Reati elettorali: la prescrizione è quella ordinaria (Cass. pen. n. 4851/2013)

Redazione 31/01/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza 11 ottobre 2009 il Gup del tribunale di Palermo dichiarò P.G.P.M. , G.G. , P.V. e C.G. colpevoli di varie ipotesi di falso previste dall’art. 90, comma 2, d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570, nonché del reato di alterazione del risultato elettorale, previsto dal successivo art. 96, condannandoli alle pene ritenute di giustizia, con le statuizioni accessorie ed al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, in quanto nel corso delle votazioni per le elezioni comunali del comune di (omissis) nei seggi in cui erano presidenti il G. e il P. erano state falsificate numerose schede elettorali apponendovi il nome del C. , candidato al consiglio comunale e quello del P. , candidato al consiglio circoscrizionale.
2. La corte d’appello di Palermo, con la sentenza in epigrafe, confermò la sentenza di primo grado.
3. L’avv. T. F., per conto di C.G. , propone ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione degli artt. 3 e 24 Cost., 178, 179, 180, 438, 441 cod. proc. pen., contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Lamenta che erroneamente è stata rigettata l’eccezione di nullità del giudizio abbreviato a causa del vizio dell’ordinanza del Gup del 24.6.2009. Ricorda che con questo provvedimento il Gup dichiarò la nullità del decreto di fissazione dell’udienza preliminare dell’I 1.12.2008 e dispose la rinnovazione delle citazioni a mezzo di pubblici proclami. Il giudice emise nuovo decreto di citazione come se fosse stato ancora investito del processo, mentre avrebbe dovuto trasmettere gli atti al PM, il quale a sua volta avrebbe dovuto emettere nuovo decreto di giudizio immediato. La corte d’appello ha respinto l’eccezione per il motivo che gli imputati non hanno interesse alle modalità di citazione delle persone offese ed alla eventuale costituzione di più soggetti. Sennonché l’imputato non aveva mai sollevato questa eccezione e la nullità era stata dichiarata d’ufficio dal giudice su invito di due elettori. In ogni modo l’imputato gravato di giudizio immediato ha diritto di conoscere il numero delle persone offese potenziali parti civili al fine di poter scegliere il rito adeguato. Quindi, dopo aver accertato il mutamento dei soggetti il processo doveva regredire alla fase dell’emissione del decreto di cui all’art. 456 cod. proc. pen. Del resto, anche la parte civile ha il diritto di non accettare il rito abbreviato. Pertanto, mutate le parti civili, anche l’imputato deve avere il diritto di revocare il consenso espresso per il giudizio abbreviato. Erroneamente perciò la corte d’appello ha ritenuto infondata la richiesta di revoca del consenso al giudizio abbreviato.
2) violazione degli artt. 92 cod. proc. pen. e 96 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570, e mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Lamenta che erroneamente la corte d’appello ha ritenuto irrilevanti, ai fini di questo reato, gli effetti concreti della azione delittuosa perché l’art. 96 si applicherebbe a qualsiasi alterazione dei risultati e quindi anche quando, come nella specie, si sia proceduto prima alla falsificazione delle schede elettorali, dei verbali e delle comunicazioni e infine dei conseguenti risultati. Secondo la corte d’appello pertanto l’art. 96 non avrebbe funzione autonoma rispetto alle altre incriminazioni punendo l’alterazione del naturale esito delle elezioni, ma si inserirebbe, al pari delle altre ipotesi, tra le condotte prodromiche alla modificazione dei risultati. La corte ha dunque qualificato il reato come di pericolo anziché di danno. Nella specie la asserita modifica di posizione nei risultati finali delle liste non ha comportato alcuna variazione nel risultato elettorale e nessuna lesione al bene giuridico protetto, tanto che il C. non venne eletto e la falsificazione non incise sulla elezione del sindaco.
3) violazione degli artt. 129, 529, 605 cod. proc. pen., 157, 158, 160 cod. pen. e 100 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570, e assoluta mancanza di motivazione. Osserva che nella specie i reati si erano prescritti dovendo applicarsi il temine speciale di prescrizione fissato dall’art. 100 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570. Richiama ampiamente e dettagliatamente i diversi orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità e le decisioni della Corte costituzionale e, poiché il contrasto non è ancora risolto, chiede che la questione sia rimessa alle Sezioni Unite.
4. L’avv. ****, per conto di P.V. , propone ricorso per cassazione deducendo:
1) erronea applicazione degli artt. 157 cod. pen. e 100 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570. Osserva che deve applicarsi il termine prescrizionale derogatorio previsto da quest’ultima disposizione, proponendo in sostanza, con ampie ed articolate argomentazioni, conclusioni analoghe a quelle del terzo motivo del C.
2A) inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità. Lamenta che il Gup, dopo avere dichiarato la nullità dell’originario decreto di fissazione dell’udienza, avrebbe dovuto disporre la citazione per pubblici proclami per il giudizio immediato e non per il giudizio abbreviato.
2B) inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità. Ricorda che a seguito del notevole mutamento del quadro processuale, l’imputato revocò la scelta di giudizio abbreviato. Il giudice invece ammise la parti al giudizio abbreviato condizionato sul presupposto che l’ordinanza di fissazione dell’udienza per giudizio abbreviato introducesse direttamente il rito speciale, senza considerare che secondo la giurisprudenza l’udienza ammissiva del rito abbreviato ha rilevanza indefettibile. Il giudice ha errato nel disporre il giudizio allo stato degli atti nonostante l’espresso dissenso dell’interessato.
3) manifesta illogicità della motivazione. Ricorda che gli altri imputati avevano ammesso la propria responsabilità mentre il P. ha sempre decisamente negato ogni suo coinvolgimento. Il C. in particolare ha escluso in maniera dettagliata una partecipazione al reato del P. La relazione del CT grafologico del PM è stata motivatamente contestata dal CT della difesa per gli evidenti errori e manchevolezze di carattere metodologico e scientifico. Di fronte a due consulenze di parte aventi eguale valore probatorio la corte d’appello avrebbe dovuto approfondire la questione e motivare adeguatamente in proposito, mentre si è limitata alla apodittica e illogica affermazione che solo il P. poteva avere interesse a falsificare le schede che lo riguardavano. La decisione è contraddittoria perché i coimputati T. e L.F. che si trovavano nella medesima posizione sono stati invece assolti. La corte ha poi escluso le attenuanti generiche che invece sono state concesse ad altri imputati sostanzialmente perché il P. si era professato innocente e non aveva confessato.
5. L’avv. C. G. M., per conto di P.V. , propone ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione degli artt. 90, comma 2, d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570, 81, 192, 530 cod. proc. pen., 111 Cost.. Lamenta mancanza o manifesta illogicità della motivazione e carente contraddittoria valutazione delle prove, non avendo i giudici considerato che la posizione del P. era significativamente diversa. Ribadisce la inconsistenza della consulenza grafologica del PM, che, oltre agli errori, si era comunque basata su solo tre schede, la motivata contestazione del CT della difesa, e la mancata motivazione da parte della corte sulla scelta fra due elaborati aventi pari dignità probatoria. La sentenza impugnata afferma apoditticamente che l’esame del CT del PM appariva effettuato mediante accertamenti di carattere scientifico, ma senza esaminare le specifiche censure svolte dal CT della difesa. Rileva che l’imputata L.F. è stata invece assolta pur trovandosi in una posizione assolutamente analoga a quella del P. , essendo state ritenute inattendibili le analoghe conclusioni del medesimo CT del PM. Anche su questo punto c’è un vuoto di motivazione della sentenza impugnata. La sentenza impugnata si basa fondamentalmente sulla presunta prova logica che il P. era l’unico ad avere interesse a falsificare le schede in suo favore. La corte però ha omesso totalmente di considerare che il C. , il quale aveva organizzato le falsificazioni, aveva escluso ogni responsabilità del P. ed aveva riferito che era stato lui a proporre ai vertici del partito la candidatura del P. per il consiglio circoscrizionale e ad assicurare che questa portasse una certa quantità di voti ed andasse a buon fine. Il C. pertanto aveva sicuramente interesse a falsificare le schede anche con il nome di P.
2) violazione dell’art. 100 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570. Osserva che deve applicarsi il termine di prescrizione stabilito da questa disposizione, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle degli altri ricorsi sul punto.
3) violazione degli artt. 62 bis, 133 cod. pen. e 27, comma 3, Cost.. Lamenta che al P. sono state negate le attenuanti generiche, concesse invece agli altri imputati, unicamente perché il P. , a differenza degli altri, non aveva confessato essendo innocente. La corte inoltre gli attribuisce condotte riferibili esclusivamente al C. e agli coimputati.
6. L’avv. ********, per conto di G.G. , propone ricorso per cassazione deducendo:
1) erronea applicazione della legge penale e mancanza di motivazione in relazione agli artt. 157 cod. pen., 100 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570, e 125 cod. proc. pen. Osserva che deve applicarsi il termine di prescrizione speciale e derogatorio stabilito dall’art. 100 cit., svolgendo e ulteriormente sviluppando argomentazioni analoghe a quelle degli altri ricorsi sul punto.
2) erronea applicazione degli artt. 90, comma 2, e 96, comma 1, d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570. Lamenta che vi è stata condanna per una pluralità di reati mentre si era in presenza di un concorso apparente di norme, applicando sia il principio di specialità, sia quello dell’assorbimento o della consunzione. Invero, per un presidente di seggio, mentre è possibile alterare un verbale senza far variare il risultato delle elezioni è totalmente impossibile alterare l’esito delle elezioni senza modificare alcun verbale. Pertanto, la condotta descritta dall’art. 96 contiene e ingloba in concreto quella dell’art. 90, comma 2, seconda parte, trattandosi di diversi stadi di aggressione al medesimo bene giuridico. In sostanza delle due l’una: o si ritiene che il delitto dell’art. 96, comma 1, si consumi solo quando si verifichi un cambiamento del risultato elettorale che determini l’elezione di un diverso candidato, con conseguente affermazione nella specie di responsabilità solo per le alterazioni degli atti elettorali, o, al contrario, si ritiene che il delitto si consumi in presenza di ogni modifica concreta del regolare risultato con riconoscimento del solo delitto di cui all’art. 96, per assorbimento dei reati di falsità in atti.
7. L’avv. R. B., per conto di P.G.P.M. , propone ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione dell’art. 100 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570. Osserva che deve applicarsi il termine di prescrizione stabilito da questa disposizione, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle degli altri ricorsi sul punto.
2) violazione degli artt. 155 e 185 cod. proc. pen. Lamenta che il giudice avrebbe dovuto dichiarare la nullità dell’originario decreto di giudizio immediato (per omessa notifica alle persone offese con le modalità di cui all’art. 155) e disporne la rinnovazione. Doveva poi essere dichiarata la nullità anche degli atti successivi. Ripropone considerazioni analoghe a quelle degli altri ricorsi sul punto, osservando in particolare che la sua scelta per il giudizio abbreviato era stata condizionata dall’omessa notifica alle persone offese dell’originario decreto di giudizio immediato, sicché egli aveva in seguito il diritto di effettuare una nuova valutazione. Inoltre, il decreto di fissazione del giudizio abbreviato non poteva essere revocato nel caso de quo.
3) violazione degli artt. 132 e 133 cod. pen. Osserva che con il secondo motivo di appello aveva censurato l’entità della pena inflitta che, nonostante le attenuanti generiche, era stata fissata in misura molto superiore al minimo. La corte d’appello ha totalmente omesso di esaminare questa censura.

 

Motivi della decisione

1. Va esaminato innanzitutto il motivo con il quale tutti i ricorrenti deducono che nella specie dovrebbe applicarsi il termine di prescrizione stabilito dall’art. 100 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570, con la conseguenza che i reati sono già prescritti. In via subordinata chiedono la rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Il Collegio ritiene che il motivo non possa essere accolto.
Come è noto, l’art. 100 cit. dispone, al primo comma, che “Qualunque elettore può promuovere l’azione penale, costituendosi parte civile, per i reati contemplati negli articoli precedenti” e, al secondo comma, che “L’azione penale, per tutti i reati contemplati nel presente testo unico, si prescrive in due anni dalla data del verbale ultimo delle elezioni. Il corso della prescrizione è interrotto da qualsiasi atto processuale, ma l’effetto interruttivo dell’atto non può prolungare la durata dell’azione penale per un tempo che superi, nel complesso, la metà del termine stabilito per la prescrizione”.
La risalente giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato che l’azione penale per i reati previsti dal DPR 16 maggio 1960, n 570, nonostante il riferimento dell’art. 100 all’azione popolare, è sempre promossa dal pubblico ministero e che la prescrizione di cui allo stesso articolo, il cui termine deroga alle norme generali dell’art. 157 cod. pen., deve essere riferita ai reati previsti dal citato decreto, sebbene l’espressione della legge sia di “prescrizione dell’azione” (Sez. III, 1.2.1973, n. 6443, ******, m. 125048). Si è invero ritenuto che l’espressione “l’azione penale si prescrive”, contenuta nella prima parte del citato art. 100, non può essere interpretata quale ipotesi di improcedibilità dell’azione penale, quasi come una sanzione di decadenza comminata per il mancato esperimento della stessa entro un dato termine. Infatti, a parte l’improprietà della decadenza riferita all’azione penale e non ad una delle forme con cui la stessa viene esercitata (istanza, querela, richiesta), soccorre nella specie l’osservazione che il capoverso dello stesso art. 100 espressamente prevede le norme e gli effetti conseguenti alle cause interruttive della prescrizione, il che non sarebbe avvenuto se si fosse trattato di un termine avente la sola finalità di circoscrivere entro limiti temporali l’esercizio dell’azione penale. Si deve quindi ritenere che l’art. 100 citato preveda una particolare forma di prescrizione del reato, per le violazioni specificamente richiamate nel tu., avente l’effetto di derogare alle norme generali di cui all’art. 157 cod. pen.” (Sez. III, 27.4.1967, n. 547, Guida, m. 104884).
Questo orientamento è stato costantemente e pacificamente confermato per quasi 40 anni: cfr. Sez. III, 23.6.1975, n. 705 del 1976, ***, m. 089004; Sez. III, 9.12.1997, n. 1035 del 1998, *******, m. 209508; Sez. V, 6.10.2003, n. 957 del 2004, Camiti, m. 228520; Sez. III, 10.10.2006, n. 38836, ******, m. 235492).
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 100 comma 2 d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570, nella parte in cui, in deroga alla prescrizione decennale prevista in generale all’art. 157 c.p. ed applicabile ai reati elettorali relativi alle elezioni politiche, stabilisce un termine prescrizionale di due anni per i reati elettorali commessi in occasione delle elezioni comunali, in riferimento agli artt. 1, 3, 48 comma 2, 97 e 112 Cost. fu dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con la sent. n. 455 del 1998, sia perché concernente scelte discrezionali riservate al solo legislatore sia perché “la Corte non potrebbe sindacare la disposizione di favore denunciata assumendo come termine di raffronto l’art. 157 c.p., che, pur essendo norma di carattere generale, non può essere considerata momento necessario di attuazione, o di salvaguardia, dei principi costituzionali invocati, dai quali non può trarsi alcuna indicazione circa la specifica disciplina dei reati elettorali e degl’istituti che incidano sulla sfera della punibilità, tenuto conto che le esigenze costituzionali da salvaguardare non si esauriscono nella tutela penale, potendo queste essere soddisfatte con meccanismi diversi dall’incriminazione quale extrema ratio”.
L’orientamento sembrò essere stato abbandonato con la sentenza Sez. III, 23.3.2005, n. 17630, ******, m. 231614, la quale affermò che “L’art. 100 del d.P.R. n. 570 del 1960, nel riconoscere ad ogni elettore la possibilità di promuovere l’azione penale per i reati in materia di elezioni comunali e di costituirsi parte civile, subordina tale possibilità ad un limite temporale (due anni dalla data dell’ultimo verbale elettorale). Tali reati sono perciò sottoposti a due diversi tipi di prescrizione: quella già menzionata, riguardante il momento genetico, cioè la promozione dell’azione penale, e quella prevista dal cod. pen., attinente al reato stesso”.
Ma l’orientamento fino ad allora assolutamente prevalente fu subito dopo confermato dalla sentenza Sez. III, 25.10.2006, n. 42199, ********, m. 235792, la quale riaffermò il principio che “l’art. 100 del d.P.R. n. 570 del 1960, che riconosce ad ogni elettore la possibilità di promuovere, entro due anni, l’azione penale per i reati in materia di elezioni comunali, nonché la possibilità di costituirsi parte civile, non ha introdotto una diversa tipologia di prescrizione, collegata all’azione penale, ma ha stabilito un termine di prescrizione del reato di durata ridotta”. Con una particolarmente articolata, puntuale ed esaustiva motivazione, la sentenza affermò che “Si tratta evidentemente di una deroga all’istituto generale della prescrizione del reato disciplinato nel codice penale, che il legislatore del 1960 ha voluto introdurre per evitare che l’accertamento dei reati in una materia come quella elettorale, intimamente connessa al funzionamento del principio democratico che caratterizza l’ordinamento, rimanesse troppo a lungo indefinito e potesse così negativamente riverberarsi sulla credibilità istituzionale degli organi elettivi”. Osservò poi che la deroga riguarda la durata del periodo prescrizionale stabilita dall’art. 157 c.p.; il termine iniziale di decorrenza del periodo prescrizionale; la disciplina della interruzione del corso della prescrizione, mentre non è prevista alcuna deroga alla disciplina codicistica della sospensione del corso della prescrizione. La Corte affermò quindi che non poteva essere condivisa la differente interpretazione della citata sentenza Sez. III, 23.3.2005, n. 17630, ******, “perché fondata su una inammissibile distinzione tra prescrizione dell’azione penale e prescrizione del reato per la particolare obiettività giuridica dei reati elettorali, che tutelano insieme l’interesse dell’ente pubblico alla regolarità delle consultazioni elettorali e quello del cittadino al libero esercizio del voto, come espressione della sovranità popolare riconosciutagli dalla Costituzione, il legislatore ha adottato un particolare regime procedurale, che – per quanto riguarda le elezioni amministrative – si sostanzia soprattutto nella maggiore brevità del termine di prescrizione del reato e nella facoltà attribuita a qualunque elettore di promuovere l’azione penale, costituendosi parte civile. Promuovere l’azione penale, però, non significa esercitare l’azione penale, la quale resta sempre affidata alla titolarità esclusiva del Pubblico Ministero. Si è perciò giustamente ritenuto che l’art. 100 non configuri una vera e propria azione popolare e non deroghi ai principi generali che disciplinano l’esercizio obbligatorio dell’azione penale in capo al Pubblico Ministero ai sensi degli artt. 50, 405 e 550 c.p.p.; ma intenda soltanto attribuire a ogni elettore un ruolo di sollecitazione e un diritto di costituirsi parte civile in relazione ai processi penali in materia di reati elettorali (con riferimento alle sole elezioni amministrative). Quanto alla prescrizione, si tratta di un istituto unitario, tradizionalmente fondato sulla certezza del diritto e giustificato dalla duplice esigenza di sollecitare l’esercizio della giurisdizione e di liberare il cittadino dalla incertezza della sua situazione giuridica, sicché si riconosce che – analogamente al diritto civile – il mancato esercizio dell’azione penale per un determinato periodo di tempo fa venir meno il diritto dello Stato all’applicazione della legge penale. A questo riguardo, com’è noto, il codice penale ********** del 1889 definiva la prescrizione come causa di estinzione dell’azione penale (art. 91 ), mentre il codice penale ***** del 1930 la iscrive tra le cause di estinzione del reato (art. 157), sicché da allora non si dubita più della natura sostanziale dell’istituto, anche se con indubbi risvolti processuali. Il legislatore del 1960, per una sorta di vischiosità terminologica, ha continuato a utilizzare impropriamente la vecchia formulazione, parlando di prescrizione dell’azione penale. Ma certamente non ha inteso distinguere una prescrizione processuale (riferita all’azione penale) e una prescrizione sostanziale (riferita al reato), anche perché la funzione (unitaria) dell’istituto come sopra evocata non può essere altra che quella di escludere la punibilità astratta del fatto ascritto all’imputato. Del resto, secondo la sistemazione dommatica corrente, la prescrizione estingue il diritto sostanziale (la potestà di punire) per l’inerzia del titolare prolungata nel tempo; mentre il diritto processuale (l’azione penale) è oggetto propriamente di decadenza e non di prescrizione. Inoltre poiché il nuovo codice distingue il processo dal procedimento, riservando al processo quella porzione di procedimento che ha inizio con l’azione penale, non sarebbe più possibile che un atto processuale interrompa la prescrizione dell’azione penale, posto che esso sarà necessariamente successivo all’esercizio dell’azione stessa. In altri termini, la prescrizione dell’azione penale potrebbe avvenire soltanto attraverso un atto del procedimento e non attraverso un atto del processo. Con la conseguenza che il periodo prescrizionale sarà solo quello biennale, senza possibilità di prolungarlo sino al triennio per effetto di interruzioni. L’interpretazione qui sostenuta, peraltro, è stata autorevolmente confermata dalla Corte Costituzionale in un passaggio della citata sentenza 394/2006”.
Dopo questa esaustiva decisione, è intervenuta la sentenza Sez. III, 11.11.2008, n. 46370, Piccolo, m. 241797, la quale è invece ritornata alla interpretazione della sentenza ****** del 2005, affermando che “il termine biennale dalla data del verbale ultimo delle elezioni entro cui si prescrive l’azione penale per i reati elettorali previsti dal T.U. delle leggi per la composizione e l’elezione degli organi delle Amministrazioni comunali (art. 100, d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570) non deroga al termine ordinario di prescrizione previsto dall’art. 157 cod. pen. per i reati contemplati dal citato Testo Unico, in quanto costituisce esclusivamente il termine di decadenza entro cui è possibile per ogni elettore la promozione dell’azione penale”. La motivazione peraltro è particolarmente succinta ed assertiva, in quanto si limita a richiamare la sentenza ****** del 2005, senza prendere in considerazione e confutare le ampie argomentazioni della sentenza ******** del 2006.
È infine di recente intervenuta la sentenza Sez. III, 11.1.2011, n. 5603, ***********, m. 249417, la quale, richiamando proprio la appena ricordata sentenza Piccolo del 2008 e la sentenza ****** del 2005, ha affermato di nuovo il principio che “I reati in materia elettorale sono soggetti al termine di prescrizione ordinario, previsto in via generale dal cod. pen., perché il termine biennale di prescrizione dell’azione, di cui al testo unico per la composizione e l’elezione degli organi delle amministrazioni comunali, ha riferimento esclusivo alla decadenza dall’azione che, in forza di una previsione speciale, qualunque elettore può promuovere costituendosi parte civile in riguardo a qualunque reato previsto dall’indicato testo unico”. Anche questa sentenza non prende in esame specificamente e non confuta le argomentazioni della sentenza ******** del 2006, ma le supera con un diverso ordine di considerazioni. La sentenza afferma infatti che, comunque si voglia intendere l’azione penale prevista dall’art. 100 cit., “è certo che si tratta di una disposizione speciale (l’art. 100 cit.) che assegna ad ogni elettore una prerogativa esercitabile nel processo penale, la quale, proprio perché riconosciuta indistintamente a tutti gli elettori, ha natura di azione popolare. L’art. 100, comma 2, detta poi un’ulteriore prescrizione: l’azione penale – che è quella di cui la disposizione si interessa, ossia quella del comma 1 – si prescrive in due anni dalla data del verbale ultimo delle elezioni. Quindi il legislatore da una parte ha introdotto un meccanismo di controllo diffuso da parte dell’elettorato stesso della legittimità del procedimento elettorale assegnando a ciascun elettore l’azione penale suddetta, che si affianca all’azione penale in senso proprio che il pubblico ministero ha comunque l’obbligo di esercitare. D’altra parte però questo controllo popolare ha limiti temporali abbastanza stretti nonché uniformi per qualsiasi reato elettorale previsto dal testo unico; ciò per evitare che la possibilità di un’iniziativa popolare, che corre sempre il rischio della partigianeria, rimanga per un tempo prolungato a condizionare l’esito delle votazioni. In altre parole il sintagma azione penale utilizzato dal legislatore sia al primo che al secondo comma dell’art. 100 ha un unico significato – e non già due significati, uno nel primo comma ed un altro nel secondo comma – ed è quello chiaramente predicato nel primo comma con il riferimento a qualunque elettore che tale azione penale può esercitare. L’altro rilievo esegetico… deriva da un’esigenza di interpretazione adeguatrice al canone costituzionale dell’eguaglianza e della ragionevolezza (art. 3 Cost.), nonché della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2). Se la nozione di azione penale dell’art. 100, comma 2 fosse da leggere in un significato più ampio della nozione di azione penale del comma 1 della medesima disposizione si da predicare una disciplina speciale e derogatoria dell’estinzione del reato per prescrizione, ne soffrirebbe il principio di eguaglianza, essendo assai dubbia la giustificatezza di una tale disciplina differenziata, in termini di indebolimento della repressione dei reati elettorali in ragione della brevità di siffatto termine di prescrizione (due anni), a fronte di quella dettata dall’art. 157 c.p. E soprattutto ne soffrirebbe il principio di ragionevolezza perché sarebbero assoggettati allo stesso – assai breve – termine prescrizionale sia i reati elettorali di minore gravità, quali contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda (v., ad es., art. 93, comma 2, cit.), sia quelli di maggiore gravità, quali delitti puniti con la reclusione che, in fattispecie di particolare gravità, può arrivare fino a quindici anni (v., ad es., art. 87, u.c., t.u. cit.). Inoltre deve considerarsi che la ragionevole durata del processo – ha recentemente affermato la Corte costituzionale (C. cost. 23 luglio 2010 n. 281) – assicura anche che esso duri per il tempo necessario a consentire un adeguato spiegamento del contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa; quindi la previsione indistinta, anche per reati elettorali di notevole gravità che richiedono una più complessa attività processuale, di un termine prescrizionale (di due anni) più breve di quello previsto in generale dall’art. 157 c.p. (non inferiore a sei anni per i delitti) e più breve finanche di quello contemplato per le contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda (quattro anni) ed addirittura, ora, di quello (di tre anni) previsto per reati minori per i quali la legge stabilisce una pena diversa da quella, non solo detentiva, ma anche meramente pecuniaria (art. 157 c.p., comma 5), si porrebbe in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2)”.
Il Collegio condivide pienamente (e richiama qui) questa ampia, completa ed articolata motivazione, con la quale, attraverso una diversa interpretazione fondata sul dato testuale nonché sulla necessità di una esegesi adeguatrice anche alla luce dei nuovi principi costituzionali, possono ritenersi ormai superate le argomentazioni della più antica interpretazione seguita dalla giurisprudenza risalente e ribadita dalla sentenza ******** del 2006.
Per questa ragione, il Collegio ritiene anche che non vi siano gli estremi per accogliere la richiesta (fatta in via subordinata anche dal Procuratore generale) di rimettere la questione alle Sezioni Unite. A seguito della sentenza *********** del 2011, invero, il contrasto sembra ormai essersi composto nell’ambito di questa Sezione, competente in materia.
In conclusione, l’eccezione di prescrizione deve essere respinta.
2.I ricorrenti denunciano poi alcune nullità per vizi processuali, riguardanti peraltro diversi aspetti della stessa questione e che possono quindi essere esaminate congiuntamente. È infatti accaduto che, dopo la trasformazione del rito da giudizio immediato a giudizio abbreviato, ed a seguito del reclamo di alcuni elettori, il giudice, all’udienza preliminare del 24.6.2009, aveva disposto la rinnovazione della notificazione alle persone offese per pubblici proclami, rifissando l’udienza per il rito abbreviato.
Viene ora dedotto che il giudice avrebbe dovuto dichiarare la nullità dell’originario decreto di giudizio immediato, per omessa notifica alle persone offese secondo le modalità previste dall’art. 155 cod. proc. pen. e viene eccepita la nullità dell’ordinanza 24.6.2009, con la quale era stata disposta la rinnovazione delle citazioni per il giudizio abbreviato, mentre il giudice avrebbe dovuto disporre la fissazione del procedimento nella fase precedente del rito immediato, rinnovando il decreto di cui all’art. 455 cod. proc. pen. ovvero si sarebbero dovuti rimettere gli atti al PM. Sotto altro profilo, si deduce che erroneamente il giudice non ha accolto la richiesta di alcuni imputati, e in particolare del P. , di revoca della richiesta di procedere con il rito del giudizio abbreviato.
Ritiene il Collegio che queste eccezioni siano infondate. Quanto alla dedotta nullità dell’ordinanza con cui era stata originariamente disposto l’avviso alle persone offese e dell’ordinanza con la quale è stata disposta la rinnovazione della citazione alle stesse, devono condividersi le considerazioni svolte sul punto dai giudici del merito, i quali hanno innanzitutto richiamato il principio giurisprudenziale secondo cui “La nullità derivante dall’omessa citazione della persona offesa non può essere eccepita dall’imputato, poiché egli manca di interesse all’osservanza della disposizione violata, il cui unico scopo è quello di consentire l’eventuale costituzione di parte civile al destinatario della citazione” (Sez. II, 11.3.2011, n. 12765, Shehi, m. 250051). Esattamente, quindi, è stato ritenuto che gli imputati non potevano avere nessun interesse giuridicamente protetto rispetto alle modalità di citazione delle persone offese ed alla eventuale costituzione di più soggetti nel procedimento, sicché non avevano interesse ad eccepire la nullità della detta ordinanza del 24.6.2009. L’eccezione è comunque infondata perché, dopo la trasformazione del rito da immediato ad abbreviato, trovava applicazione l’art. 458 cod. proc. pen., il quale, con il rinvio al secondo comma all’art. 441, richiama la disciplina in tema di udienza preliminare, sicché deve ammettersi che in presenza del mancato avviso alla persona offesa si possa procedere ad una rinnovazione delle citazioni per una nuova udienza fissata dal Gup, senza che l’imputato possa ormai revocare la sua dichiarazione di scelta per il giudizio abbreviato.
Con riferimento sia alla reclamata possibilità di regressione dal rito abbreviato a quello immediato sia alla possibilità di accoglimento delle richieste di revoca della scelta del rito abbreviato, va invero condivisa l’interpretazione dei giudici del merito, secondo cui, anche in caso di trasformazione da giudizio immediato a giudizio abbreviato, l’unico caso di revoca è quello eccezionale di cui all’art. 441 bis cod. proc. pen., mentre la revoca non è consentita nemmeno nell’ipotesi di citazione di più persone offese che non determina nullità e non giustifica una regressione del rito. Pertanto, la richiesta di giudizio abbreviato già avanzata dagli imputati ed accolta dal giudice non poteva più essere revocata, dopo che il processo era già incardinato nella fase del rito speciale.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, “È abnorme il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, al di fuori dei casi previsti dall’art. 441 bis cod. proc. pen., revochi il decreto di fissazione del giudizio abbreviato condizionato emesso, ai sensi dell’art. 458, comma secondo, cod. proc. pen., in accoglimento della richiesta avanzata dall’imputato nei cui confronti sia già stato emesso decreto di giudizio immediato” (Sez. I, 17.6.2004, n. 33965, Gurliaccio, m. 228707; conf. Sez. Ili, 12.11.2009, n. 9921 del 2010, Majouri, m. 246326; Sez. VI, 28.3.2007, n. 21168, ******, n. 237081).
Queste decisioni hanno osservato che, ai sensi dell’art. 438, comma 4, c.p.p. sulla richiesta di ammissione al giudizio abbreviato formulata dall’imputato il giudice provvede con ordinanza con la quale dispone il giudizio abbreviato. In base all’interpretazione letterale della norma si può affermare che l’ordinanza – decreto, disciplinata dall’art. 438, comma 4, c.p.p., è un atto di natura complessa, con il quale il giudice, da un lato, valuta i presupposti di ammissibilità del rito e, dall’altro, proprio sulla base di tale apprezzamento, adotta i provvedimenti conseguenti quali la fissazione della relativa udienza. L’art. 458, comma 2, c.p.p. stabilisce a sua volta testualmente che se la richiesta è ammissibile, il giudice fissa con decreto l’udienza. Secondo un’interpretazione letterale e sistematica della disposizione in esame alla luce dei criteri generali stabiliti dall’art. 438 c.p.p. la fissazione dell’udienza per il giudizio abbreviato, richiesto dall’imputato cui sia stata notificato il decreto di giudizio immediato, costituisce un posterius rispetto alla positiva delibazione in ordine al rito, pur nel rispetto dei limiti indicati al precedente paragrafo 1 e conseguenti alla novella introdotta dalla legge 479/1999. Ne consegue che la fissazione dell’udienza disciplinata dall’art. 458, comma 2, c.p.p. deve essere interpretata come atto di per sé introduttivo del rito abbreviato, già preceduto da un vaglio di ammissibilità della richiesta di cui costituisce il naturale sviluppo logico e giuridico. Conseguentemente è da escludere che la fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 458, comma 2, c.p.p. possa costituire un mero incombente materiale ed un semplice atto interinale svincolato dalla più articolata struttura del giudizio semplificato. Quindi, il provvedimento adottato ai sensi dell’art. 458, comma 2, c.p.p. è un atto complesso con il quale il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di giudizio abbreviato formulata dall’imputato, cui sia stato notificato il decreto di giudizio immediato, valuta l’ammissibilità della istanza e, dopo un apprezzamento positivo dei presupposti, fissa la relativa udienza. All’esito della pronunzia dell’ordinanza di accoglimento della richiesta, il giudizio abbreviato può ritenersi iniziato. Proprio perché già introduttiva del rito, l’ordinanza con la quale viene ammesso il giudizio abbreviato non è revocabile, fatti salvi i casi disciplinati dall’art. 441 bis c.p.p..
Questa interpretazione è stata recentemente confermata dalle Sezioni Unite con la sentenza 19.7.2012-24.10.2012, n. 41461, *********, m. 253212, la quale ha affermato il principio che “È abnorme la revoca dell’ordinanza di ammissione del giudizio abbreviato, al di fuori dei casi previsti dall’art. 441 bis cod. proc. pen.”. Nella motivazione le Sezioni Unite hanno, tra l’altro, osservato che “L’ordinamento processuale non contempla la possibilità di revocare il giudizio abbreviato, già ammesso, al di fuori delle ipotesi espressamente regolate dalla legge. L’unico caso disciplinato in proposito dal legislatore è quello di cui all’art. 441-bis, comma 4, cod. proc. pen. che prevede un’ipotesi di revoca obbligatoria dell’ordinanza su richiesta dell’imputato in presenza di nuove contestazioni ai sensi dell’art. 423, comma 1, cod. proc. pen. Il carattere eccezionale della disposizione si ricava… Il combinato disposto degli artt. 441-bis, comma 1, 438, comma 5, 441, comma 5, cod. proc. pen. rende, quindi, evidente che solo in questo caso può determinarsi una regressione del processo alla fase e allo stato in cui si trovava al momento della presentazione della richiesta di giudizio abbreviato. Il richiamo del canone ermeneutico ubi voluit dixit assume, quindi, in tale contesto, una precisa e significativa valenza: esso consente di affermare che il legislatore ha voluto prevedere casi tipi di revoca dell’ordinanza introduttiva del rito e ha voluto escludere la revocabilità del giudizio al di fuori della situazione esplicitamente regolata nell’art. 441-bis cod. proc. pen.. Quest’ultima disposizione è una norma di carattere eccezionale e, dunque, non suscettibile di generalizzazione o di applicazione in via analogica”. Le Sezioni Unite hanno altresì ricordato che “Successivamente alla riforma introdotta dalla legge n. 479 del 1999 l’irrevocabilità del provvedimento introduttivo del rito, salvo quando espressamente prevista, è stata costantemente ribadita da questa Corte. Con riguardo all’abbreviato instaurato nella modalità non condizionata si è precisato (Sez. 1, n. 25858 del 15/06/2006, ******, Rv 235260) che la possibilità di revocare l’ammissione al rito non insorge nemmeno nel caso in cui l’imputato abbia a sua volta revocato la relativa richiesta, trattandosi di facoltà non attribuitagli dall’ordinamento processuale se non nell’ipotesi disciplinata dall’art. 441-bis cod. proc. pen. Quanto all’abbreviato condizionato il principio della non retrocedibilità del rito è stato affermato da molteplici decisioni (Sez. 1, n. 27578 del 23/06/2010, Azouz, Rv. 247733; Sez. 3, n. 9921 del 12/11/2009, dep. 2010, Majouri, Rv. 246326; Sez. 1, n. 32905 del 09/07/2008, ********, Rv 240683; Sez. 6, n. 21168 del 28/03/2007, ******, Rv. 237081; Sez. 1, n. 33965 del 17/06/2004, Gurliaccio, Rv. 228707; Sez. 1, n. 17317 dell’I 1/03/2004, Pawlak, Rv. 228652), le quali fanno indistintamente riferimento alla mancata previsione, salvo che nell’ipotesi disciplinata dal citato art. 441-bis, del potere del giudice di disporre la revoca del provvedimento introduttivo del rito”.
I motivi riproposti sul punto dai ricorrenti devono pertanto essere rigettati.
3. Il P. – che è l’unico degli imputati a non avere mai riconosciuto gli addebiti – ha poi dedotto la manifesta illogicità della motivazione relativamente al riconoscimento della sua responsabilità.
Ritiene il Collegio che questo motivo si risolva in sostanza in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, e sia comunque infondato perché i giudici del merito hanno fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle ragioni per le quali hanno ritenuto che sia rimasta accertato il concorso del P. nella commissione dei reati contestati e quindi la sua responsabilità.
La sentenza di primo grado ha basato la prova del concorso del P. nella falsificazione delle schede sostanzialmente su due elementi: la chiamata di correità formulata dal coimputato C. ed il riscontro individualizzante costituito dalle risultanze delle consulenza grafologica disposta dal PM. Il Gup ha evidenziato che il C. aveva riferito che, il giorno in cui stava procedendo personalmente alla falsificazione delle schede, era improvvisamente sopraggiunto P. , il quale, preso atto di quanto stava accadendo, accolse il suo invito e iniziò anch’egli a partecipare al prosieguo delle operazioni di falsificazione, avendo piena contezza di quanto si stava compiendo. Il Gup ha altresì osservato che non era credibile che il P. fosse ignaro del patto criminoso, non essendo plausibile un coinvolgimento del tutto casuale e sporadico in una alterazione di così rilevante gravità ed effettuata anche nell’interesse dello stesso P. . Quanto al riscontro individualizzante, il Gup ha evidenziato che il CT grafologo del PM aveva accertato che alcune schede (tre nel campione di 41 schede esaminato) erano state alterate materialmente proprio dal P. . Le critiche rivolte dal CT della difesa all’operato del CT del PM, sono state, con congrua ed adeguata motivazione, ritenute infondate dal Gup, che ha rilevato come tali critiche si basavano su una premessa erronea (relativa alle schede esaminate dal consulente) e come le considerazioni del medesimo CT dovevano condividersi in ragione della loro completezza e precisione.
A questi due elementi probatori, la corte d’appello ha poi aggiunto una prova logica rilevando che sostenere l’estraneità del P. , in contrasto con le dichiarazioni del C. e con l’esito della consulenza grafologica, significherebbe affermare che altri soggetti, ed in particolare il C. o il P. , avrebbero proceduto ad una alterazione rispetto alla quale non vantavano alcun interesse.
La motivazione delle due sentenze di merito non appare certamente manifestamente illogica o implausibile e pertanto non può essere messa in discussione in questa sede di legittimità per proporre una diversa ricostruzione dei fatti più favorevole alle tesi difensive.
4. Con il secondo motivo del C. viene eccepito che nella specie non si è realizzato il reato di alterazione del risultato della elezione da parte di un appartenente all’ufficio elettorale, di cui all’art. 96 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570, in quanto non vi sarebbe stata nessuna alterazione dei risultati perché né il C. , né il P. , né il T. sono rimasti eletti per effetto delle alterazioni e non vi è stata alcuna variazione fra i nominativi eletti o elezione di soggetti non aventi diritto.
Il motivo è infondato. L’art. 96 cit., invero, punisce chiunque, appartenendo all’ufficio elettorale, altera il risultato delle elezioni. La norma quindi non richiede che vi sia stata una modificazione dei risultati elettorali tale da portare addirittura alla elezione di soggetti che invece non sono stati eletti, ma richiede solo una variazione che abbia alterato i risultati, ossia li abbia comunque modificati in modo significativo. Nella specie non può negarsi che, ancorché non siano stati direttamente proclamati eletti soggetti diversi, vi sia comunque stata una modificazione rilevante del risultato, dal momento che il P. risultò al secondo posto della lista e primo dei non eletti mentre in realtà sarebbe stato il nono della lista, ed il C. si collocò al sesto posto della graduatoria della lista, mentre in realtà sarebbe stato l’undicesimo. È evidente che ciò ha costituito una lesione del bene giuridico tutelato, perché l’ordine di graduatoria raggiunto dai candidati è rilevante anche ai fini giuridici, ad esempio in caso di subentro al candidato eletto.
Va quindi affermato il principio che costituisce alterazione del risultato elettorale ai sensi dell’art. 96 d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570, anche la semplice diversa posizione raggiunta da un candidato nella graduatoria finale, ancorché da ciò non derivi la diretta elezione del candidato stesso.
5. Con un perspicuo e puntuale motivo, il G. deduce poi violazione degli artt. 90, comma 2, e 96, comma 1, d.p.R. 16 maggio 1960, n. 570 sotto un diverso profilo, ossia sostenendo che erroneamente è stato ritenuto il concorso tra questi due reati. Osserva che in realtà si tratta di un concorso apparente di norme e che deve quindi trovare applicazione il principio di specialità o comunque il principio dell’assorbimento o quello della consunzione. Rileva che per un presidente di seggio, mentre è astrattamente possibile alterare un verbale senza far variare il risultato delle elezioni è totalmente impossibile alterare l’esito delle elezioni senza modificare alcun verbale. L’alterazione dei verbali costituisce la condotta ordinaria, ed anzi l’unica, con cui si ottiene l’alterazione del risultato elettorale. Pertanto, la condotta descritta dall’art. 96 contiene e ingloba in concreto quella dell’art. 90, comma 2, seconda parte, trattandosi di diversi stadi di aggressione al medesimo bene giuridico. Del resto, nello stesso capo di imputazione, l’alterazione del risultato elettorale è stata contestata come commessa “mediante le condotte di cui ai precedenti capi”. Non è quindi vero che egli con una azione ha alterato gli atti elettorali e con differente azione ha modificato il risultato delle elezioni, in quanto l’azione posta in essere è unitaria. Osserva infine il ricorrente che, in sostanza, delle due l’una: o si ritiene che il delitto dell’art. 96, comma 1, si consumi solo quando si verifichi un cambiamento del risultato elettorale che determini l’elezione di un diverso candidato, con conseguente affermazione nella specie di responsabilità solo per le alterazioni degli atti elettorali, o, al contrario, si ritiene che il delitto si consumi in presenza di ogni modifica concreta del regolare risultato con riconoscimento del solo delitto di cui all’art. 96, per assorbimento dei reati di falsità in atti.
Il Collegio ritiene che il motivo debba essere rigettato. E ciò per due diverse ragioni. In primo luogo perché le due ipotesi di reato sono strutturalmente diverse, in quanto ben possono esservi alterazioni e falsificazioni di schede o altri atti elettorali che integrano il reato di cui all’art. 90, comma 2, ma non danno luogo ad alterazioni significative e rilevanti del risultato elettorale, non comportando nemmeno una modificazione dell’ordine di graduatoria dei candidati. In secondo luogo, perché, secondo la giurisprudenza più recente, per stabilire se vi sia o meno un concorso apparente di norme deve farsi riferimento non ai criteri di assorbimento e di consunzione, che sono privi di fondamento normativo e tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, bensì solo al criterio di specialità, effettuando il confronto solo tra fattispecie astratte e non partendo dalla condotta in concreto posta in essere (cfr. Sez. Un., 20.12.2005, n. 47164, ******; Sez. Un., 28.10.2010, n. 1235/11, ********; Sez. Un., 28.10.2010, n. 1963/11, Di *******; Sez. Un., 19.1.2012, n. 22225, *******).
6. Con il suo ultimo motivo il P. deduce eccessività della pena inflitta fissata in misura molto superiore al minimo nonostante le attenuanti generiche nonché mancanza di motivazione della sentenza impugnata sul relativo motivo di appello. Il motivo è manifestamente infondato avendo la corte d’appello fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sull’esercizio del proprio potere discrezionale in ordine alla determinazione della pena ed alla sua fissazione in misura media rispetto ai limiti edittali, sottolineando la particolare gravità delle condotte poste in essere da più soggetti, alcuni dei quali (come appunto il P. ) incaricati del delicato munus publicum di presidente di seggio elettorale, con totale disprezzo delle cariche ricoperte e con rilevante pericolo per la regolarità delle operazione elettorali di un grande comune, che vennero proprio messe in dubbio in presenza delle acclarate alterazioni. Inoltre, la falsificazione delle schede e degli atti fu preceduta da numerose riunioni con previsione anche di un corrispettivo in favore dei presidenti di seggio coinvolti, consistente o in incarichi pubblici o in denaro.
7. È invece fondato il motivo del P. con cui si censura la mancata concessione delle attenuanti generiche. La corte d’appello ha infatti affermato che a costui non potevano essere concesse le attenuanti generiche perché “lo stesso ha anche tenuto un atteggiamento non collaborativo”, oltre che per la gravità dei fatti. A parte la genericità di questa motivazione, è evidente la sua erroneità. E difatti la sentenza di primo grado ha concesso le attenuanti generiche sia al C. , sia al G. , sia al P. , affermando che ognuno di loro ne era meritevole per la mancanza di precedenti penali e “valutato positivamente il suo atteggiamento processuale (confessione)”. È di tutta evidenza, quindi, che sia il giudice di primo grado sia la corte d’appello hanno negato al P. le attenuanti generiche esclusivamente per la mancata confessione dei fatti addebitati, posto che anche il P. , al pari degli altri imputati, era incensurato e posto che l’altro parametro valutativo, ossia la gravità dei fatti, è assolutamente comune con gli altri imputati. Anzi, nella stessa sentenza impugnata sembra che la gravità delle condotte venga descritta più con riferimento al C. che al P. . La motivazione è quindi manifestamente erronea perché nel nostro ordinamento la non confessione costituisce comunque un diritto dell’imputato e non un atteggiamento da punire.
E difatti, secondo l’orientamento che qui si condivide, perché più conforme ai principi costituzionali e convenzionali, è illegittimo il diniego delle attenuanti generiche fondato sulla mancata confessione dell’imputato, poiché in tal caso verrebbe vanificato il diritto al silenzio, quale espressione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, che da all’imputato anche la facoltà di tacere o di mentire (Sez. II, 23.2.1988, n. 10962, **********, m. 179687; Sez. 1, 29.5.1987, n. 7105, ********, m. 176127; Sez. I, 4.11.1985, n. 495/86, ****, m. 171597; Sez. I, 7.10.1987, n. 8944, Alunni, m. 176511; Sez. I, 13.12.1983, n. 1196/84, Di *****, m. 162557; Sez. I, 4.11.1985, n. 495/86, ****, m. 171597; Sez. II, 17.3.1970, n. 649/71, ********, m. 116331), a meno che da tale comportamento il giudice non desuma motivatamente la presenza di una personalità negativa o la capacità a delinquere (Sez. II, 21.3.1990, n. 10891, ******, m. 185019; Sez. II, 27.2.1997, n. 2889, ********, m. 207560).
Nella specie, la motivazione è anche manifestamente illogica perché la corte d’appello non ha spiegato la ragione per la quale soltanto dall’atteggiamento non collaborativo, ossia unicamente dalla mancata confessione del P. , avrebbe desunto la prova di una personalità più negativa o di una maggiore capacità a delinquere rispetto ai coimputati e comunque non ha spiegato con adeguata e congrua motivazione perché le attenuanti generiche sono state negate solo a lui, pur essendo tutti gli imputati incensurati e pur essendo identica la gravità dei fatti ed anzi pur non essendo certo la sua posizione la più grave.
8. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di P.V. limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Palermo per nuovo esame. Il ricorso del P. deve essere rigettato nel resto. Vanno altresì rigettati gli altri ricorsi, con condanna degli altri ricorrenti singolarmente al pagamento delle spese processuali. Tutti i ricorrenti (essendo tutti soccombenti rispetto alla affermazione di responsabilità) vanno poi condannati in solido alla refusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Italia dei Valori, che si liquidano in complessivi Euro 2.000,00, oltre spese generali ed accessori di legge.

 

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata nei confronti di P.V. limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia ad altra sezione della corte d’appello di Palermo.
Rigetta nel resto il ricorso del P. , nonché gli altri ricorsi e condanna gli altri ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna tutti i ricorrenti in solido alla refusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Italia dei Valori, liquidate in complessivi Euro 2.000,00, oltre spese generali ed accessori di legge.

Redazione