Pubblico dipendente: il recupero di emolumenti non dovuti deve essere effettuato al netto e non al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali (TAR Lazio, Roma, n. 2661/2013)

Redazione 13/03/13
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FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso notificato il 7 luglio 2010, ritualmente depositato, il cons. ***********, magistrato in servizio presso la Corte d’appello di Roma, esponendo di aver fruito di due mesi di congedo parentale nel corso degli anni 2008 e del 2009 e di avere in buona fede percepito la corrispondente retribuzione, ha impugnato le determinazioni con cui l’amministrazione ha disposto la ripetizione delle somme erogate, deducendo: a) la violazione dell’art. 2033 cod. civ., avendo l’amministrazione stessa proceduto al recupero non già del solo importo a lui effettivamente corrisposto (netto), ma di quello comprensivo dei versamenti erariali e previdenziali (lordo; n. 1 ric.); b) più in generale, la non ripetibilità delle spettanze retributive (stipendio, i.i.s. e indennità giudiziaria) stante la natura alimentare delle stesse (n. 2, prima parte, ric.); c) la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 34 d.lgs. n. 151/2001, in quanto il congedo parentale darebbe diritto alla corresponsione del 30% della retribuzione e non avrebbe alcun riflesso sulla tredicesima mensilità (voce connessa non alla prestazione effettiva ma alla sussistenza del rapporto di lavoro; n. 2, seconda parte, ric.).

Egli ha pertanto chiesto: in via principale, l’annullamento delle determinazioni stesse, con statuizione dell’illegittimità del recupero; in via subordinata, con riduzione del recupero al 70% del netto percepito; in via di ulteriore subordine, con riduzione del recupero al solo stipendio netto percepito.

Costituitesi in resistenza le amministrazioni resistenti e respinta l’istanza cautelare, all’odierna udienza di discussione, in vista della quale il ricorrente ha depositato una memoria, il giudizio è stato trattenuto in decisione.

2. Il ricorso è fondato per quanto di ragione.

2.1. Osserva preliminarmente il Collegio che l’istante, nel dedurre l’illegittimità (i.e. illiceità) della pretesa restitutoria azionata dall’amministrazione, prospetta essenzialmente due questioni: la prima, costituente il nucleo centrale del ricorso, concernente la spettanza – in tutto o in parte – delle due mensilità (prima erogate e poi recuperate); l’altra, riguardante l’ininfluenza del congedo parentale sulla tredicesima mensilità e sull’indennità giudiziaria.

In questa ottica, la domanda in esame, ancorché formulata in termini impugnatori (come si desume dalla richiesta di statuizione caducatoria rassegnata nelle conclusioni dell’atto introduttivo), mira in realtà all’accertamento (negativo) della pretesa dell’amministrazione di ripetere gli emolumenti erogati al ricorrente nel periodo di congedo parentale e, correlativamente, all’accertamento dello speculare diritto (di credito) del ricorrente stesso alla restituzione degli eventuali importi illegittimamente recuperati.

Non vi è dubbio peraltro che questo Tribunale possa conoscere della controversia ai sensi dell’art. 32, co. 2, c.p.a. (“il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali. Sussistendone i presupposti il giudice può sempre disporre la conversione delle azioni”), vertendosi altresì in materia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 63, co. 4, d.lgs. n. 165 del 2001).

Non si riscontrano tuttavia i “presupposti” (ex art. 32, co. 2, cit.) per adottare una statuizione di condanna, non essendo idonea a tal fine (i.e. a far ritenere formulata la corrispondente domanda) l’espressione “con ogni consequenziale provvedimento”, di cui alle conclusioni dell’atto introduttivo (non ravvisandosi un nesso di consequenzialità necessaria tra pronuncia di cognizione e pronuncia di condanna), né potendo essere in tal senso valorizzate le allegazioni della memoria finale – non notificata alla parte pubblica – in cui il ricorrente, insistendo in fine nelle “già prese conclusioni”, assume di avere “chiesto la restituzione della differenza […] indebitamente prelevata alla fonte […], oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria e al risarcimento del danno per aver pagato al Fisco, in occasione della dichiarazione dei redditi ed a causa della mancata rettifica nei modelli 101 e/o CUD da parte dell’amministrazione, somme maggiori di quelle dovute […], anche attraverso condanna generica” (cfr. pagg. 8 ss. mem. dep. 21.12.2012).

E infatti, se tali deduzioni potessero essere intese alla stregua di ulteriori domande giudiziali (di condanna alla restituzione del preteso indebito, agli accessori e al risarcimento dei danni), esse sarebbero comunque inammissibili ex art. 43 c.p.a. in quanto nuove e irritualmente introdotte in giudizio (conseguenza più agevolmente percepibile con riferimento alla pretesa risarcitoria fondata sul maggiore esborso di imposte per effetto della determinazione in eccesso dell’imponibile, avanzata soltanto nella memoria finale).

2.2. Tanto chiarito, rileva il Collegio che la domanda è fondata nei sensi che seguono.

2.2.1. Non merita anzitutto condivisione l’assunto che l’integrale recupero delle spettanze retributive sarebbe precluso dalla natura alimentare delle stesse.

E infatti, per pacifica giurisprudenza la percezione da parte del pubblico dipendente di emolumenti non dovuti impone all’amministrazione di ripetere le relative somme ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., non essendo a ciò di ostacolo l’affidamento e la buona fede del dipendente in considerazione del danno per l’erario derivante da un illegittimo esborso di denaro pubblico (la non ripetibilità può semmai trovare riscontro solo in specifiche disposizioni normative, nella specie non ricorrenti; cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2704, e giurispr. ivi richiamata).

2.2.2. Né l’iniziativa restitutoria dell’amministrazione è impedita dall’art. 34 d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, a tenore del quale l’indennità di congedo parentale (pari al 30 per cento della retribuzione) spetta al dipendente “fino al terzo anno di vita del bambino” e per un periodo di congedo “massimo complessivo tra i genitori di sei mesi” (co. 1) ovvero, per durate superiori, “a condizione che il reddito individuale dell’interessato sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria” (co. 3).

È sufficiente rilevare in proposito come il ricorrente non abbia dedotto né provato (com’era suo onere ai sensi degli artt. 2697 cod. civ. e 64 c.p.a.) di versare nella situazione contemplata dalla norma (e in particolare dal menzionato comma 3, risultando dai provvedimenti di congedo un’età del figlio superiore ai tre anni).

2.2.3. Va parimenti disattesa la domanda volta all’accertamento dell’irrilevanza del congedo parentale sul computo della tredicesima mensilità e dell’indennità giudiziaria, in ossequio al chiaro disposto:

– dell’art. 34, co. 5, d.lgs. n. 151/2001 cit., a tenore del quale “i periodi di congedo parentale sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia”; e

– dell’art. 3, 1° comma, l. 19 febbraio 1981, n. 27 (come modificato dall’art. 1, co. 325, l. 30 dicembre 2004, n. 311), secondo cui l’indennità giudiziaria (spettante ai magistrati “in relazione agli oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attività”) va corrisposta “con esclusione dei periodi di congedo straordinario, di aspettativa per qualsiasi causa, di astensione facoltativa previsti dagli articoli 32 e 47, commi 1 e 2, del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e di sospensione dal servizio per qualsiasi causa”.

Non spetta perciò al ricorrente, per il fruito periodo di congedo parentale, alcun emolumento per i titoli in questione.

2.2.4. È invece meritevole di accoglimento il capo di domanda concernente l’entità del recupero, che per pacifica giurisprudenza deve essere effettuato al netto e non al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali, potendo avere a oggetto soltanto quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente (v. ex multis Cons. Stato, sez. III, 4 luglio 2011, n. 3984; Cons. Stato, sez. VI, 2 marzo 2009, n. 1164; v. anche Cons. Stato, comm. spec. p.i., ad. 5 febbraio 2001, n. 478/2000, nonché, in termini, Cass. civ., sez. lav., 2 febbraio 2012, n. 1464).

Tale chiara indicazione non è resistita dalle argomentazioni dell’amministrazione finanziaria (di cui alla nota del 4.8.2010, depositata dal patrocinio pubblico), a dire della quale il complessivo credito erariale emerso a carico del ricorrente per assegni riscossi e non dovuti sarebbe stato accertato al lordo delle sole ritenute fiscali, non anche di quelle assistenziali e previdenziali, in ragione della necessità di assicurare agli interessati la regolarizzazione della propria posizione fiscale (ciò in base alla circolare n. 1264/79 della Direzione generale del Tesoro). Si tratta infatti di elementi che, quantomeno rispetto alla posizione dei dipendenti statali (allo stesso tempo creditori e debitori dello Stato, in disparte il tema del rapporto con gli enti previdenziali), assumono rilevanza nei rapporti interni tra le amministrazioni interessate, al punto che la giurisprudenza ammette la possibilità per l’amministrazione (quale sostituto d’imposta) di chiedere il rimborso delle ritenute erariali versate in eccesso direttamente nei confronti del Fisco, allorché ne sussistano le condizioni (in questi termini, Cons. Stato, comm. spec. p.i., ad. 5 febbraio 2001 cit. e Cass. civ., sez. lav. n. 1464/2012 cit.).

Venendo al caso di specie, risulta dalle (incontestate) allegazioni del ricorrente che l’amministrazione ha ormai recuperato per intero il preteso indebito (essendo le relative operazioni terminate il dicembre 2012).

Sussiste pertanto il diritto del cons. B. a ottenere il pagamento, in relazione ai due mesi di congedo parentale, di complessivi euro 9.696,92, quale differenza tra l’importo “recuperato” (i.e. non corrisposto) dall’amministrazione (euro 21.521,55, di cui euro 10.294,56 per il primo mese ed euro 11.266,99 per il secondo) e quello da lui effettivamente percepito (euro 11.824,63, quale somma degli emolumenti netti erogati nei corrispondenti periodi, rispettivamente pari a euro 5.856,73 e a euro 5.967,90).

Quanto agli accessori (è appena il caso di rilevare, a integrazione di quanto osservato al precedente punto 2.1, che nell’ipotesi di obbligazione pecuniaria la statuizione sugli interessi corrispettivi o moratori non è domanda nuova, sicché può farsi luogo all’accertamento sugli stessi, pur se non alla pronuncia di condanna, come già detto per il caso di specie), occorre chiarire che il recupero è avvenuto attraverso la rateizzazione del debito restitutorio.

L’amministrazione ha cioè operato detrazioni mensili (i.e. non ha corrisposto quote di stipendio) in riferimento agli emolumenti del periodo ottobre 2009-dicembre 2012 (precisamente: euro 428,94 dall’ottobre 2009 al settembre 2011 compresi ed euro 311,86 dal gennaio 2010 al dicembre 2012 compresi).

Ne segue che sull’importo complessivo del credito riconosciuto in favore del ricorrente spettano gli interessi al saggio legale, a far tempo: a) dalla data della domanda, ossia dal 7.7.2010, data di notificazione dell’atto introduttivo, per l’importo totale delle detrazioni operate in epoca anteriore (ciò ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., stante la buona fede dell’accipiens ravvisabile nella dichiarata osservanza della prassi ministeriale sui recuperi di debiti derivanti dai maggiori assegni pagati in precedenti periodi di imposta; cfr. lett. A circ. n. 1264/79 cit.); b) dalle singole scadenze mensili e per le relative quote, in riferimento alle detrazioni operate in epoca successiva al 7.7.2010.

Non spetta invece la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valuta e non di valore.

3. In conclusione, il ricorso è in parte fondato e va accolto nei sensi innanzi esposti.

In ragione della reciproca soccombenza le spese di lite possono essere compensate per metà, restando la residua metà, siccome liquidata in dispositivo, a carico delle amministrazioni resistenti.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione Terza, definitivamente pronunciando, accoglie in parte il ricorso in epigrafe e per l’effetto dichiara l’obbligo delle resistenti amministrazioni di pagare al dott. ***********, per i titoli di cui in motivazione, la somma di euro 9.696,92, oltre interessi legali dalle decorrenze indicate in motivazione fino al soddisfo.

Condanna altresì le resistenti al pagamento in favore del ricorrente delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 1.000,00, oltre *** e Cpa come per legge.

La presente sentenza sarà eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 23 gennaio 2013

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