Radiato dall’albo l’avvocato condannato per patrocinio infedele (Cass. n. 14172/2012)

Redazione 07/08/12
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Svolgimento del processo

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Gela con provvedimento del 10.7.07 irrogò all’avvocato P.G.C., imputato e poi condannato in sede penale per falso e patrocinio infedele, la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo, per aver costruito un ordine di cancellazione di un pignoramento onde ottenerne l’annotazione ed al fine di ricevere il compenso dal cliente, e per aver percepito un compenso per la proposizione di un ricorso, mai proposto, contro una sentenza del G.d.P..

Tale provvedimento, impugnato dall’incolpato, venne annullato, per mancanza di sottoscrizione del segretario, dal Consiglio Nazionale Forense, con decisione del 30.12.08, ritrasmettendo gli atti al C.O.A. di Gela, che il 30.6.2009 reiterò la cancellazione. Il nuovo ricorso del P. venne respinto dal C.N.F. con decisione del 24.2.12, sulla base delle seguenti essenziali argomentazioni:

a) non sussisteva alcuna preclusione da giudicato, essendo stato il primo provvedimento annullato per motivi formali, senza esame del merito;

b) i due procedimenti disciplinari, in seguito riuniti, erano stati regolarmente aperti, sospesi e riaperti, dopo la definizione di quelli penali per i rispettivi corrispondenti fatti, ed i provvedimenti di sospensione, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente non comportavano la caducazione degli atti precedentemente compiuti, riprendendo i procedimenti già sospesi, dopo la cessazione delle relative cause, nello stato in cui si trovavano, non essendo infine previsto alcun termine riassuntivo;

c) i termini di prescrizione quinquennale, decorrenti dalle date di passaggio in giudicato delle sentenze penali, 14.1.04 e 30.9.00, non erano ancora trascorsi all’atto delle aperture dei rispettivi procedimenti disciplinari, disposte con provvedimenti notificati, l’uno, in data 11.1.06, l’altro, il 16.9.04, seguiti da successivi e tempestivi atti interruttivi;

d) la sanzione risultava adeguatamente motivata, in relazione alla gravità dei fatti contestati. Contro tale decisione l’avv. P. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Non ha resistito il CO.A di Gela.

 

Motivi della decisione

p. 1. Con il primo motivo vengono dedotte violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies; artt. 354, 161 c.p.c., censurandosi la reiezione da parte del C.N.F. dell’eccezione di preclusione derivante dal passaggio in giudicato della precedente decisione del 31.12.2008. Il mezzo d’impugnazione si sviluppa in due gradati ordini di censure, riassumibili nei termini di seguito indicati.

1) La natura di organi amministrativi dei C.O.A., riconosciuta fin dal 1985 dal Consiglio di Stato e comportante l’applicazione delle regole contenute nella L. n. 241 del 1990 al procedimento disciplinare, comportavano, da un canto, la non giurisdizionalità di quest’ultimo e la non qualificabilità, in termini di sentenza, dei provvedimenti adottati, dall’altro, la qualità di parte, sia pure pubblicaci siffatti organismi nell’ambito del procedimento impugnatorio svolgentesi davanti al giudice speciale, il C.N.F., comportante il conseguente onere di impugnare le decisioni sfavorevoli. Ne deriverebbe nel caso di specie che, in mancanza del previsto ricorso a queste S.S.U.U. avverso la prima decisione de C.N.F., caducatoria del primo provvedimento del C.O.A., tale effetto sarebbe divenuto irrevocabile.

2) Nella gradata ed “assurda” ipotesi che il provvedimento del C.O.A fosse da equipararsi ad una sentenza, con conseguente ruolo del C.N.F. di giudice d’appello quest’ultimo non avrebbe potuto adottare la “abnorme” statuizione di “rinvio” al primo “giudice”, in ritenuta applicabilità dell’art. 354 c.p.c., non ricorrendo alcuna delle tassative ipotesi previste da tale articolo, do vendo semmai provvederla seguito del rilievo della nullità, direttamente nel merito, il che non era avvenuto.

Le censure sono prive di fondamento.

L’irrevocabilità della sentenza caducatoria del primo provvedimento del C.O.A., irrogante la sanzione disciplinare, non si è tradotta in una preclusione da “giudicato” comportante l’impossibilità di riesame dei fatti posti a fondamento degli addebiti, essendo stato l’annullamento pronunziato dal C.N.F. motivato da ragioni di mera rilevanza formale, inficianti il solo atto conclusivo di quel procedimento.

La mancata impugnazione di tale decisione da parte del C.O.A ha dato luogo al passaggio in giudicato del solo accertamento di nullità, per difetto di sottoscrizione, della deliberazione in data 10.7.2007, ma non anche alla “consumazione” del potere disciplinare, relativo agli illeciti in questione, ancora spettante all’organismo forense locale, che ben avrebbe potuto, anche a prescindere dal “rinvio” non assimilabile a quello di cui all’art. 354 c.p.c., attesa la natura non giurisdizionale del procedimento svolgentesi innanzi al C.O.A. – disposto dal C.N.F., procedere nuovamente nei confronti dell’incolpato, sulla scorta degli atti restituitigli o di quelli già in suo possesso, ed adottare un nuovo atto conclusivo valido, in luogo di quello precedente, la cui accertata invalidità non si era propagata a quelli che l’avevano preceduto. Superato dalle suesposte argomentazioni il primo e principale profilo di censura contenuto nel mezzo d’impugnazione, ne resta assorbito il secondo e subordinato, presupponente l’impropria attribuzione, sopra esclusa in considerazione della natura amministrativa del procedimento disciplinare davanti al C.O.A., della qualità di giudice di primo grado a quest’ultimo e di quello di appello al C.N.F..

p. 2. Con il secondo motivo, deducente violazione e falsa applicazione del R.D. n. 1578 del 1933, artt. 38, 44 e 50, L. n. 241 del 1990, artt. 7, 8, 10 e 21 septies, si sostiene che le sospensioni, in attesa della definizione dei processi penali, di quelli disciplinari, già avviati ex art. 38 cit. R.D. per ravvisate violazioni di carattere deontologico, in quanto non normativamente previste, avrebbero integrato decisioni definitorie “allo stato degli atti”, con la conseguenza che, una volta passate in giudicato le sentenze penali ed acquisite le relative copie, le decisioni di procedere ex art. 44 in cospetto di fatti aventi rilevanza penale, stanti la diversità dei procedimenti previsti dalle due citate norme e la conseguente soluzione di continuità, avrebbero richiesto l’adozione di nuove delibere di apertura dei procedimenti disciplinari e relative comunicazioni all’interessato L. n. 241 del 1990, ex art. 7.

In mancanza di tale “presupposto imprescindibile”, il provvedimento di citazione a giudizio emesso dal *** sarebbe stato nullo, nè avrebbero potuto recuperarsi gli atti compiuti prima delle sospensioni. Anche tale motivo è infondato.

Va anzitutto osservato che la natura non decisoria, ma interlocutoria, dei provvedimenti sospensivi adottati dai C.O.A., allorquando i fatti posti a fondamento delle contestazioni disciplinari rivestano natura di reato e siano ancora sub judice nella competente sede penale, è chiaramente desumibile da varie pronunzie di queste S.U. (nn. 2043/07, 2223/10, 16169/11, 5991/12), evidenzianti come la necessità della sospensione discenda dalla palese pregiudizialità dell’accertamento devoluto al G.O, che, imponendo all’organo disciplinare di attenderne la relativa decisione, implica il potere – dovere dello stesso di riprendere, all’esito della stessa, il procedimento amministrativo di propria competenza nello stato in cui era rimasto sospeso.

Tale ripresa, non integrando l’esercizio di una nuova azione disciplinare, ma soltanto la continuazione di quella precedentemente intrapresa, non comporta l’obbligo di rinnovazione del formale provvedimento di apertura del procedimento de quo, nè di quello di comunicazione di inizio all’interessato, anche a prescindere dal principio, pur recentemente riaffermato da queste S.U. (sent. n. 28339/11, conf. nn. 5072/05; 20843/07), secondo cui siffatta eventuale omissione, prima della emissione dell’atto di citazione di cui al R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 48, tenuto conto della natura amministrativa e non giurisdizionale del procedimento svolgentesi davanti al COA, non comporta alcuna sanzione di nullità, consentendo anche l’utilizzazione degli atti di informazione e documentazione precedentemente acquisiti ex art. 47 cit RD..

p. 3. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c., con riferimento alla ritenuta decorrenza dei termini di prescrizione alle date in cui erano divenute irrevocabili e sentenze penali, in quanto dalle stesse avrebbero potuto esercitarsi le pretese punitive, affermazione che si porrebbe in contrasto con il recupero delle attività svolte in precedenza, che coerentemente, ove tali pretese non fossero state azionabili, avrebbero dovuto considerarsi tamquam non essent. In realtà – si soggiunge – il principio della decorrenza del termine de quo dalla data di passaggio in giudicato delle sentenze penali avrebbe avuto un senso soltanto se il COA fosse venuto a conoscenza dei fatti a seguito della comunicazione di tali sentenze, il che non poteva nella specie ritenersi, poichè anche prima dell’irrevocabilità suddetta si era, in via autonoma, proceduto per l’uno e per l’altro episodio; sicchè i termini non avrebbero potuto essere spostati in avanti.

Il motivo, che in parte si riconnette a quello precedente, non merita miglior sorte, tenuto conto di quanto evidenziato circa l’unitarietà del procedimento disciplinare, nell’uno e nell’altro caso avviato, in presenza della notitia criminis rilevante ai fini del R.D. n. 37 del 1934, art. 44, e contestualmente sospeso, alla luce, altresì, del principio anche affermato da queste S.U., secondo cui “nel caso di azione disciplinare a carico di un avvocato, esercitata per fatti costituenti reato per i quali sia iniziata l’azione penale, la prescrizione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale, restando irrilevante, alla luce della disciplina del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 44 il periodo decorso dalla commissione del fatto fino all’instaurazione del procedimento penale, anche ove, nelle more, il Consiglio dell’Ordine, avutane notizia, abbia avviato il procedimento disciplinare, per poi sospenderlo, a fronte dell’esercizio dell’azione penale” (v., la già citata sent. n. 20843/07). Da tale principio discende l’irrilevanza, ai fini del decorso dei termini prescrizionali, della circostanza, tanto più nel caso di specie in cui l’avvio e la sospensione erano stati contestuali (come pur riferito nella narrativa del ricorsocene il procedimento fosse stato avviato prima del passaggio in giudicato della sentenza penale, non valendo la stessa a far ricondurre i fatti ascritti al novero di quelli previsti dal R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 38, con conseguente retrodatazione della decorrenza dei termini anzi detti.

p. 4. Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 40, lamentando l’eccessività della sanzione, considerata la non particolare gravità dei fatti, collegati a traversie familiari dell’incolpato, senza tener conto ex art. 657 c.p.p. del “presofferto” complessivo periodo di sospensione cautelare dall’esercizio della professione per complessivi oltre tre anni, nè della irreprensibile condotta professionale, tenuta successivamente alla revoca delle sospensioni.

Il motivo è inammissibile, non evidenziando alcuna violazione della norma citata e limitandosi alla deduzione di doglianze di puro merito, con riferimento all’esercizio di un potere, quello di applicare la sanzione, ritenuta adeguata alla gravità ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’Ordine professionale, che, come già è stato chiarito da queste Sezioni Unite (v.sent. nn. 5995/12, 11564/11), è riservato agli organi disciplinari ed incensurabile nella presente sede di legittimità.

Quanto all’invocata applicazione analogica del principio di fungibilità, di cui all’art. 657 c.p.p., tra la sofferta misura cautelare e l’irrogata sanzione, trattasi di questione attinente all’esecuzione di quest’ultima, come tale esulante dai limiti del giudizio di cognizione.

p. 5. Il quinto motivo è altrettanto inammissibile, consistendo in una richiesta di “inibitoria” (richiamante le ragioni esposte nel quarto e prospettante il pericolo di gravi ed irreversibili danni derivanti dall’esecuzione della sentenza impugnata), non correlata ad alcuna disposizione conferente a questa Corte poteri al riguardo.

p. 6. Il ricorso va, conclusivamente, respinto.

p. 7. Non vi è luogo, infine, a regolamento delle spese, in assenza di controparti resistenti.

P.Q.M.

La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso.

Redazione