Proroga del contratto: sì alla pattuizione verbale mentre il rapporto sia ancora in essere (Cass. n. 8118/2013)

Redazione 03/04/13
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Svolgimento del processo

1.- Con la decisione ora impugnata, pubblicata il 19 maggio 2006, la Corte d’Appello di Torino ha rigettato l’appello avverso la sentenza del Tribunale di Torino del 2 dicembre 2002.

Il Tribunale era stato adito a seguito di opposizione proposta da N.S. al decreto ingiuntivo fattogli notificare dalla società Sifai s.r.l. per il pagamento in suo favore della somma di lire 62.850.000, chiedendone la revoca per mancanza di prova scritta e per asserita mancata rinnovazione per iscritto (come previsto da apposita clausola) del contratto di prestazione di servizi stipulato nel 1994 e scadente al 31 dicembre 1995 sulla cui base erano state emesse, anche negli anni 1997 e 1998, le fatture poste a fondamento della domanda di ingiunzione.

1.1.- Si era costituita la società convenuta ed aveva chiesto il rigetto dell’opposizione, rilevando che, malgrado il contratto scritto fosse effettivamente scaduto il 31 dicembre 1995, l’opponente aveva continuato ad usufruire del “servizio uffici” oggetto della convenzione fino al 31 dicembre 1998; che le fatture costituivano prova scritta per il decreto ingiuntivo; che vi era stata una proroga di fatto del rapporto contrattuale, desumibile dal comportamento univoco delle parti ed in particolare dalla permanenza nei locali e dalla fruizione dei servizi, nonchè dall’avvenuto pagamento delle fatture emesse per l’anno 1996 e per la prima parte dell’anno 1997, il che legittimava il richiamo ad un patto verbale aggiunto all’originario contratto; in via subordinata, l’opposta osservava che le somme pretese sarebbero state dovute anche a titolo di arricchimento senza causa.

1.2.- Il Tribunale, svolta attività istruttoria, con l’assunzione dei testimoni indicati dall’opposta e l’ordine di esibizione, rivolto all’opponente e da questi non ottemperato, del libro acquisti IVA degli esercizi 1996-1998, nonchè col mancato interrogatorio dello stesso N., rigettava l’opposizione e condannava l’opponente alla refusione delle spese.

2.- Proposto appello da parte del N. e costituitasi la società appellata, la Corte d’Appello ha, come detto, rigettato l’appello, confermando la sentenza impugnata e condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado.

3.- Avverso la sentenza N.S. propone ricorso affidato a due motivi.

Resiste con controricorso la società Sifai s.r.l., che ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1.- Col primo motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Il ricorso è soggetto, quanto alla formulazione dei motivi, al regime dell’art. 366 bis c.p.c., (inserito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, ed abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), applicabile in considerazione della data di pubblicazione della sentenza impugnata (19 maggio 2006).

Con riguardo alla denuncia dei vizi di motivazione, di cui al motivo in esame, va ribadito il principio per il quale, in tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poichè secondo l’art. 366 bis c.p.c., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. S.U. n. 20603/07, cui adde, tra le tante, Cass. n. 24255/11). Non si rinviene nè nell’illustrazione del motivo, nè all’inizio od in calce, una parte che contenga le indicazioni di cui all’ultimo inciso dell’art. 366 bis c.p.c., secondo quanto richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte appena richiamata.

Va perciò accolta l’eccezione di inammissibilità del primo motivo sollevata col controricorso.

2.- Col secondo motivo si denuncia falsa applicazione dell’art. 2723 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere chiaramente definito la rinnovazione del contratto e per non avere individuato il momento in cui la stessa abbia avuto luogo. Secondo il ricorrente, dato il testo della clausola numero 6 del contratto, che prevedeva l’automatica estinzione del contratto alla scadenza del 31 dicembre 1995, l’eventuale deroga avrebbe potuto essere contenuta in un “ipotetico patto modificativo stipulato prima del 31.12.1995”, che sarebbe così potuto rientrare nella sfera di applicazione dell’art. 2723 c.c.; invece, non altrettanto si potrebbe dire di un patto stipulato dopo il 31 dicembre 1995, perchè, in tal caso, sarebbero cessati gli effetti del contratto e quindi questo non avrebbe potuto essere modificato.

Il ricorrente aggiunge che la Corte d’Appello sarebbe incorsa anche nel vizio di illogicità della motivazione per avere ritenuto riscontrata la stipulazione del patto in deroga al menzionato art. 6, per il comportamento concludente delle parti consistito nell’emissione delle fatture e nei relativi pagamenti, laddove questi si sarebbero giustificati prima del 31 dicembre 1995 come adempimenti contrattuali e soltanto dopo tale data avrebbero perso siffatta connotazione contrattuale per acquisire la concludenza riconosciuta dal giudice di merito; se il patto aggiunto si intende perfezionato con tali comportamenti, essi vi avrebbero dato luogo soltanto dopo che il contratto aveva perso ogni efficacia tra le parti. Ulteriore profilo di illogicità della decisione si rinverrebbe laddove la Corte territoriale ha fatto riferimento al concetto di “reviviscenza” del contratto, che presuppone la sua pregressa cessazione di efficacia, sicchè lo strumento per ottenere tale reviviscenza non potrebbe rinvenirsi nel patto aggiunto ex art. 2723 c.c., che postula l’esistenza attuale di un contratto.

3.- Il motivo non merita accoglimento.

La Corte d’Appello ha fondato la propria decisione su due distinti argomenti: la stipulazione di un patto successivo aggiunto e contrario al contenuto della clausola contrattuale che prevedeva la prorogabilità soltanto per iscritto del contratto atipico stipulato nel 1994, quale primo argomento; la sussistenza di un nuovo accordo verbale del tutto analogo a quello contenuto nel documento contrattuale, volto a rinnovare il contratto in data successiva alla sua scadenza, quale secondo argomento.

3.1.- Il primo soltanto dei due argomenti è censurato col motivo di ricorso in esame. La censura è infondata quanto al denunciato vizio di violazione di legge; comunque inammissibile per mancata contestazione della seconda ratio decidendi.

Sotto il primo profilo, è corretta l’applicazione fatta dal giudice del merito dell’art. 2723 c.c.. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente (ed a quanto erroneamente presupposto dal quesito di diritto, formulato nei seguenti termini: “è possibile che, per il solo tramite dell’istituto di cui all’art. 2123 c.c., possa essere fatto rivivere e rialimentato un contratto già estinto al momento della stipula del (preteso) patto posteriore?”), la Corte, come pure sottolineato in controricorso, non ha affatto ritenuto legittimo un patto aggiunto e contrario al contenuto del documento contrattuale sopravvenuto dopo la scadenza del contratto, ma ha ritenuto che la proroga, senza necessità di apposita conferma per iscritto, ben potesse essere stata concordata tra la parti nella vigenza del contratto, vale a dire in epoca precedente il 31 dicembre 1995.

Non coglie nel segno la censura del ricorrente secondo cui la Corte avrebbe ritenuto che detto patto si sia perfezionato con comportamenti concludenti. Piuttosto, ha ritenuto che i comportamenti delle parti successivi a detta scadenza emissione di fatture e relativi pagamenti, ma anche, da parte del ********, fruizione dei servizi ed utilizzazione dei locali della controparte – facessero da riscontro ad un patto altrimenti e precedentemente perfezionato tra le parti, vale a dire ad un apposito accordo di proroga, che viene espressamente qualificato come “verbale”, in più punti della sentenza. Ha ritenuto quindi di trarre la prova della stipulazione di questo patto dalle deposizioni testimoniali, valutate alla stregua dei criteri di cui al più volte richiamato art. 2723 c.c., specificamente della qualità delle parti (l’una prestatrice continuativa di servizi e l’altra fruitrice nel tempo, in ragione dell’attività professionale), della natura del contratto (essenzialmente di durata) e della circostanza, come detto, della continuazione di fatto del rapporto.

La decisione è corretta poichè va affermato che rientra nella previsione della norma di cui all’art. 2723 c.c., la quale si riferisce alle aggiunte o modificazioni apportate al documento posteriormente alla sua formazione, la pattuizione verbale modificativa della durata del contratto risultante dal documento, qualora la proroga sia convenuta verbalmente mentre il rapporto sia ancora in vita.

Conseguentemente, si deve ritenere ammissibile la prova testimoniale nei limiti del citato art. 2723 c.c..

Questi limiti, nel caso di specie, risultano rispettati, essendo congrua la motivazione resa dal giudice di merito riguardo all’esercizio del relativo potere discrezionale (cfr., da ultimo, Cass. n. 11932/06).

3.2.- Il motivo di ricorso in esame, non muove alcuna pertinente censura riguardo alla seconda delle rationes decidendi della sentenza impugnata.

Come detto, la Corte d’Appello non si è limitata a prefigurare la stipulazione di un patto aggiunto e contrario al contenuto del documento contrattuale, ma ha ritenuto che, nel caso di specie, vi potesse essere stato, in alternativa, un contratto verbale autonomo ed ulteriore rispetto a quello stipulato per iscritto, vale a dire “un accordo del tutto analogo a quello contenuto nel documento contrattuale”, ma raggiunto dalle parti dopo la scadenza dell’originario contratto. In tale secondo caso, si sarebbe trattato, secondo la Corte, di “una reviviscenza dello stesso contratto concordata tra le parti in forma puramente verbale ma del tutto legittima e con riconoscimento reciproco delle prestazioni avvenute nell’eventuale periodo di carenza, non vertendosi in materia per cui è richiesta la prova scritta”.

Al fine di giustificare tale conclusione, la Corte richiama il disposto dell’art. 2729 cod. civ., non più quello dell’art. 2723 c.c..

Pertanto, la censura del ricorrente volta a contestare il passaggio motivazionale relativo alla “reviviscenza” del contratto è erroneamente fondata sull’asserita violazione di tale ultima norma.

La Corte d’Appello non ha affatto sostenuto che con un patto aggiunto e contrario al contenuto del documento contrattuale le parti abbiano attribuito “reviviscenza” ad un accordo contrattuale oramai privo di efficacia. Piuttosto, ha affermato che, alla stregua degli elementi di prova in atti, si sarebbe potuta presumere, ai sensi dell’art. 2729 c.c., la successiva stipulazione di un nuovo contratto alle stesse condizioni del precedente: non essendo previsti oneri di forma, nè ad substantiam nè ad probationem, sarebbe stata legittima la stipulazione verbale ed ammissibile la prova per presunzioni di tale contratto.

Come sottolineato anche dalla resistente, il ricorrente non ha validamente censurato il secondo argomento fondante della decisione, vale a dire l’avvenuta stipulazione di un accordo successivo per rinnovare il contratto oramai scaduto.

Ne segue l’inammissibilità del motivo poichè, essendo la ragione di cui si è detto da ultimo da sola sufficiente a sorreggere la decisione adottata, la sua mancata impugnazione rende inammissibile l’impugnazione dell’altra, per difetto di interesse, poichè non potrebbe comunque pervenirsi all’annullamento della sentenza (cfr., tra le più recenti, Cass. ord. 22753/11).

In conclusione, il ricorso va rigettato.

4.- Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida, in favore della società resistente, nell’importo di Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2013.

Redazione