Ragionevole durata del processo: un giudizio “Pinto”, svoltosi in due gradi di giudizio, non deve superare la durata di 2 anni (Cass. n. 8283/2012)

Redazione 24/05/12
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Massima
Il giudizio di equa riparazione, che si svolge presso le Corti d’appello ed eventualmente, in sede di impugnazione, dinnanzi a questa Corte, è un ordinario processo di cognizione, soggetto, in quanto tale, alla esigenza di una definizione in tempi ragionevoli; esigenza, questa, tanto più pressante per tale tipologia di giudizi, in quanto finalizzati all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per sé una condizione di sofferenza e un patema d’animo che sarebbe eccentrico non riconoscere anche per i procedimenti ex l. n. 89 del 2001.

È fondato il ricorso con cui si denunzia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 l. n. 89/01 e 6, 13 e 41 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo per avere la Corte d’appello affermato che la durata di una controversia avente ad oggetto l’accertamento della irragionevole durata di altro giudizio dovrebbe essere valutata alla stregua degli stessi parametri utilizzabili per la determinazione della durata ragionevole del processo presupposto.

Il Collegio ritiene che non possa essere data continuità all’orientamento secondo cui la ragionevole durata del giudizio di equa riparazione previsto e disciplinato dalla l. n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), vada determinata in mesi quattro dalla data del deposito del ricorso; si ritiene invece che ove venga in rilievo un giudizio “*****” svoltosi anche dinnanzi alla Corte di cassazione, la durata complessiva dei due gradi debba essere ritenuta ragionevole ove non ecceda il termine di due anni, ritenendosi tale termine pienamente compatibile con le indicazioni desumibili dagli ultimi approdi della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e rispondente sia alla natura meramente sollecitatoria del termine di quattro mesi di cui al’art. 3, c. 6, l. n. 89/01, sia della durata ragionevole del giudizio di cassazione che, anche in un procedimento di equa riparazione, non è suscettibile di compressione oltre il limite più volte ritenuto ragionevole di un anno. (a cura del **************)

 

Svolgimento del processo

T.M., P.A. e S.S. hanno proposto, ai sensi della legge n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione del danno patrimoniale e non patrimoniale sofferto a causa della non ragionevole durata del giudizio di equa riparazione per violazione del termine ragionevole ex lege n. 89 del 2001, introdotto dinnanzi alla Corte d’appello di Roma con ricorso depositato il 1 aprile 2005, concluso con decreto depositato il 2 febbraio 2006 e definito, a seguito di ricorso per cassazione notificato il 16 marzo 2007, con sentenza depositata il 22 dicembre 2009.

La Corte territoriale ha rigettato la domanda, rilevando che il giudizio di equa riparazione aveva avuto una durata complessiva di circa tre anni e otto mesi (dieci mesi + un mese per predisporre il ricorso – tempo ritenuto sufficiente per predisporre il gravame – oltre due anni e nove mesi per il giudizio di legittimità). Ha quindi ritenuto che il procedimento – per quanto risultante dagli atti – pur non essendo complesso, fosse tuttavia caratterizzato da molteplici elementi (determinazione della durata ragionevole, del calcolo dell’indennizzo e degli interessi, liquidazione degli onorari e dei diritti) che concorrevano a qualificarlo come di non semplice o immediata risoluzione. Facendo dunque applicazione di quanto affermato dalla S.C. nella sentenza n. 7688 del 2006 – secondo cui il termine di quattro mesi previsto dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 3, comma 6, per la definizione, da parte della Corte di appello, dello speciale procedimento camerale in unico grado in materia di equa riparazione del danno derivante dalla irragionevole durata del processo, non ha carattere perentorio ed il suo superamento non comporta, di per sè, la violazione del diritto alla ragionevole durata del medesimo procedimento -, ha escluso, nella specie, la violazione del termine di ragionevole durata e ha condannato le ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Per la cassazione di questo decreto le originarie attrici hanno proposto ricorso sulla base di due motivi, cui ha resistito, con controricorso, l’intimata Amministrazione, la quale ha altresì proposto ricorso incidentale affidato a due motivi;

le ricorrenti principali hanno a loro volta resistito con controricorso al ricorso incidentale.

Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’udienza pubblica.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso le ricorrenti principali denunciano violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, degli artt. 6, 13 e 41 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonchè del principio di sussidiarietà, di cui all’art. 35 della medesima convenzione.

La Corte d’appello, sostengono le ricorrenti, sarebbe incorsa nella denunciata violazione di legge per avere affermato che la durata di una controversia avente ad oggetto l’accertamento della irragionevole durata di altro giudizio i dovrebbe essere valutata alla stregua degli stessi parametri utilizzabili per la determinazione della durata ragionevole del processo presupposto. La erroneità di tale impostazione deriverebbe da quanto affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in alcune pronunce, che impedirebbero di considerare ancora attuale il principio affermato da Cass. n. 7688 del 2006. Infatti, la Corte Europea, secondo le ricorrenti, considera eccessiva la durata di undici mesi per un giudizio sulla ragionevole durata svoltosi in unico grado, mentre potrebbe ritenersi ancora ragionevole una durata di quattordici mesi per un giudizio svoltosi in due gradi.

La Corte d’appello avrebbe poi errato nell’espungere il termine lungo intercorso tra il deposito del provvedimento e la proposizione della impugnazione, avendo considerato valutabile ai fini della durata ragionevole solo un mese, pur se il termine per proporre il ricorso per cassazione è stabilito in sessanta giorni.

Con il secondo motivo, le ricorrenti deducono ulteriore violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, degli artt. 6, 13 e 41 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonchè contraddittorietà o illogicità della motivazione, dolendosi in particolare dell’apprezzamento della Corte d’appello sulla determinazione della ragionevole durata del procedimento di equa riparazione, ritenuto di non semplice soluzione sulla base di elementi assolutamente non significativi della complessità del procedimento, coincidendo gli stessi con la stessa causa, petendi.

Con il primo motivo del ricorso incidentale, l’Amministrazione intimata denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sulla eccezione di inammissibilità della domanda formulata all’atto della costituzione in giudizio.

Con il secondo motivo l’Amministrazione denuncia falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, e degli artt. 6, par. 1, e 35 della CEDU. L’Amministrazione, sul rilievo che per i procedimenti dinnanzi alla Corte Europea non opererebbe il principio della ragionevole durata del processo, atteso che le decisioni della Corte Europea vengono depositate a distanza di numerosi anni dalla proposizione del ricorso, e tenuto conto che il ricorso ex L. n. 89 del 2001 integra un rimedio interno propedeutico alla proposizione del ricorso alla Corte Europea, sostiene che anche il procedimento delineato dalla normativa interna dovrebbe ritenersi sottratto all’applicazione delle regole valevoli per le altre controversie. Del resto, nei giudizi di equa riparazione non sarebbe neanche configurabile un patema d’animo tale da ingenerare una sofferenza suscettibile di essere indennizzata ai sensi della L. n. 89 del 2001.

Assume carattere logicamente prioritario l’esame del ricorso incidentale.

Il primo motivo è infondato, atteso che la Corte d’appello, esaminando nel merito la domanda con la quale gli attori chiedevano l’equa riparazione per la irragionevole durata del procedimento ex L. n. 89 del 2001, ha implicitamente rigettato l’eccezione della difesa erariale di inammissibilità della domanda con riferimento alla indicata tipologia di giudizi. Deve dunque escludersi la denunciata omessa pronuncia su tale eccezione.

Anche il secondo motivo è infondato, atteso che il giudizio di equa riparazione, che si svolge presso le ***** d’appello ed eventualmente, in sede di impugnazione, dinnanzi a questa Corte, è un ordinario processo di cognizione, soggetto, in quanto tale, alla esigenza di una definizione in tempi ragionevoli; esigenza, questa, tanto più pressante per tale tipologia di giudizi, in quanto finalizzati all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per sè una condizione di sofferenza e un patema d’animo che sarebbe eccentrico non riconoscere anche per i procedimenti ex L. n. 89 del 2001.

Nè appare condividibile l’assunto che il giudizio dinnanzi alla Corte d’appello e l’eventuale giudizio di impugnazione costituiscono una fase necessaria di un unico procedimento destinato a concludersi dinnanzi alla Corte Europea, nel caso in cui nell’ordinamento interno la parte interessata non ottenga una efficace tutela all’indicato diritto fondamentale, atteso che il procedimento interno rappresenta una forma di tutela adeguata ed efficace, sempre che, ovviamente, si svolga esso stesso nell’ambito di una ragionevole durata.

Il ricorso incidentale va quindi rigettato.

Il primo motivo del ricorso principale è fondato.

Ai fini della individuazione di quale sia la ragionevole durata di un giudizio di equa riparazione, che si sia svolto dinnanzi alla Corte d’appello e in sede di impugnazione dinnanzi a questa Corte, occorre procedere alla ricognizione della giurisprudenza della Corte Europea sul punto.

Nella sentenza 29 marzo 2006 della Grande Camera, nella causa ************ contro Italia, si è affermato che “il periodo di quattro mesi previsto dalla legge Pinto soddisfa il requisito di rapidità necessario perchè un rimedio sia effettivo. L’unico ostacolo a ciò può sorgere dai ricorsi per cassazione per i quali non è previsto un termine massimo per l’emissione della decisione.

Nel caso di specie, la fase giudiziaria è durata dal 3 ottobre 2001 al 6 maggio 2002, cioè sette mesi, che, pur eccedendo il termine previsto dalla legge, sono ancora ragionevoli” (par. 99).

Nella successiva decisione della Seconda Sezione 31 marzo 2009, causa Simaldone contro Italia (par. 29), si è invece ritenuta eccessiva una durata di un giudizio “Pinto”, svoltosi in un solo grado dinnanzi alla Corte d’appello e protrattosi per undici mesi.

Nel caso deciso dalla Seconda Sezione il 22 ottobre 2010, causa ******** e Ci armo li contro Italia, dopo aver dato atto del contenuto della sentenza ************, si è ulteriormente precisato che la durata di un giudizio “Pinto” davanti alla Corte d’appello, inclusa la fase di esecuzione, salvo circostanze eccezionali, non deve superare un anno e sei mesi.

Da ultimo, nella decisione 27 settembre 2011 della Seconda Sezione, causa CE.DI.SA. Fortore s.n.c. Diagnostica Medica Chirurgica contro Italia, la Corte ha ritenuto che, in linea di principio, per due gradi di giudizio, la durata di un procedimento “Pinto” non debba essere, salvo circostanze eccezionali, superiore a due anni.

Nella giurisprudenza di questa Corte, si è invece ritenuto che la ragionevole durata del giudizio di equa riparazione previsto e disciplinato dalla L. n. 89 del 2001, vada determinata in mesi quattro dalla data del deposito del ricorso, coerentemente alla indicazione chiaramente desumibile dall’art. 3, comma 6, della medesima legge (Cass. n. 8287 del 2010).

Il Collegio ritiene che a tale orientamento non possa essere data continuità e che, rimandandosi alle singole fattispecie la valutazione della durata ragionevole di una procedura “Pinto” che si svolga solo dinnanzi alla Corte d’appello, ove, come nel caso di specie, venga in rilievo un giudizio “Pinto” svoltosi anche dinnanzi alla Corte di cassazione, la durata complessiva dei due gradi debba essere ritenuta ragionevole ove non ecceda il termine di due anni, ritenendosi tale termine pienamente compatibile con le indicazioni desumibili dagli ultimi approdi della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e rispondente sia alla natura meramente sollecitatoria del termine di quattro mesi di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 6, sia della durata ragionevole del giudizio di cassazione che, anche in un procedimento di equa riparazione, non è suscettibile di compressione oltre il limite più volte ritenuto ragionevole di un anno.

Orbene, tenuto conto che, nel caso di specie, il ricorso è stato depositato presso la Corte d’appello di Roma il 1 aprile 2005; che l’unico grado di giudizio di merito si è concluso con decreto depositato il 2 febbraio 2006; che il giudizio di cassazione è stato introdotto con ricorso notificato il 16 marzo 2007 ed è terminato con sentenza depositata il 22 dicembre 2009, la durata complessiva del procedimento è stata di circa quattro anni e nove mesi (57 mesi). Detratto il termine ragionevole, stimato due anni, nonchè il termine di circa undici mesi intercorso tra il deposito del decreto e la proposizione della impugnazione, ulteriore a quello legislativamente previsto per il ricorso per cassazione (Cass. n. 8287 del 2010, cit.), la durata non ragionevole risulta essere stata di un anno e dieci mesi.

Il primo motivo di ricorso va quindi accolto, con assorbimento del secondo motivo, inerente alla contraddittorietà della motivazione del decreto impugnato quanto alla non semplicità della definizione del giudizio di merito.

L’accoglimento del motivo comporta la cassazione del decreto impugnato, cui segue, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la decisione nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c..

Alla luce dell’accertata irragionevole durata del giudizio, a ciascuno dei ricorrenti spetta un indennizzo che va liquidato sulla base di Euro 750,00 per anno, e quindi in complessivi Euro 1.375,00, oltre interessi legali dalla data della domanda al saldo.

Ai ricorrenti compete altresì il rimborso delle spese dell’intero giudizio, liquidate nella misura indicata in dispositivo, con la precisazione che sulle somme dovute a titolo di onorari – Euro 445 per il giudizio di merito; Euro 425,00 per il giudizio di cassazione – si applica, ai sensi del D.M. n. 127 del 2004, art. 5, comma 4, che lo consente sino al 20%, un aumento del 10% per ciascuna delle parti ulteriori rispetto alla prima.

Le spese devono essere distratte in favore del procuratore dei ricorrente, dichiaratosi antistatario.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso incidentale, accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo; cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti, della somma di Euro 1.375,00, oltre interessi legali dalla data della domanda al saldo;

condanna il Ministero alla rifusione delle spese dell’intero giudizio che liquida, per il giudizio di merito, in Euro 864,00, di cui Euro 50 per esborsi, 280 per diritti e 534 per onorari, e, per il giudizio di legittimità, in Euro 694, di cui Euro 594 per onorario, oltre alle spese generali e agli accessori di legge. Dispone la distrazione delle spese in favore del procuratore antistatario.

Redazione