Rapina in banca: al dipendente spetta il risarcimento dei danni subiti (Cass. pen. n. 17585/2013)

Redazione 18/07/13
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Svolgimento del processo

La Corte d’appello di L’Aquila ha confermato la sentenza del Tribunale di Teramo nella parte in cui il giudice di primo grado aveva respinto la domanda proposta da G.D.P. nei confronti della Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo per ottenere la condanna della società al risarcimento dei danni da essa subiti a seguito di alcune rapine compiute nel periodo dal 1976 al 2004 presso la sede ove essa aveva prestato la propria attività lavorativa. A tali conclusioni la Corte territoriale è pervenuta considerando che la ricorrente non aveva allegato né provato l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di misure di sicurezza idonee ad evitare le rapine, limitandosi ad allegare la manifestazione di segni di paura e disagio nell’immediatezza di ciascuna rapina e l’installazione di porte antirapina solo nel 1982, successivamente ai primi due episodi criminosi.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione D.P.G. affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso la Tercas – Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 1218 e 2087 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che fosse la ricorrente a dover dimostrare che la Cassa di Risparmio non aveva adottato sufficienti misure per la tutela della sicurezza dei propri dipendenti, anziché quest’ultima a dover dare la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno.
2.- Con il secondo motivo la ricorrente censura la decisione della Corte territoriale sotto il profilo del vizio di motivazione per aver trascurato, nell’affermare che non era stata provata la negligenza della Cassa di Risparmio circa la mancata adozione di misure di sicurezza idonee ad evitare le rapine, di considerare che l’installazione delle porte antirapina era avvenuta solo dopo che si erano verificati i primi due episodi criminosi e che le successive rapine erano state eseguite servendosi di strumenti, quali taglierini e una finta pistola di metallo, che non avrebbero potuto essere introdotti nei locali della banca se i dispositivi di sicurezza installati dalla Cassa di Risparmio avessero funzionato correttamente.
3.- I motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono fondati.
Va premesso che questa Corte ha già affermato (cfr. Cass. n. 3788/2009, Cass. n. 21590/2008, Cass. n. 9817/2008) che l’obbligo di sicurezza, posto a carico del datore di lavoro in favore del lavoratore, è previsto in generale, con carattere atipico e residuale, dall’art. 2087 c.c. e che la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell’art. 1374 c.c., dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, con la conseguenza che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell’art. 1218 c.c. circa l’inadempimento delle obbligazioni, da ciò discendendo che il lavoratore il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’esistenza del danno ed il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.
È stato altresì precisato (cfr. ex multis Cass. n. 9856/2002) che incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, senza che occorra anche la indicazione delle norme antinfortunistiche violare o delle misure non adottate, mentre, quando il lavoratore abbia provato quelle circostanze, grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
4.- In altre parole, come questa Corte ha già efficacemente precisato (cfr. Cass. n. 21590/2008), la regola sovrana in questa materia, desumibile dall’art. 1218 c.c., è che il creditore che agisca per il risarcimento del danno deve provare tre elementi: la fonte (negoziale o legale) del suo diritto, il danno e la sua riconducibilità al titolo dell’obbligazione; a tale scopo egli può limitarsi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre è il debitore convenuto ad essere gravato dell’onere di provare il proprio adempimento, o che l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile (cfr. ex multis Cass. sez. unite n. 13533/2001).
Al riguardo, la formulazione che si rinviene in alcune pronunce della S.C., secondo cui il lavoratore infortunato ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di sicurezza (in tal senso, fra le altre, Cass. n. 16003/2007, Cass. n. 10441/2007), non appare conforme al principio enunciato dalla predetta pronuncia delle Sezioni unite, alla quale va prestata adesione. Il principio sopra esposto non comporta l’affermazione tout court di una responsabilità oggettiva ex art. 2087 c.c., nella stessa misura in cui l’allegazione del mancato pagamento di una somma di denaro non comporta una responsabilità oggettiva del debitore, ex art. 1218 c.c..
5.- Nel caso di specie, la Corte territoriale, con l’affermazione che grava sul danneggiato l’onere di allegare e di dimostrare “l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di misure minime di sicurezza e di prevenzione atte a scongiurare, nei limiti del possibile, la commissione dei fatti delittuosi sopra indicati”, non ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto sopra enunciati. Peraltro, la motivazione sul punto presenta una obiettiva incoerenza ed un evidente vizio logico, attesa la contraddizione tra l’affermazione secondo cui sarebbe mancata l’allegazione (e la prova) di circostanze idonee a provare l’omessa predisposizione di misure di sicurezza e la contemporanea affermazione secondo cui la ricorrente, “lungi dall’allegare (e poi dimostrare) circostanze di fatto relative alla asserita antigiuridicità della condotta posta in essere dall’azienda di credito”, si sarebbe limitata “a chiedere di provare con testimoni… l’installazione di bussolotti antirapina a seguito della terza rapina”, ovvero proprio l’esistenza di una circostanza astrattamente idonea a far presumere la responsabilità del datore di lavoro a norma dell’art. 2087 c.c., quanto meno in relazione alla verificazione dei primi due episodi criminosi (e tutto ciò a prescindere dalla considerazione che, secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, la ricorrente aveva dedotto, con i motivi di appello, anche che le rapine del 1993, del 2002 e del 2004 erano state eseguite servendosi di strumenti metallici, quali taglierini e una finta pistola di metallo, che non avrebbero potuto essere introdotti nei locali dell’istituto di credito se i dispositivi di sicurezza installati dalla Cassa di Risparmio avessero funzionato correttamente).
6.- Il ricorso deve essere pertanto accolto, conseguendone la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa ad altro giudice, che si designa nella Corte d’appello di Ancona, perché provveda al riesame alla stregua dei principi di diritto enunciati ai precedenti punti 3) e 4).
Il giudice del rinvio provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Ancona.

Redazione