Rapporto di pubblico impiego, modulo privatistico (Cass. n. 23060/2013)

Redazione 10/10/13
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Fatto

L’Azienda USL Roma X proponeva distinte opposizioni avverso i decreti ingiuntivi emessi dal Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro con i quali le era stato intimato il pagamento, in favore dei dipendenti in epigrafe indicati (attuali resistenti), delle somme indicate in ciascun decreto e richieste a titolo di indennità di coordinamento ex art. 10 CCNL Comparto Sanità 1998 – 2001, così come determinata con delibera aziendale n. 847/05, con decorrenza settembre 2001.
Il Tribunale di Roma, riuniti i ricorsi, rigettava le opposizioni, decisione questa confermata dalla Corte di appello di Roma che respingeva il gravame proposto dalla detta Azienda USL, con sentenza del 20 febbraio 2010, avendo ritenuto la natura privatistica della delibera n. 847/2005, in quanto atto di gestione del rapporto di lavoro rispetto al quale non potevano avere rilievo i prospettati vizi (carenza di istruttoria, difetto di motivazione, contraddittorietà con precedente delibera) propri dell’atto amministrativo e, soprattutto, non essendo configurabile l’esercizio di un potere di autotutela da parte della pubblica amministrazione. Su tale premessa, quindi, riteneva prive di effetto le delibere con le quali era stata disposta, prima, la sospensione della efficacia della delibera n. 347/05 (la n. 329/06) e, poi, l’annullamento della stessa (la n. 1345/06). Precisava, inoltre, la Corte che la prospettata violazione di precedenti accordi sindacali (quali quello dell’8.4.2004), comunque, non avrebbe potuto comportare l’invalidità della menzionata delibera n. 847/05.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso l’Azienda USL Roma X affidato a due motivi.
Resistono con controricorso i dipendenti in epigrafe indicati.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Preliminarmente, si ribadisce l’inaccoglibilità dell’istanza di rinvio -presentata dalla ricorrente – al fine di una trattazione unitaria del presente ricorso con altri pure pendenti innanzi a questa Suprema Corte ed aventi lo stesso oggetto.
Invero, come questa Suprema Corte ha già statuito (cfr. Cass. 1.3.2012 n. 3189; Cass. S.U. 3.11.2008 n. 26373), il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice, ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c., di evitare attività processuali non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto del principio del contraddittorio, da garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo, in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a esplicare i propri effetti.
In applicazione di tale principio il Collegio ritiene opportuno procedere alla trattazione del presente ricorso – pendente già dall’anno 2010 – che potrebbe essere ritardata in caso di accoglimento della istanza di rinvio.
Passando alla disamina dei motivi di ricorso, con il primo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost. e dell’art. 5, co. 2 d.Lgs n. 165/2001 (art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c.).
Si assume che la Corte di merito aveva errato nel qualificare la delibera n. 847/05 come atto di gestione del rapporto di indiscutibile natura privatistica rispetto al quale non era ammissibile l’esercizio del potere di autotutela da parte della amministrazione in quanto, così facendo, non aveva tenuto conto della innegabile peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni che, come affermato in numerose decisioni della Corte Costituzionale, non è pienamente assimilabile a quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, comunque, permanendo ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Ed infatti, come previsto dall’art. 5, co. 1 del d.Lgs n. 175/2001 la pubblica amministrazione conserva, anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato, una connotazione particolare essendo tenuta al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento e dovendo garantire la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa.
Inoltre, la delibera n. 847/2005, proprio alla luce del disposto dell’art. 10 commi 7 e 8 del CCNL Comparto Sanità 1998-2001, non poteva considerarsi un atto paritetico (cioè meramente ricognitivo, dovuto dalla P.A. in base ad una previsione di legge), bensì un atto espressione di una discrezionale valutazione aziendale avente ad oggetto la possibilità – ben diversa dall’obbligo – di estendere il beneficio dell’indennità di coordinamento in prima applicazione, con decorrenza settembre 2001, anche al personale di categoria C (nel quale erano inquadrati gli attuali resistenti) cui fosse stato riconosciuto con atto formale l’espletamento di funzioni di coordinamento alla data del 31 agosto 2001. Orbene, la natura discrezionale della delibera comportava che il giudice del gravame avrebbe dovuto applicare le norme in materia di legittimità dei provvedimenti amministrativi e, quindi, ritenerla viziata in quanto lesiva dell’art. 97 Cost. ed ammissibile l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Azienda USL.
Con il secondo motivo viene dedotta omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione anche sotto il profilo dell’omesso esame di fatti, circostanza e prove (art. 360, co. 1 n. 5 c.p.c.) laddove la Corte di appello aveva del tutto ignorato che la delibera n. 847/05 era stata adottata in violazione del disposto dell’art. 10 co. 7 e 8 CCNL cit. alla cui osservanza l’Amministrazione è tenuta ope legis, violazione che aveva rilevanza anche sul piano meramente privatistico e che avrebbe dovuto comportare la nullità della delibera.
Il primo motivo è infondato.
Questa Corte ha avuto modo di affermare in varie decisioni che, a seguito della riforma, la pubblica amministrazione non esercita più, nel rapporto di pubblico impiego, poteri di supremazia speciale, ma opera con la capacità del datore di lavoro privato e nell’ambito di un rapporto contrattuale paritario, e che, non configurandosi in capo ai dipendenti situazioni di interesse legittimo di diritto pubblico, la posizione degli stessi (integralmente riportabile alla categoria dei diritti soggettivi o, a fronte di specifici poteri discrezionali, degli interessi legittimi di diritto privato, pur sempre, comunque, riconducibili alla categoria dei diritti di cui all’art. 2907 c.c.: cfr. SU n. 14625/2003; Cass. n. 3880/2006) non è degradabile per effetto di atti unilaterali del datore di lavoro, come in precedenza avveniva, allorché la tutela del lavoratore pubblico era riconducibile (ed era connessa) all’esercizio del potere amministrativo pubblico.
Attraverso l’adozione, da parte del legislatore, di moduli privatistici per i rapporti d’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, gli atti compiuti dall’amministrazione datrice di lavoro nella gestione del rapporto seguono gli stessi parametri utilizzati dai datori di lavoro privati, onde rimane escluso lo svolgimento di procedimenti o l’emanazione di atti assoggettati alle forme del diritto amministrativo (ad es. il procedimento di cui alla L. n. 241 del 1990) anche ai fini di autotutela. Ciò non toglie che la stessa amministrazione, nell’esercizio di un potere privato e attraverso atti di natura negoziale, cioè adottati con i poteri e le capacità del datore di lavoro privato, non possa correggere errori di legittimità (cfr. Cass. 24 ottobre 2008 n. 25761, 17 settembre 2008 n. 23741, 8 aprile 2010 n. 8328, 3 marzo 2011 n. 5139, 12 gennaio 2012 n. 240) in cui sia incorsa.
Nel caso in esame l’impugnata sentenza ha fatto corretta applicazione di detti principi avendo considerato la delibera n. 847 del 21.7.05 – adottata previo parere del direttore amministrativo e del direttore sanitario e dopo il controllo preventivo del collegio sindacale e divenuta esecutiva a seguito di verifica da parte della Regione Lazio – con la quale veniva attribuita a 94 dipendenti, inquadrati nella categoria C, l’indennità economica di coordinamento prevista dall’art. 10 del CCNL Sanità 1998 -2001, atto di gestione del rapporto di natura privatistica. E, dunque, in quanto tale, non sindacabile per contrasto col pubblico interesse, come i provvedimenti amministrativi, ma nei limiti consentiti dal programma negoziale e dalle relative fonti – legali e contrattuali – di riferimento e, quindi, non alla stregua dei tradizionali vizi dell’atto amministrativo, ma secondo quelli propri della patologia dei negozi giuridici, derivanti dalla violazione della disciplina legale o contrattuale che presiede all’attività paritetica della pubblica amministrazione.
Pertanto, essa non poteva essere prima sospesa e, poi, revocata in sede di autotutela unilateralmente perché affetta dai vizi propri dell’atto amministrativo con le successive delibere nn. 329/06 e 1345/06 che, quindi, correttamente sono state considerate prive di effetti in quanto adottate in carenza del potere di autotutela. Né alle medesime può essere riconosciuta natura di atti negoziali attraverso i quali l’amministrazione aveva inteso porre rimedio ad errori di legittimità contenuti della prima delibera. Peraltro, l’Azienda USL, nella presente controversia, non ha eccepito la ricorrenza di cause di nullità o annullabilità della delibera n. 847 cit. ma si solo è limitata ad affermare di aver legittimamente agito unilateralmente, in sede di autotutela.
È il caso di precisare, a questo punto, che le argomentazioni contenute nel motivo con riferimento alla categoria degli atti paritetici in un rapporto di diritto pubblico non possono avere rilievo in questa sede in cui, come detto, l’ambito è quello del rapporto di lavoro privatizzato.
Infine, per quanto sopra detto, è da escludere che la delibera n. 847 possa includersi in quegli atti di “macro organizzazione” espressione del potere autoritativo della pubblica amministrazione rispetto ai quali vige il regime proprio dei provvedimenti amministrativi. Del pari infondato è il secondo motivo di ricorso.
Osserva il Collegio che l’eventuale violazione dell’accordo sindacale – raggiunto all’esito della concertazione con i sindacati in osservanza del disposto dell’art. 10 del CCNL Sanità – non avrebbe potuto comportare la nullità o l’annullamento della delibera n. 847 ma, al più, avrebbe potuto assumere rilievo come inadempimento di un obbligo contrattualmente assunto, come correttamente rilevato dalla Corte di merito. Peraltro, il citato art. 10 del CCNL imponeva solo un obbligo di concertazione con il sindacato – rispettato nel caso in esame – ma non prevedeva direttamente i criteri di valutazione del personale.
Per quanto esposto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, cedono a carico della ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso, condanna la ricorrente alla spese del presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed in Euro 3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Redazione