercato di accreditare in punto di fatto, in una sede non propria quale quella della legittimità.

7) (motivo n. 13 del ricorso dell’avv. Bottoni) La violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza (artt. 521 e 522 c.p.p.).

La difesa torna a rilevare che il reato contestato è stato addebitato all’imputato alla luce della *******., art. 237, che però non figurava nella originaria formulazione dell’imputazione, ove era citato la L. Fall., art. 203: una norma che, non solo è stata abrogata per effetto del D.Lgs. n. 270 del 1999, ma che per di più, a differenza dell’art. 237, non prevedeva l’estensione della fattispecie di reato in contestazione alla liquidazione coatta amministrativa.

Inoltre la nuova norma, a differenza della vecchia, subordina l’estensione delle disposizioni penali in materia di fallimento all’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza: un accertamento non effettuato nel caso di specie nel quale ci si è limitati ad una valutazione sostanziale sulla base delle relazioni degli ispettori.

Il motivo è infondato.

Era stato contestato, nell’originario capo di imputazione, la L. Fall., art. 203, all’epoca vigente, il quale – collocato nel titolo V, dedicato alla liquidazione coatta amministrativa – prevedeva, dopo che all’art. 195, era stato disciplinato l’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza anteriore alla liquidazione coatta amministrativa nei confronti dell’impresa non soggetta a fallimento, che nei confronti degli amministratori e di altri soggetti specificamente indicati dovessero applicarsi le disposizioni in tema di reati fallimentari di cui agli artt. 216 – 219 e 223 – 225 (collocate invero nel successivo titolo VI). Tale disposizione è stata abrogata per effetto del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 99, una normativa dedicata in via principale alla amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. Quella dell’art. 99, è dunque una disposizione, dichiaratamente “di coordinamento” con la residua disciplina fallimentare e dedicata alla “modifica della disciplina penale della liquidazione coatta amministrativa”: con essa si è, si, abrogata formalmente (primo comma), la parte sopra indicata della citata *******., art. 203, ma anche, contestualmente e specularmente,al secondo comma, si è rimodulato l’art. 237 (norma compresa nel Titolo VI, dedicato alle disposizioni penali) prevedendo con tale rinnovato precetto, collocato nel Capo III e dedicato alle disposizioni applicabili in caso di liquidazione coatta amministrativa, che l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza a norma degli artt. 195 e 202, è equiparato alla dichiarazione di fallimento ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente titolo. Una norma di coordinamento, dunque, resa necessaria dopo che lo stesso D.Lgs. del 1999, precedente art. 95, aveva confermato, per il caso di dichiarazione di insolvenza previsto dall’art. 3, per le grandi imprese soggette ad amministrazione straordinaria, la stessa equiparazione dello stato di insolvenza alla dichiarazione di fallimento ai fini della applicazione delle norme penali previste in tema di bancarotta: una equiparazione della quale, peraltro, la giurisprudenza sopra menzionata ha già riconosciuto natura non innovativa ma meramente ricognitiva e ricettiva di quanto già rilevato in via interpretativa in precedenti sentenze (così Cass. N. 27513 del 2004, rv. 228698).

Appare, dunque, del tutto apodittico affermare, come fa la difesa, che prima della riforma del 1999, come apportata alla *******., art. 237, l’amministratore della società di cui fosse stato dichiarato lo stato di insolvenza e posta in liquidazione coatta amministrativa non rispondesse dei reati previsti nel caso della dichiarazione di fallimento, essendo univoco il tenore della disposizione dell’art. 203, inserita nel capo d’imputazione e poi espunta perchè formalmente abrogata, ma, per tale aspetto, in rapporto di continuità normativa con quanto disposto dall’art. 237, contemporaneamente modificato. Del resto, a sostegno di tale assunto, basterebbe ricordare la giurisprudenza che ha indicato nella sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza il momento consumativo del reato di bancarotta previsto in caso di procedura volta alla liquidazione coatta amministrativa (vedi Sez. 5, Sentenza n. 2136 del 09/12/1999 Rv. 215477, relativa a fatti antecedenti alla riforma del 1999).

Non si apprezza, in conclusione, alcun mutamento sostanziale tra contestazione e condanna.

Quanto alla mancanza – denunciata dalla difesa – di un accertamento giudiziale sullo stato di insolvenza, vale la contraria constatazione come sopra illustrata e l’ulteriore rilievo che l’accertamento dovuto alla sentenza del gennaio 1991, non sindacabile nella sede penale alla luce dei principi formulati sul tema dalle Sezioni unite, sopra ricordati, rende anche irrilevante l’accertamento incidentale che, sull’argomento, i giudici del merito hanno effettuato: evidentemente in osservanza del filone giurisprudenziale che tale accertamento richiedeva, ma prima che si pronunciassero, in senso totalmente difforme, le Sezioni unite penali.

8) (motivi nn. 14 e 15del ricorso dell’avv. Bottoni). La violazione del principio di terzietà del giudice, atteso che vi erano stati, nella trattazione del processo, soggetti che avevano svolto le funzioni di pubblico ministero, pur avendo svolto, in precedenza, funzioni giudicanti nello stesso processo o in altro la cui sentenza conclusiva era stata prodotta ai fini di quello in esame.

Alcuni componenti del collegio che aveva emesso la sentenza impugnata, inoltre, avevano fatto parte del collegio di primo grado per alcune udienze.

La difesa ritiene che tali comportamenti – pure in un caso sottoposti, con dichiarazione di ricusazione, alla decisione del competente organo, davano luogo ad altrettante violazioni di legge o vizi di motivazione.

Il motivo è infondato E’ la stessa difesa a sottolineare che allorchè la questione ha formato oggetto di dichiarazione di ricusazione (come nel caso del consigliere Ga.Mi., estensore della sentenza impugnata), essa è stata regolarmente vagliata e respinta dal giudice competente.

Per altro verso è evidente che il principio terzietà del giudice è inopportunamente evocato con riferimento al pubblico ministero il quale non è giudice terzo ma è una parte processuale e per tale ragione non è neppure ricusabile (rv 190691).

D’altra parte la costante giurisprudenza osserva che le incompatibilità delle quali la difesa si lamenti devono essere fatte valere esclusivamente con istanza di ricusazione e, non incidendo sulla capacità del giudice, non determinano la nullità del provvedimento adottato ma costituiscono, appunto, esclusivamente motivo di ricusazione, che deve essere fatto valere tempestivamente con la procedura di cui all’art. 37 c.p.p. (Sez.5, Sent. n. 13593 del 12/03/2010 Rv. 246716; precedenti conformi: N. 30448 del 2003 Rv. 226572, N. 40651 del 2006 Rv. 236307; Sezioni Unite: N. 5 del 1996 Rv. 204464, N. 23 del 2000 Rv. 215097).

9) (motivi 16 e 17 del ricorso dell’avv. Bottoni e n. 9 del ricorso dell’avv. *****). Il vizio della motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Tale decisione è stata motivata alla luce di un precedente penale della stessa indole (violazione dell’art. 2630 c.c.) per reato che però è stato depenalizzato, tanto che la relativa sentenza è stata revocata dalla Corte d’appello di Messina con provvedimento del 27 settembre 2002.

La Corte d’appello, ciò nonostante, aveva confermato la statuizione del primo giudice ma non aveva considerato, nel giudizio sulla ritenuta gravità del fatto, che, come si voleva dimostrare attraverso la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, i soci del secondo lotto non avevano subito un pregiudizio economico al pari di quelli del primo lotto: ciò è tanto vero che la società era tornata in bonis in epoca precedente alla sentenza impugnata.

L’avv. ***** ha anche sottolineato il buon comportamento tenuto dall’imputato negli ultimi trenta anni.

Il motivo è infondato.

Nella sentenza impugnata si legge che le circostanze attenuanti generiche sono state negate al R. non già in relazione a precedenti penali (richiamati solo per G.), ma soltanto in ragione del ruolo preminente assunto del ricorrente e, come descritto anche nel capoverso precedente della motivazione, delle modalità della condotta e della rilevanza del danno procurato alla compagine sociale, danno in ordine al quale la difesa sostiene che avrebbe voluto provare, con una tardiva richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, il venir meno nonostante che non risulti neppure che la costituzione di parte civile dei soci, nel presente processo, siano state revocate o fatte oggetto di rinuncia.

Si deduce ancora, nell’interesse di R., con ricorso dell’avv. *****:

1) La insussistenza dei reati di cui ai capi A e B della rubrica in dipendenza del fatto che non erano stati depositati i bilanci per due anni consecutivi e che a tale fatto l’art. 2544 c.c., riconduce l’effetto della perdita della personalità giuridica. Ulteriore effetto era quello della riconoscibilità, in capo all’imputato R., della sola qualità di socio di una cooperativa non svolgente impresa commerciale e quindi non soggetto al fallimento ma neppure alle disposizioni penali della legge fallimentare la cui applicabilità era prevista dalla L. Fall., art. 203, abrogata nel 1999.

Il motivo è infondato per le ragioni che si illustreranno in risposta ad analogo motivo (il n. 1) articolato nel ricorso dei ricorrenti difesi dall’av. *********.

2) La violazione degli artt. 605 e 125 c.p.p., in relazione agli artt. 2621 2622 c.c..

La difesa lamenta che la sentenza impugnata ha valorizzato la diminuzione patrimoniale per i soci ossia il danno che sarebbe stato ad essi cagionato: un elemento strutturale della fattispecie di cui all’art. 2622 c.c., che non è stato contestato nell’imputazione ove è menzionato il solo art. 2621 c.c..

D’altra parte, la assertività dell’affermazione è dimostrata dal fatto che non tutti i soci si sono costituiti parte civile e tanto meno la cooperativa Poker.

Il motivo è manifestamente infondato sol che si osservi che l’elemento in questione risulta espressamente citato e contestato nel capo di imputazione sub A) mentre per la sua insussistenza la difesa ricorre ad elementi di fatto non verificabili per la prima volta nella sede della legittimità.

3) la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine al capo B).

Lamenta la difesa che nell’affermazione della responsabilità per tale reato la Corte d’appello ha individuato, quale conseguenza della distrazione e della dissipazione, un danno patrimoniale non già alla cooperativa ma ai soci ed ai creditori, neppure individuati nominativamente. Ed invece non era stato considerato che tali soci non avevano subito danni, in mancanza della prova che ad essi non fossero stati consegnati gli appartamenti previsti nello statuto societario. A tali soci, infatti, non era stata riconosciuta neppure la provvisionale e il danno è stato rimesso al giudice civile per l’accertamento.

Inoltre, ai fini del calcolo della detta distrazione, non era stata considerata la costruzione di ulteriori sei appartamenti non previsti nel capitolato d’appalto.

Avrebbe dovuto infine essere valorizzata la buona fede dell’imputato il quale, a tal fine, aveva richiesto alla Corte d’appello, a prova contraria, l’esame del commercialista, il quale teneva la contabilità in maniera del tutto autonoma rispetto a direttive del ricorrente.

Il motivo è infondato. Come sopra già ricordato, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha più volte sottolineato che il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo e non è dunque necessario, per la sua sussistenza, la prova che la condotta abbia causato un effettivo pregiudizio ai creditori, il quale rileva esclusivamente ai fini della eventuale configurabilità dell’aggravante prevista dalla L. Fall., art. 219 (Sez. 5, Sentenza n. 11633 del 08/02/2012 Cc. (dep. 26/03/2012) Rv. 252307).

Si è anche osservato che nel reato di bancarotta fraudolenta, poichè il bene tutelato è l’interesse dei creditori all’integrità dei mezzi di garanzia, vengono perseguiti, non solo i fatti che ai suddetti creditori cagionano danno, ma anche quelli che possono cagionarlo. Trattasi, infatti, di reato di pericolo, del quale il danno non è, quindi, elemento costitutivo e nel quale l’eventuale verificarsi dell’evento pregiudizievole viene in rilievo solo ai fini della valutazione dell’aggravante di cui alla *******., art. 219 (Sez. 5, Sentenza n. 12897 del 06/10/1999 Ud. (dep. 11/11/1999) Rv. 214860).

Quanto alla questione dipendente dall’incarico dato al commercialista, si nota che la difesa tenta di superare il principio di diritto applicato dai giudici del merito (RV 197268), della indifferenza di tale nomina, con osservazioni versate in fatto e quindi non apprezzabili.

4) La prescrizione dei reati.

Avrebbero dovuto applicarsi nuovi termini di prescrizione ovvero sollevarsi la questione di legittimità costituzionale della disposizione transitoria che lo impedisce.

Contesta inoltre la difesa i calcoli della sospensione del termini prescrizionale, così come già fatto nel ricorso dell’avvocato *******.

Il motivo di ricorso è infondato.

La normativa sulla prescrizione applicabile al caso di specie, nel quale la sentenza di primo grado è stata emessa nel 2001, è quella dipendente dalla vecchia disciplina in base alla norma transitoria come modificata con sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 2006.

In tal senso è consolidata la giurisprudenza di questa Corte che ha rilevato come, ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli (Sez. U, Sentenza n. 47008 del 29/10/2009 Ud. (dep. 10/12/2009) Rv. 244810).

La ulteriore questione di legittimità costituzionale della disciplina transitoria, sollecitata nel ricorso, è già stata dichiarata infondata da Corte costituzionale con sentenza n. 236 del 2011.

In ordine ai calcoli delle sospensioni del termine di prescrizione si rinvia a quelli indicati in risposta al motivo 5 degli altri imputati.

Qui si osserva che la sospensione dovuta alla pendenza di altro procedimento ex art. 479 c.p.p., non è esclusa da alcuna inerzia addebitabile al giudice il quale, allo scadere dell’anno, “può” revocare la ordinanza sospensiva.

Inoltre, la norma dell’art. 47 c.p.p., che prevede la sospensione del processo “fino alla ordinanza di inammissibilità”in caso di richiesta di rimessione del processo, è norma speciale e non soggiace alla regola generale del limite dei 60 giorni prevista dall’arti 59 per i rinvii a richiesta di parte.

Sono state presentate poi due memorie con motivi nuovi: una a firma dell’avv. *****, in data 16 novembre 2012 e l’altra a firma dell’avv. Bottoni, in data 28 novembre 2012, contenenti il rinnovo delle precedenti doglianze.

Deducono G., D., N. e G., con ricorso dell’avv. *********.

1) La violazione dell’art. 2544 c.c., e dell’art. 2 c.p..

Si sostiene che con la L. n. 59 del 1992, art. 18, (“Nuove norme in materia di società cooperative”) era stato modificato ed integrato l’art. 2544 c.c., con l’aggiunta della previsione che “le società edilizie di abitazione e i loro consorzi che non abbiano depositato in tribunale nei termini prescritti i bilanci relativi agli ultimi due anni sono sciolte di diritto e perdono la personalità giuridica”.Una simile evenienza, da ritenersi valida e operativa, secondo la giurisprudenza della Cassazione civile (sentenza numero 15475 del 2001), anche per la le condotte omissive verificatesi prima dell’entrata in vigore della legge, produce effetti di diritto, a prescindere cioè dalla liquidazione del patrimonio della cooperativa o dalla sua formale cancellazione dal registro delle imprese: e ciò, al fine di coinvolgere direttamente i soci nel controllo dell’adempimento delle formalità di deposito del bilancio. L’effetto ulteriore, secondo la giurisprudenza della Cassazione civile, è quello non della estinzione della società ma della perdita dell’autonomia patrimoniale qualificabile in termini di personalità giuridica e la assunzione di responsabilità illimitata in capo ai soci, per le obbligazioni sociali.

Tali conclusioni sono state fatte proprie dalla Corte d’appello la quale, a pagina 22 e 23 della sentenza impugnata, non avrebbe però, secondo la difesa, tratto le dovute conclusioni. Ed invero la Cassazione civile, nella sentenza citata, aveva evidenziato che, dopo la perdita della personalità giuridica dovuta all’omesso deposito dei bilanci per due anni, i rapporti successivamente realizzati non possono che essere imputati alla società priva di autonomia patrimoniale perfetta e, dunque, ai soci illimitatamente responsabili, le obbligazioni sociali.

Orbene, prosegue la difesa, nella sentenza impugnata non era stato considerato che i bilanci relativi al 1986 e 1987 erano stati depositati tardivamente “come accertato dalla cancelleria del Tribunale di Messina con attestazione allegata (le) alla relazione”.

Il giudice dell’appello avrebbe dovuto inferire da ciò che, sin dal 1988 la società di cui all’imputazione aveva perso la personalità e quindi doveva essere considerata alla stregua di una società in nome collettivo, società che, come è noto, essendo priva di personalità giuridica non è soggetta nè alla liquidazione coatta nè al reato di bancarotta: e ciò in quanto non erano più configurabili gli organi sociali propri delle società di capitali ed inoltre in quanto non può essere dichiarata fallita la società che non abbia svolto, come nella specie, attività commerciale.

In altri termini tutti i soci diventano solidalmente responsabili di tutte le pregresse e successive obbligazioni attive e passive e gli odierni ricorrenti non potrebbero più essere considerati responsabili in ragione delle loro cariche sociali, non più esistenti: tantomeno responsabili di un danno verso gli altri soci che, con riferimento ai rapporti e alle obbligazioni sociali, sono oggi nella stessa posizione giuridica dei ricorrenti.

Tale ragionamento è tanto più valido in quanto si consideri che già nella sentenza di primo grado (a pagina 29), le pretese passività addebitate agli imputati sono relative ai bilanci dal 1986 in avanti e quindi a quelli riferibili alla società già priva di personalità giuridica.

Il motivo è inammissibile.

Esso – peraltro, con la erronea indicazione del punto della motivazione interessato (che è a pagina 20 e 21) – è illustrato con riferimento ad una norma, l’art. 2544 c.c., il cui testo, per la cronaca, risulta essere stato integralmente modificato assieme a tutto il Capo I (dedicato alle società cooperative) del Titolo VI, del Libro quinto del lavoro, per effetto del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, con eliminazione anche dell’inciso che qui interessa (in parte rifluito nell’art. 2545 quaterdecies c.c.).

Ebbene, considerazione preliminare e decisiva al riguardo, è che, come già posto in evidenza nell’esaminare i motivi di ricorso articolati nell’interesse del ricorrente R. (v. retro pag.

12), l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza, effettuato con sentenza del Tribunale di Messina del 14 gennaio 1991 non è sindacabile, quanto ai presupposti per la relativa declaratoria, ad opera del giudice penale investito del giudizio sul reato di bancarotta fraudolenta, basato sulla detta dichiarazione giudiziale.

E ciò, in applicazione dei già richiamati principi – validi anche per la materia in esame – espressi dalle Sezioni unite nella sentenza n. 19601 del 2008.

Da tale rilievo discende che, pertanto, in modo irrilevante la difesa articola, nella presente sede, la questione del presunto scioglimento di diritto della Cooperativa Poker dovuto al mancato deposito, per un biennio, dei relativi bilanci: si tratta infatti di una problematica che, essendo, nella prospettiva dei ricorrenti, capace di inficiare e delegittimare, la procedura di liquidazione coatta amministrativa, può essere sottoposta soltanto al competente giudice civile, dando luogo eventualmente e nella ipotesi del su apprezzamento, ai rimedi speciali previsti, anche a titolo di revisione del giudicato, nella sede penale. Anche oltre il principio enunciato dalle Sezioni unite sopra citate, d’altra parte, vi sarebbe stata da considerare la giurisprudenza civile in tema di obbligazioni e trasformazione della società, essendosi da essa affermato che le conseguenze della trasformazione non giungono ad eliminare le responsabilità assunte nella precedente struttura societaria (Rv. 360243).

Ciò posto, la questione risulterebbe comunque inammissibile dal punto di vista procedurale, in ragione della sua concreta formulazione.

La denuncia della difesa è mossa, invero, a partire da un dato storico non apprezzabile da questa Corte di cassazione, data la sede di legittimità: e cioè, quello secondo cui i bilanci relativi al 1986 al 1987 sarebbero stati depositati tardivamente, con l’effetto di avere determinato lo scioglimento di diritto della cooperativa e la decadenza di tutte le cariche sociali.

Deve notarsi, tra l’altro, che nella sentenza impugnata non è stato trattato lo specifico tema della prova sul fatto del ritardato deposito dei bilanci, posto che la questione appare esaminata soltanto in ordine alla sua astratta capacità di incidere sul ragionamento accusatorio, capacità che è stata esclusa dal giudice del merito con riferimento al periodo precedente al presunto scioglimento di diritto.

Il ritardo nel deposito è invero attestato soltanto con riferimento al bilancio del 1989 (pagina 28 sentenza). Tale osservazione è in sè dotata, come detto, di rilievo ugualmente decisivo posto che l’effetto della scioglimento di diritto non risulta comprovato neppure nei suoi astratti presupposti con riferimento agli accertamenti contenuti nelle sentenze di merito.

Va poi notato – quanto alla affermazione della difesa secondo cui le irregolarità si riferirebbero ai bilanci relativi al 1986 e anni successivi- che, in senso contrario, a pagina 7 della sentenza impugnata si recepisce l’affermazione del primo giudice secondo cui era emersa una serie di notevoli discordanze tra le risultanze delle scritture contabili e le poste dei bilanci relativi al periodo 1981- 1988 (pagina 20 e seguenti della relazione); inoltre, a pagina 8 e seguenti, tale dato risulta esposto in forma destrutturata con riferimento alle singole voci falsificate e con riferimento al medesimo periodo, per di più prolungato fino al 1990. La conclusione, riportata a pagina 12 come oggetto di accertamento già del primo giudice, è quella secondo cui la continuità temporale dei comportamenti illeciti è sfociata nella falsità di tutti i bilanci dal 1981 al 1989 e che un simile accertamento risulta riconosciuto anche da parte del consulente della difesa il quale si è limitato a sostenere la coincidenza tra i saldi di bilancio e le scritture contabili con esclusivo riferimento al 1989 ma non per tutte le annualità precedenti.

E rispetto a tale affermazione dei giudici del merito, il ricorso nulla osserva di specifico, così risultando, anche per tale aspetto, inammissibile perchè non volto a colpire le specifiche argomentazioni del giudice del merito: nel punto, poi, in cui esso contiene una contestazione, essa è articolata in punto di fatto e quindi risulta inammissibile, come nella parte cui si sostiene che il primo giudice avrebbe accertato condotte penalmente rilevanti solo successive al 1986.

2) La violazione della L. n. 400 del 1975, art. 1.

Tale disciplina speciale, relativa alla procedura di liquidazione coatta amministrativa delle cooperative, a sua volta legittimata dalla L. Fall., del 1942, art. 194, del titolo 5^, che richiamava le leggi speciali sulla applicazione della procedura a diversi enti, faceva riferimento e richiamo alle norme generali previste dal citato titolo 5^: che, per l’appunto, che si apre con l’art. 194 si chiude con la L. Fall., art. 215.

E’ per tale ragione che la sottoposizione degli amministratori di tali cooperative alle disposizioni penali previste, nel successivo titolo 6^, dall’art. 216 e ss., è stata richiamata espressamente dall’art. 203, del titolo 5^, e deve ritenersi venuta meno dal momento in cui l’art. 203, è stato abrogato con D.Lgs. n. 270 del 1999.

Nè a tale conclusione può essere di ostacolo la nuova formulazione dell’art. 237 (norma che prevede l’equiparazione, ai fini che qui interessano, tra lo stato di insolvenza accertato giudizialmente e il fallimento), posto che tale norma è compresa nel titolo 6^ della legge fallimentare, e dunque non è compresa nel richiamo operato dalla legge speciale sulla liquidazione coatta amministrativa delle cooperative.

Il motivo è infondato.

Sulla questione del rapporto di continuità normativa tra l’art. 203 e la L. Fall., art. 237, per quanto qui di interesse, si è già risposto retro a pag. 16 replicando al motivo n. 13 del ricorso presentato nell’interesse di R..

Il profilo qui evidenziato dai ricorrenti, tutto incentrato sulla natura di disciplina speciale per le cooperative edilizie della L. n. 400 del 1975, art. 1, e del suo specifico richiamo soltanto alle disposizioni sulla liquidazione coatta previste nel titolo 5^ della legge fallimentare (e non anche al titolo 6^, ove sono collocate le disposizioni penali), non tiene conto del fatto che il rinvio operato dalla detta legge speciale non può che ritenersi di tipo “mobile” e non fisso: ossia concernente non solo le disposizioni espressamente richiamate ma anche le successive modifiche di queste, in quanto compatibili.

Ciò si ricava dalla osservazione secondo cui anche il richiamo alle disposizioni sulla liquidazione coatta contenute nel titolo 5^, dovendo essere ritenuto comprensivo dell’art. 203 che a sua volta espressamente richiamava gli artt. da 216 a 219 e da 223 a 225, si risolveva, già in origine, nel richiamo di una serie di norme del titolo 6^ e, in particolare, di quelle ex artt. 216 e 223 qui di rilievo.

E’ pertanto condivisibile il ragionamento del giudice di secondo grado secondo cui la disposizione del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 99, non ha prodotto una abolitio criminis, non avendo fatto che trasferire dalla L. Fall., dall’art. 203 all’art. 237 la previsione di applicazione – per quanto qui di interesse – della *******., artt. 216 e 223, agli amministratori e agli organi di vigilanza delle società cooperative soggette alla dichiarazione dello stato di insolvenza nella prospettiva della liquidazione coatta amministrativa.

In altri termini, la genesi della modifica apportata alla *******., art. 237, dal D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 99, è quella della predisposizione, pur a margine di un decreto volto a disciplinare la amministrazione straordinaria delle grandi imprese, di una disposizione di coordinamento con quale si sono fatte rifluire, in una fattispecie onnicomprensiva, delle previsioni parcellizzate di responsabilità prima così concepite nell’art. 203.

Ovviamente non può dirsi che la previsione della *******., art. 237, come attualmente vigente, comporti la generale applicabilità di tutte le disposizioni penali previste per il fallito anche all’amministratore della cooperativa, come già rilevato da questa Corte di legittimità, ad esempio, con riferimento alla previsione incriminatrice della *******., art. 220, (quanto al’obbligo di procedere al deposito dei bilanci e della scritture contabili), rispetto alla quale si è ritenuto che non si applichi all’imprenditore soggetto a liquidazione coatta amministrativa(Sez. 5, Sentenza n. 9724 del 06/02/2004 Ud. (dep. 03/03/2004) Rv. 228760).

3) La violazione dell’art. 2621 c.c. e segg., nonchè della *******., art. 216 e segg..

Rileva la difesa come la modifica apportata alla *******., art. 223, comma 2, dalla L. n. 61 del 2001, ha introdotto elementi di novità- quale quello rappresentato dalle soglie di punibilità – rispetto ai quali la fattispecie concreta va verificata sia in punto di contestazione che in punto di prova.

Sotto tale aspetto va rilevato che il giudice dell’appello ha verificato il superamento della soglia di punibilità soltanto con riferimento al bilancio del 1989 mentre, posto che la tesi accusatoria è quella della falsità di tutti i bilanci dal 1980 1988, mancherebbe la relativa verifica in sentenza.

Oltre a ciò la difesa contesta che potessero ritenersi superate le soglie di punibilità secondo il calcolo effettuato dalla Corte d’appello che ha preso in considerazione soltanto quella dell’1% del patrimonio netto della società mentre avrebbe dovuto estendere la verifica alla percentuale del 10% prevista dalla norma in esame.

D’altra parte, anche la soglia dell’1% era stata ritenuta superata in base ad un calcolo opinabile e non plausibile, effettuato sulla base dei rilievi del consulente del pubblico ministero il quale aveva arrestato la propria analisi alla qualità della tenuta della contabilità e non anche ai rapporti con le imprese appaltatrici ed in particolare con i fornitori.

Si rendeva pertanto necessaria la perizia richiesta dalla difesa che avrebbe dovuto tenere conto di tutti tali rapporti documentati dagli atti che la difesa intendeva produrre e che aveva posto a disposizione del Tribunale, è vero, nel 2001, ma senza che tale ritardo potesse imputarsi la sua colpa dopo che le udienze dal 1993 al 1997 si erano protratte per questioni solo formali ed il sequestro della documentazione si era reso necessario nei confronti dei nuovi amministratori della cooperativa che non intendevano consegnare la documentazione.

In particolare si poteva acquisire e valutare la sentenza di omologazione del concordato della liquidazione coatta, intervenuto nel 2002, e dimostrativa del fatto che il patrimonio della cooperativa era nettamente superiore ai debiti.

Quanto al reato sub B), sarebbe emerso che le spese erano state tutte approvate dall’assemblea dei soci.

Il motivo è fondato con riferimento al capo A) e nei limiti già evidenziati sopra a pae. 8 e segg., a proposito della disamina della analoga questione posta nell’interesse del ricorrente R..

Viceversa, il motivo in esame è inammissibile per quanto concerne il capo B) dal momento che è fondato su rilievi in fatto che questa Corte di legittimità non può apprezzare.

4) La violazione degli artt. 2381, 2392 e 2403 c.c..

La responsabilità degli amministratori e dei sindaci era stata affermata sulla base dell’omesso adempimento dei doveri di vigilanza e di controllo.

Una simile affermazione non teneva, tuttavia, conto della nuova normativa di cui all’art. 2381 c.c. e segg., che ha mutato gli obblighi previsti per gli amministratori senza delega e per i sindaci,, essendo richiesto dalla vigente disciplina non la semplice conoscibilità delle condotte dell’amministratore ma la effettiva conoscenza dei fatti che avrebbero dovuto essere impediti (Cass. sentt. n. 23838 del 2007 e n. 36595 del 2009).

Per quanto riguarda la posizione dei sindaci, la stessa regola doveva farsi discendere dal nuovo disposto dell’art. 2403 c.c..

Il motivo è infondato.

Lo stato della giurisprudenza è esattamente quello evocato dal ricorrente ma non risulta che la sentenza impugnata si sia posta in contrasto con tale orientamento.

Non appare, in altri termini, che la responsabilità degli amministratori e dei sindaci sia stata costruita, dai giudici del merito, quale effetto di un comportamento meramente negligente e omissivo, essendo stato, piuttosto, evidenziato a pagina 33 e seguenti e poi ancora a pagina 38 che la situazione contabile emersa è stata fonte di gravissime irregolarità e corrispondente ad uno “sfacelo contabile” per la sua eclatante evidenza, chiara anche agli occhi del profano e quindi tale da costituire – unitamente a quella dei notevolissimi ammanchi verificati – il frutto di un disegno non soltanto personale del R. ma anche colpevolmente tollerante da parte degli altri consiglieri e sindaci sui quali incombeva l’obbligo di impedire l’evento.

Si tratta di una valutazione in fatto che, per la sua plausibilità, si sottrae all’ulteriore sindacato da parte della cassazione.

5) La prescrizione del reato.

Ad avviso della difesa la sospensione della prescrizione era stata calcolata in maniera errata, essendo stati computati 42 mesi durante i quali questa non era operante.

In particolare non doveva calcolarsi periodo compreso fra il 12 febbraio 1993 e il 13 dicembre 1996, decorso per effetto della sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 479 c.p.p., essendo pendente il giudizio civile di opposizione avverso la sentenza del Tribunale dichiarativa detto stato di insolvenza.

Sostiene la difesa di tale sospensione era tamquam non esset, essendo stata disposta senza l’accertamento del requisito presupposto.

Inoltre, trascorso un anno dalla originaria declaratoria di sospensione, il giudice avrebbe potuto fissare il processo sicchè, a partire dall’13 febbraio 1994 e fino al 13 dicembre 1996 (mesi 34) il termine per la prescrizione non era rimasto sospeso.

Oltre a ciò la difesa evidenzia che a partire dal 16 maggio 2009 fino al 27 gennaio 2010 (e cioè per mesi 8 e giorni 11) era pendente la questione della rimessione del processo su istanza della difesa.

La Corte territoriale, tuttavia, aveva disposto la sospensione della prescrizione ma non anche quella del processo che è la causa della sospensione della prescrizione ai sensi dell’art. 159 c.p., secondo quanto disposto dall’art. 47 c.p.p..

2^ motivo – essendo il tema in questione. *** affrontato in replica al punto n. 4 dietro illustrato con riferimento al ricorso dell’avv. ***** – è infondato.

La sospensione del dibattimento ai sensi dell’articolo 479 viene disposta dal giudice il quale apprezza l’esistenza di una controversia civile di particolare complessità dalla quale dipende l’esistenza del reato. Non risulta che tale ordinanza sia stata impugnata dalla parte ricorrente, quanto alla sussistenza dei presupposti, unitamente alla sentenza.

D’altra parte, la sospensione del processo dovuta al deferimento della questione ad altro giudizio, è prevista dall’art. 159, comma 1, n. 2 come causa di sospensione della prescrizione ex lege, senza ulteriori condizioni.

Per quanto concerne la sospensione dichiarata dal giudice a seguito della richiesta di rimessione del processo, essa è prevista dall’art. 47 in riferimento, appunto, al “processo” e, corrispondendo, nel caso di specie, ad una situazione reale di inattività processuale, deve intendersi comunque disposta dal giudice in relazione non solo alla prescrizione – che è l’effetto secondario ai sensi dell’art. 159 c.p., comma 1, n. 3 – ma anche e primariamente con riferimento al processo.

6) La erronea applicazione dell’art. 81 c.p..

La corte d’appello aveva ritenuto non applicabile al caso di specie la norma, invece del tutto appropriata, sul cumulo giuridico prevista dalla L. Fall., art. 219.

Il motivo è fondato.

Risulta dalla lettura della sentenza di primo grado, confermata sul punto da quella di appello, che la disciplina della *******., art. 219, comma 2, n. 1, è stata ritenuta, dai giudici del merito, non operativa con riferimento alle ipotesi di cui alla *******., art. 223.

Orbene, a prescindere dalla concreta portata della applicazione del principio di diritto che si va ad enunciare – dipendente, in parte, anche dalla sorte del processo nella sede del rinvio – deve evidenziarsi che sul tema si sono di recente pronunciate le Sezioni unite di questa Corte, affermando, con avallo dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità opposto a quello accolto dai giudici del merito, che la disciplina speciale sul concorso di reati prevista dalla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, si applica anche alle ipotesi di bancarotta impropria (Sez. U, Sentenza n. 21039 del 27/01/2011 Cc. (dep. 26/05/2011) Rv. 249666).

Occorre, dunque, annullare la sentenza impugnata perchè sia correttamente applicato il principio. Il motivo di ricorso in questione si estende al R. il quale, all’ultimo motivo di ricorso a firma dell’avv. Bottoni, ha fatto propria, mediante rinvio per relationem, anche questa tematica.

7) Con riferimento alla posizione del ricorrente G., è stata riconosciuta l’aggravante della recidiva mai contestata dal pubblico ministero.

Nel merito, tale recidiva si riferiva ad una condanna parzialmente annullata dalla cassazione. Il reato residuo non era della stessa indole sicchè al ricorrente avrebbero dovuto essere concesse le circostanze attenuanti generiche trovandosi egli nella stessa situazione degli altri soggetti ai quali erano stati riconosciute.

Il motivo è manifestamente infondato.

Non si discute qui della esattezza del principio giuridico evocato dal ricorrente secondo cui la recidiva, operando come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del contraddittorio (Sez. U, Sentenza n. 35738 del 27/05/2010 Cc. (dep. 05/10/2010) Rv. 247838; massime precedenti conformi: N. 16750 del 2007 Rv. 236412, N. 26412 del 2007 Rv. 236835, N. 29228 del 2007 Rv. 236910, N. 32876 del 2007 Rv. 237144, N. 37549 del 2007 Rv. 237272, N. 39134 del 2007 Rv. 237271, N. 40466 del 2007 Rv. 237273, N. 46243 del 2007 Rv. 238521, N. 10405 del 2008 Rv. 239018, N. 19557 del 2008 Rv. 240404, N. 37169 del 2008 Rv. 241192, N. 45065 del 2008 Rv. 241779, N. 4221 del 2009 Rv. 242946, N. 5488 del 2009 Rv. 243441, N. 13658 del 2009 Rv. 243600, N. 22871 del 2009 Rv. 244209).

Il punto è che tale principio non trova applicazione nel caso di specie, nel quale il precedente penale dell’imputato è stato valorizzato (v. sentenza primo grado, pag. 49) non già come presupposto per la operatività della circostanza aggravante ex art. 99 c.p., ma come argomento per colorire negativamente la personalità dell’imputato e per formulare un giudizio altrettanto sfavorevole circa la riconoscibilità delle circostanze attenuanti generiche.

E ciò è tanto vero che la questione della irritualità della recidiva non risulta posta nei motivi di appello.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato sub A) con rinvio alla Corte di appello di Reggio Calabria per nuovo esame.

Rigetta nel resto i ricorsi.

Redazione