Rapporti tra la disciplina speciale in materia di inquinamento acustico (legge 447/1995) e la tutela offerta dall’art. 844 c.c. in materia di immissioni (anche sonore) (Trib. Brindisi, 19/12/2011) (inviata da A. I. Natali)

Redazione 19/12/11
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Affronta il problema specifico della possibilità di ritenere l’intollerabilità delle immissioni, nonostante il mancato superamento dei limiti legali

 

FATTO E DIRITTO
Con atto di citazione del 28.3.2003, P.C., premettendo di essere proprietaria, fin dal 1993 di un villino facente parte di un complesso turistico-residenziale sulla costa di Pantanagianni e che il proprietario della costruzione confinante, sig. T.A., aveva trasformato la residenza estiva in un locale pubblico e precisamente un ristorante-pizzerie, lamentava la violazione della normativa civilista ed amministrativa in materia, anche per ciò che concerne le distanze, le immissioni di cattivi odori e rumori molesti, che arrecavano disagi e danni.
Inoltre, lamentava l’abitudine del confinante di fare intervenire l’autospurgo dal momento che la fossa asettica è calibrata ad uso di una famiglia e non certo di un locale pubblico, negli orari più impensati, causando ulteriori disagi con le immissioni di odori nauseanti.
Per questo evocava in giudizio T.A., chiedendo che questo Tribunale ritenesse e dichiarasse che illecitamente lo stesso aveva modificato lo stato dei luoghi relativo al villino in località Pantangianni nella marina di ********* al confine col villino di proprietà dell’attrice e, per lo effetto, lo condannasse alla reintegrazione in forma specifica mediante demolizione di tutte le opere realizzate in difformità della legge, con arretramento di quelle che non rispettano la distanza dal confine. Chiedeva, altresì, che lo stesso T.A. fosse riconosciuto responsabile delle immissioni di rumori, fumi e scotimenti nella sua proprietà, superiori alla normale tollerabilità, avuto riguardo alla condizione dei luoghi e per lo effetto ne ordinasse la cessazione, con condanna del convenuto al risarcimento dei danni.
Con comparsa dell’11.6.2003, si costituiva in giudizio T.A., il quale chiedeva il rigetto della domanda attore.

La domanda proposta da P.C. nei confronti di T.A. è fondata solo in parte qua.
La disposta CTU ha evidenziato come le tubazioni a servizio di uno dei lavelli, nella cucina siano a distanza dal confine inferiore al metro (anzi sono addirittura attaccate al muro); ciò in violazione di quanto prescritto dal Codice Civile.
Inoltre, dalla lettura della seconda CTU fonometrica, si evidenzia come l’attività del convenuto non sia rispettosa dei limiti di legge, anche in tema di immissioni di rumori.

Superamento dei limiti legali e normale tollerabilità

Si rende necessario, in via preliminare, chiarire se sia possibile ancorare l’accertamento della tollerabilità delle immissioni, alla stregua dei parametri indicati dal legislatore.
Invero, accettare la suddetta premessa concettuale significa introdurre nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 844 c.c., un elemento (il superamento dei tassi legali) che la norma nella sua originaria configurazione non contempla.
Infatti, il legislatore del ’42 demandava al giudice l’accertamento della tollerabilità con riguardo ad una serie di parametri, squisitamente, fattuali ovvero: la natura dei luoghi, gli usi invalsi in un determinato contesto fattuale.
Ciò, consente di comprendere come intenzione originaria del legislatore fosse quella di riconoscere all’interprete un ruolo primario in quel contemperamento degli interessi, di volta in volta, in conflitto, che la stessa norma richiama, tutt’ora, quale criterio ispirativo delle scelte giurisdizionali al riguardo:”Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà”.
Il ruolo del Giudice, cioè, nell’economia complessiva della fattispecie, è stato concepito, non quale autorità chiamata ad esplicitare dei comandi legislativi “rigidi”, già interamente delineati nei loro contenuti – peraltro, allora inesistenti nella suddetta materia -, ma quale bonus pater familias, chiamato a dettare la regola del caso di specie, sulla base delle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta.
Una regola, cioè, che avrebbe dovuto tenere conto della peculiarità del caso concreto e piegarsi ad essa, accordando tutela a quello fra gli interessi in gioco, fosse da considerare prevalente.
Orbene, il legislatore del ’95, con la L. 26 ottobre 1995, n. 447, “Legge quadro sull’inquinamento”, è intervenuto a disciplinare la materia delle immissioni, relativamente all’ambito specifico dell’inquinamento acustico.
Di qui, il dubbio – che, in via interpretativa, é stato risolto mutevolmente – se la suddetta disciplina potesse interferire sull’applicazione dell’art. 844 c.c., riducendone la portata operativa, da clausola normativa generale, idonea a fondare poteri di amministrazione sostanziale, in capo all’autorità giudiziaria, a strumento che impone all’interprete la mera verifica dell’eventuale superamento dei tassi previsti dal legislatore.
E’ ovvio che, nel contesto storico-culturale che ha visto l’approvazione della norma, nel quale – data la natura essenzialmente agricola dell’economia nazionale – scarso, se non inesistente, era lo sviluppo industriale, da una parte, il fenomeno delle immissioni traeva origine, prevalentemente, da rapporti di vicinato; dall’altra, non esisteva ancora una normativa tecnica, idonea a fissare limiti e parametri.
Non v’è chi non veda la stretta connessione fra i due fenomeni, dal momento che la sporadicità del fenomeno delle immissioni, non aveva occasionato studi specifici sulla materia.
Invece, in un contesto nel quale, in conseguenza del mutato assetto dell’economia, si assiste ad una moltiplicazione dei fenomeni di immissione, il legislatore è intervenuto con una normativa specifica.
Orbene, ci si deve interrogare in relazione alla ricostruzione del rapporto esistente fra la normativa codicistica e quella statale ed, in particolare, se sia accettabile una ricostruzione in termini di specialità, con conseguente prevalenza della seconda sulla prima oppure sia preferibile la tesi di una reciproca autonomia, con conseguente salvezza dei rispettivi ambiti operativi.
La risposta a tale quesito richiede una breve ricostruzione dell’iter storico della norma codicistica e delle sperimentazioni applicative che l’hanno riguardata.
In primis, non può obliterarsi quell’orientamento interpretativo che – muovendo dal presupposto, oramai superato, dell’inesistenza di un parametro costituzionale cui ancorare, la tutela dell’ambiente – riconosceva alla norma de qua la funzione di strumento preposto alla tutela del bene – ambiente (e non soltanto dei diritti dominicali).
Si ricorderà come tale iniziale approccio esegetico sia stato superato : da una parte, si é assistito alla rivisitazione concettuale dell’art. 32 Cost., concepito ab origine quale norma a tutela della salute e che, successivamente – con una evidente eterogenesi dei fini – è stato riconosciuto come funzionale alla tutela dell’ulteriore bene della salubrità ambientale; dall’altra, si è provveduto alla “ricollocazione” dell’art. 844 c.c., nell’alveo dei rapporti dominicali.
D’altra parte, in tal senso, deponeva la collocazione sistematica della norma inserita tra quelle a tutela della proprietà individuale.
Tale ridimensionamento della portata operativa della norma codicistica non era stata scevra da censure.
Il combinato disposto degli art 32 Cost, – nella sua rinnovata veste di norma, immediatamente precettiva, a tutela dell’integrità del bene ambientale, quale necessario presupposto per la salute della Persona – e dell’art. 2043 c.c. poteva consentire il ristoro del danno all’ambiente, quando già consumato, ma non anche il promovimento di quelle iniziative di tutela, necessarie al fine di impedire la compressione del bene della salubrità ambientale.
Bene che – per sua stessa natura, ed, in particolare, per la sua infungibilità monetaria – non era conciliabile con una tutela di carattere successivo e monetaria, ovvero per equivalente.
L’art. 844 c.c, invece, assicurava, alla vittima delle immissioni, lo strumento dell’inibitoria, esercitabile nei confronti del proprietario dell’immobile, ma anche dell’autore materiale delle immissioni, sprovvisto della qualità di dominus dell’immobile (ad es. del conduttore, dell’usufruttuario, ecc.); ciò, in quanto allo stesso deve essere imposto un mero non facere, che non implica alcun atto di disposizione della res.
Peraltro, per taluni, la suddetta azione sarebbe esercitabile anche in via d’urgenza, quale modalità di esercizio confacente alla particolare natura del bene leso.
A fronte di tale minoritario orientamento, è,però, prevalsa la tesi per cui, a fini cautelari, sarebbe necessario il ricorso all’art. 700 c.p.c., quale strumento atipico, invocabile a tutela di qualunque diritto della persona, costituzionalmente garantito e idoneo, nel caso di specie, a consentire il conseguimento di un provvedimento giudiziale che inibisca d’urgenza la condotta inquinante.
Peraltro, proprio l’ambito delle immissioni, è stato oggetto delle prime sentenze, favorevoli al riconoscimento di un danno non patrimoniale, per così dire, in re ipsa; ciò pur in assenza della prova di patologie neuropsichiche e, dunque, in deroga al requisito legale della necessaria accertabilità medico-legale del pregiudizio de quo.
Infatti, si è affermato che l’esposizione ad intollerabili immissioni acustiche dà luogo ad un danno biologico – risarcibile in via equitativa – dovuto allo “stress”; altre volte, si è qualificato tale danno espressamente come “esistenziale”, sulla base della compromissione “delle normali attività dell’individuo, quali il riposo, il relax, l’attività lavorativa domiciliare e non” .
E’ chiaro che l’avvento delle Sezioni Unite dell’11.11.08 pone, ora, un’esigenza di rivisitazione critica del suddetto orientamento, ogniqualvolta il pregiudizio esistenziale, di cui si deduca l’esistenza, non derivi eziologicamente dalla lesione di un diritto costituzionalmente fondato che possa dirsi leso oltre la soglia della normale tollerabilità.
Per quanto concerne la prassi giudiziaria, fin’ora invalsa, diversi sono stati i criteri elaborati al fine di determinare il limite di tollerabilità delle immissioni di tipo sonoro, quale presupposto oggettivo di una qualificazione in termini illeciti delle stesse.
Infatti, l’assenza di una legislazione organica volta a disciplinare il problema del rumore, che ha assunto dimensioni sempre più consistenti nella attuale realtà tecnologica e produttiva, ha sollecitato l’individuazione di un parametro di riferimento che consentisse di conciliare l’esigenza di criteri uniformi con la naturale diversità del caso concreto.
Da ciò il ricorso al c.d. criterio relativo-comparativo, detto anche cd. comparativo-differenziale, che muove dalla comparazione del livello medio della cd. rumorosità di fondo della zona – e cioè di quel complesso di suoni e rumori di origine varia e spesso non identificabili, continui e caratteristici del luogo, sui quali si innestano di volta in volta i rumori più intensi (Cass.4.12.1978 n.5695 e successive) – con quello del rumore rilevato sul luogo che subisce le immissioni.
All’esito del suddetto confronto, si ritiene superato il limite della normale tollerabilità per quelle immissioni che abbiano una intensità superiore di oltre tre decibel al livello sonoro di fondo, cosa che equivale al raddoppio dell’intensità di quest’ultimo (cfr. tra le tante Trib. Milano, 10-12-1992, Trib. Roma 16 marzo 1964; Cass. 1796/1976, Cass. 161/1996, App. Milano 28 febbraio 1995, Trib. Perugia 8 novembre 1997) .
D’altra parte, la Cassazione, fin dalla metà degli anni ’70, ha chiarito come il limite della normale tollerabilità delle immissioni dovesse intendersi, non in senso assoluto, bensì relativo, dovendo lo stesso essere fissato con riguardo al caso concreto, tenendo conto delle condizioni naturali e sociali dei luoghi, della attività ivi normalmente svolte, del sistema di vita e delle abitudini delle popolazioni e, con particolare riguardo alle immissioni sonore.
E’ evidente come il suddetto modus procedendi consenta di riconoscere adeguato rilievo al criterio normativo della reale situazione dei luoghi. Ciò diversamente dagli esiti cui si perviene, utilizzando il c.d. criterio assoluto, che, ai fini del giudizio di tollerabilità, accorda rilevo al mero superamento di un dato livello di rumorosità.

Orbene, appare rilevante comprendere in quali termini debba ricostruirsi il rapporto fra il suddetto criterio e la successiva emanazione prima del d.p.c.m. 1° marzo 1991 (limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno), poi della l. 26 ottobre 1995 n. 447 (legge quadro sull’inquinamento acustico).
Esiste una prima tesi interpretativa secondo cui, in relazione all’inquinamento acustico,la legge 447/95, nel delineare dei limiti differenziali rispetto al rumore di fondo, conterrebbe dei limiti non solo minimi – il cui superamento è, di per sé, idoneo a giustificare un giudizio di intollerabilità -, ma anche massimi, nel senso che non è possibile che soglie di rumore inferiori ai predetti limiti, possano fondare un giudizio di intollerabilità.
Per contro, altre pronunce di merito non recepiscono il medesimo percorso logico.
Infatti, il Tribunale di Venezia, (sez. di Dolo, ordinanza 4 ottobre), ha sostenuto che il metodo di accertamento dell’intollerabilità, cd. comparativo-differenziale, sarebbe rimasto immutato anche dopo i suddetti interventi normativi.
Infatti, le norme in essi contenute – sulla base di una delimitazione operativa, fondata sulla natura del rapporto interessato dal fenomeno delle immissioni – troverebbero applicazione ai soli “rapporti fra imprese ed enti locali per la bonifica del territorio dall’inquinamento acustico e i livelli di accettabilità delle immissioni sonore al fine di assicurare alla collettività il rispetto dei livelli minimi di quiete”.
Alle suddette norme non potrebbe riconoscersi, invece, alcuna idoneità ad incidere “sui rapporti di diritto soggettivo intercorrenti fra privati”, né le stesse potrebbero introdurre delle eccezioni alle disposizioni di legge di portata generale in materia di tutela dei diritti patrimoniali e della salute che competono ad ogni persona e, in particolare, all’art. 844 c.c. (v. tra le tante, Pret. Monza 18 luglio 1991, Trib. Catania 13 dicembre 2001 e Cass., sez. II, 27-01-2003, n. 1151)”.
Dunque, sarebbe possibile affermare l’intollerabilità delle immissioni anche ove tal ultime non superino i limiti fissati dalle norme di interesse generale (v. da ultimo, Cass. 951/1999, Cass. 5398/1999, Cass. 1565/2000, Cass., sez. II, 27-01-2003, n. 1151).
Nello stesso senso, si è espresso il Trib. di Nola (sentenza del 15.7.2004), secondo cui il rapporto tra “la disciplina privatistica a tutela della proprietà e della salute dalle immissioni, rinvenibile nell’art.844 c.c. interpretato secondo il lume dell’art.32 della Cost., e la disciplina pubblicistica apprestata per la tutela dell’ambiente in generale dalle fonti rumorose ed inquinanti (ad es., per il rumore dalla legge 447 del 1995 e dai D.P.C.M. 1.3.1991 e 14.11.1997)”, sarebbe da ricostruire in termini di “reciproca autonomia e complementarità”.
Da una parte, la normativa pubblicistica sarebbe preordinata a tutelare la collettività, nel suo complesso, dalle fonti di inquinamento tali da interferire con la legittima fruizione dell’ambiente, contemperando le varie esigenze pubbliche e ponendo limiti di accettabilità, dall’altra, la normativa privatistica, ed in primo luogo l’art.844 c.c., assicurerebbero la tutela del soggetto “in quanto individuo che sia vittima di immissioni intollerabili, a prescindere dalla osservanza o meno della disciplina pubblicistica”.
La struttura aperta della norma codicistica consentirebbe di ricomprendere, nella sua portata operativa,”principi guida non meno cogenti di quelli posti a tutela della proprietà, primo fra tutti quelli dell’integrità psico-fisica, di rango costituzionale”. Dunque, la suddetta norma prevarrebbe sulle normative di tipo pubblicistico o amministrativo, preordinate alla disciplina dei rapporti tra soggetto proprietario del fondo da cui originano le immissioni e l’ente pubblico. Ciò per quanto le stesse mirino alla fissazione di standards limite di inquinamento ambientale. Dunque, se anche quegli standards pubblicistici di accettabilità fossero rispettati e cionondimeno le immissioni risultassero intollerabili, in ogni caso il giudice civile dovrebbe intervenire per farle cessare. (Cass. SS.UU. 19.7.1985 n.4263; Cass.10.1.1996 n.161).
Invero, anche la Suprema Corte ha sposato il principio della non sovrapponibilità dell’ambito operativo delle due discipline, ribadendo, come alla materia delle immissioni sonore o da vibrazioni e scuotimenti, atte a turbare il bene della tranquillità nel godimento degli immobili adibiti ad abitazione, non sia applicabile la normativa di cui alla legge 26 ottobre 1995 n. 477, “poiché detta normativa, come quella con tenuta nei regolamenti locali, persegue interessi pubblici, disciplinando, in via generale ed assoluta, e nei rapporti c.d. verticali, tra privati e la pubblica amministrazione, i livelli di accettabilità delle immissioni sonore al fine di assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete mentre nei rapporti singoli privati la disciplina delle immissioni moleste in alienum va rinvenuta nell’art. 944 c.c. così che, quand’anche, in ipotesi, dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il giudizio sulla loro tollerabilità deve farsi, con riferimento di volta in volta all’art. 844 c.c., secondo il prudente apprezzamento del giudice che tenga conto delle particolarità della situazione concreta” (Cass. n. 5366-99; n. 1565-2000; n. 915-99; SS.UU. n. 4156-57)”.
Invero, il suddetto limite all’ambito operativo della legge speciale (ovvero la limitazione ai c.d. rapporti verticali) non è oggetto di espressa previsione, limitandosi la stessa – in quanto legge – quadro sull’inquinamento acustico -, ad enucleare i principi essenziali cui le regioni avrebbero dovuto conformarsi nell’esercizio della propria potestà normativa in materia.
Nondimeno, nonostante l’assenza di una previsione ad excludendum, l’inammissibilità, in materia, del ricorso a limiti fissi, disancorati dalla specificità del caso concreto, deve desumersi dal contrasto della norma stessa con il principio della tutela della Persona.
Tutela della persona che – in virtù dell’univoca impostazione personalistica del nostro sistema ordinamentale – non può scontare i limiti intrinseci all’adozione di un criterio astratto di determinazione dell’intollerabilità delle immissioni.
Ciò vale, a fortiori, per i DPCM del 1991 e del 1997, dal momento che un diritto primario non può, comunque, essere inciso negativamente da una disposizione normativa secondaria, d’ordine regolamentare, quali sono i suddetti decreti, preordinati, appunto, a finalità di carattere pubblico ed operanti nei rapporti fra i privati e la Pubblica amministrazione .

Nondimeno, non può disconoscersi il rilievo, anche indiretto, che la summenzionata legge speciale assume in materia.
Postulare la totale estraneità della legge 447/1995 rispetto al fenomeno delle immissioni, avrebbe quale conseguenza di eludere il dettato normativo, riducendone arbitrariamente l’ambito operativo.
Dunque, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata della stessa e tale da consentirne la conformità al valore – salute, deve ritenersi che i limiti, da essa dettati, assumano il valore di indice significativo – per quanto non esaustivo, né esclusivo – dell’intollerabilità dell’immissione, anche in ambito di rapporti privatistici e interpersonali . Indice che potrà, di per sé, fondare un giudizio di intollerabilità nell’ipotesi di immissioni tali da superare lo stesso, ma che potrà essere posto a fondamento di un giudizio di tollerabilità, solo se supportato da altri elementi, come la ricorrenza di determinate circostanze fattuali.
D’altra parte, la parziale rilevanza dei parametri legali anche con riguardo all’interesse del singolo dominus era stata già affermata dalla Suprema Corte del 2001secondo cui “se è certo che il superamento dei limiti pubblicistici posti a tutela dell’intera collettività comporta certamente la intollerabilità del rumore nel caso concreto, non è vero il contrario”. Dunque, anche se “l’intensità del rumore rientra nei limiti di accettabilità posti dalla normativa pubblicistica, nondimeno l’immissione nella singola fattispecie considerata può risultare intollerabile”.
Pertanto, i criteri stabiliti dalla normativa pubblicistica, come ad esempio, i criteri stabiliti dal D.P.C.M. 1.3.91 in materia di limiti massimi di esposizione al rumore – ha affermato la Suprema Corte -, benchè dettati per la tutela generale del territorio, possono essere utilizzati come parametro di riferimento per stabilire l’intensità e, di riflesso, la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati. Ciò, purchè, però, considerati come un limite minimo e non massimo, dato che i suddetti parametri sono meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art.844 c.c., con la conseguenza che il loro superamento determina necessariamente la violazione della predetta norma, mentre il loro rispetto non ne assicura la mancata violazione (Cass. 18.4.2001 n.5697; Cass. 3.8.2001 n.1073).

Il caso di specie
Il CTU ha accertato, in riferimento al livello di rumore differenziale, nel periodo di riferimento notturno (dalle ore 22.00 alle ore 6.00) un superamento del limite a finestra chiusa (3,6 + 0,5 dB(A) > 3 dB(A)), a fronte di una rilevazione a finestra aperta al di sotto del limite (0,9 dB(A) < 3 dB(A)).
Dunque, in base alle misurazioni de quibus i rumori differenziali notturni dell’attività del convenuto oscillerebbero tra 3,1 e 4,1 dB(A) a finestra chiusa, così superando il limite considerato di 3dB(A)
Dunque, l’attore deve essere condannato alla reintegrazione in forma specifica mediante l’arretramento delle tubazioni a servizio del lavello della cucina, non a norma, nel rispetto della distanza, prevista dal Codice civile, di un metro.
Inoltre, al convenuto deve essere ordinata la cessazione delle immissioni sonore, eccedenti la misura legale, quale meglio specificata nella parte motiva.

Per quanto concerne la pretesa risarcitoria avanzata da parte attrice, dall’espletata istruttoria non consta che l’integrità fisica o morale del soggetto abbia risentito di un pregiudizio esistenziale, idoneo a superare quella soglia di gravità qualificata cui le Sezioni Unite ancorano il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, al di fuori delle ipotesi costituenti reato.
Dunque, la domanda risarcitoria per equivalente deve essere rigettata.
Le spese, comprese quelle di CTU, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Giudice, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da P.C., nei confronti di T.A., così provvede:
1) condanna il convenuto alla reintegrazione in forma specifica mediante l’arretramento delle tubazioni a servizio del lavello della cucina, non a norma, nel rispetto della distanza, prevista dal Codice civile, di un metro;
2) accerta che il convenuto è responsabile di immissioni sonore che superano la normale tollerabilità e, per l’effetto, ordina, altresì, al convenuto la cessazione delle immissioni sonore, eccedenti la misura legale, quale meglio specificata nella parte motiva;
3) condanna il convenuto al pagamento, in favore dell’attore, delle spese di giudizio che liquida in complessivi € 3000,00 di cui euro 100,00 per spese, euro 1900,00 per diritti ed € 1000,00 per onorario, oltre iva e cap ed esborsi forfettizzati come per legge;
4) condanna il convenuto al pagamento delle spese di Ctu.

IL GIUDICE
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