Pubblica decenza (Cass. pen. n. 37823/2013)

Redazione 16/09/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 10.10.2012 il Giudice di Pace di Brescia condannava S.M., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di Euro 400,00 di ammenda per il reato di cui all’art. 726 c.p., ascritto.

Tale O.V. segnalava telefonicamente alla Questura di Brescia di aver notato poco prima un cittadino di colore mentre urinava davanti la recinzione delimitante il palazzo dove abitava.

Gli agenti, intervenuti sul posto notavano tracce di urina sul muro indicato e provvedevano ad identificare nel S. l’individuo indicato come autore del fatto. Il teste O., sentito a dibattimento, affermava di non aver visto le parti intime, nè l’espletamento di funzioni corporali).

Il G.d.P., dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità in ordine alla distinzione del reato contestato con quello di cui all’art. 527 c.p., riteneva sussistente il delitto di atti contrari alla pubblica decenza, non essendo necessaria la percezione dell’atto o la visibilità dei genitali.

2. Ricorre per cassazione S.M., a mezzo del difensore.

Dopo un esame della figura criminis, come delineata in dottrina ed in giurisprudenza, ed il richiamo della continua evoluzione del concetto di decenza e della disciplina legislativa come delineata prima nel codice del 1889 e poi nel codice “*****”, assume che si rende indispensabile un intervento del Giudice delle leggi al fine di stabilire, tenuto conto della evoluzione dei costumi, se la previsione dell’art. 726 c.p., sia ancora compatibile con il nostro ordinamento.

Anche per la indeterminatezza della previsione normativa si è finito inoltre, secondo l’elaborazione giurisprudenziale, per estendere l’ambito di applicazione della norma (prima limitato agli atti lesivi della pudicizia) a qualsiasi atto contrario al buon comportamento civile e sociale. Tale indeterminatezza della fattispecie determina altresì la possibilità che l’azione penale possa essere esercitata dal P.M. in via assolutamente discrezionale.

Per di più è rinvenibile un doppio profilo di sanzionabilità del medesimo comportamento, prevedendo quasi tutti i regolamenti di polizia locale sanzioni amministrative per chi urina in luoghi pubblici (il regolamento di Polizia del Comune di Brescia vieta espressamente il compimento di funzioni corporali in luogo aperto al pubblico).

Denuncia pertanto la violazione di legge, essendo stato ritenuto sanzionabile penalmente ex art. 726 c.p., il comportamento di chi urina in luogo appartato, anche se esposto al pubblico, con l’accorgimento di evitare la visione dei propri organi genitali (è erronea infatti la ritenuta irrilevanza, ai fini della configurabilità del reato, della visibilità dei genitali, dovendosi il concetto di pubblica decenza interpretare con riferimento alla nozione di pudicizia).

L’allargamento del campo dei comportamenti sanzionati dalla norma si prospetta come incostituzionale perchè contraria alla ratio della stessa norma incriminatrice, contraria al criterio di predeterminazione per legge del comportamento sanzionato, contraria al corretto esercizio dell’azione penale da parte del P.M..

Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge e la mancata applicazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34, comma 3, nonchè la contraddittorietà della motivazione.

I testi sentiti in dibattimento non hanno percepito il gesto dell’imputato come offensivo della pubblica decenza, essendosi egli appartato per soddisfare un impellente bisogno, volgendo le spalle e avendo cura di non mostrare i genitali. In tale condotta non è ravvisabile un’offesa alla pubblica decenza.

Il G.d.P. ha omesso inoltre di applicare l’art. 34 D.Lgs. cit., pur ricorrendone tutti i presupposti. Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla mancata individuazione dei criteri impiegati per la determinazione della pena.

2.1. Con motivi aggiunti, in data 27.5.2013, nel ribadire le censure di incostituzionalità della norma, si chiede che, ove non venga sollevata la questione di costituzionalità, la sentenza impugnata sia annullata con rinvio, non avendo il G.d.P. motivato nè in ordine alle ragioni per cui ha ritenuto sussistente il reato, nè in relazione alla irrilevanza penale del fatto, nè infine in ordine alla scelta della pena.
Motivi della decisione

1. Per giurisprudenza pacifica di questa Corte, richiamata anche dal ricorrente, “sono atti contrari alla pubblica decenza tutti quelli che in spregio ai criteri di convivenza e di decoro che debbono essere osservati nei rapporti tra i consociati, provocano in questi ultimi disgusto o disapprovazione come l’urinare in luogo pubblico.

Nè la norma dell’art. 726 c.p., esige che l’atto abbia effettivamente offeso in qualcuno la pubblica decenza e neppure che sia stato percepito da alcuno, quando si sia verificata la condizione di luogo, cioè la possibilità che qualcuno potesse percepire l’atto” (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 5^, 28.4.1986 n. 3254; Cass. sez. 3, 25.10.2005 n. 45284 e, più di recente, Cass. sez. 3 n. 15678 del 25.3.2010).

Il reato in questione poi si differenzia da quello di cui all’art. 527 c.p., in quanto la distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono, in modo intenso e grave il pudore sessuale, suscitando nell’osservatore sensazioni di disgusto oppure rappresentazioni o desideri erotici, mentre i secondi ledono il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione” (Cass. pen. sez. 3 n. 2447 del 14.3.1985).

2. Il Collegio, pur alla luce dei rilievi contenuti nel ricorso, non ritiene di discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale sopra ricordato.

Il G.d.P., però, e sul punto vanno accolti i motivi di ricorso, si è limitato a riportare le risultanze processuali ed a richiamare la giurisprudenza di legittimità, senza, sostanzialmente, esaminare la fattispecie concreta.

Ha invero apoditticamente ritenuto che la condotta posta in essere dall’imputato integrasse il reato contestato, senza esaminare le modalità della stessa e le circostanze di tempo e di luogo, anche ai fini di cui al D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 74, art. 34. Tale norma stabilisce che “il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonchè la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale…”.

La sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio, per nuovo esame, allo stesso G.d.P.. Si impone l’annullamento con rinvio, non essendo, al momento della decisione, ancora maturata la prescrizione (bisogna tener conto infatti del periodo di sospensione dal dall’11.1.2012 al 14.3.2012, essendo stata l’udienza rinviata su richiesta della difesa).

L’annullamento della sentenza determina, poi, l’irrilevanza della sollevata questione di costituzionalità.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia al G.d.P. di Brescia.

Così deciso in Roma, il 12 giugno 2013.

Redazione