Professionisti: il mancato reclamo equivale a rinuncia al compenso (Cass. n. 13094/2013)

Redazione 27/05/13
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Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Bari, con sentenza n. 480 depositata il 12 maggio 2005, confermando precedente decisione del Tribunale di Lucera, ha respinto l’opposizione proposta dall’ing. D.M.P. L. avverso lo stato passivo del fallimento della società **************, condannandolo anche alla refusione delle spese giudiziali di quel grado.

Avverso la decisione l’ing. D.M. ha proposto ricorso per cassazione in base due motivi.

Il curatore fallimentare non ha spiegato difesa.

Motivi della decisione

1.- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’artt. 2230, 2233, 2697, 2702, 2704, 2715 e 2751 bis c.c., e della *******., artt. 52 e 101, e correlato vizio di motivazione.

Sostiene a conforto il ricorrente che fonte contrattuale della sua ragione di credito non è la scrittura del 31.2.1985, ma il precedente contratto verbale di prestazione d’opera professionale, avente ad oggetto le prestazioni, indi effettivamente da lui eseguite, non contestate dal curatore, e di cui la sentenza peraltro ha dato atto.

L’inopponibilità della scrittura rappresenta dunque fatto processuale irrilevante poichè potrebbe incidere sulla misura del compenso, ma non certo sull’an debeatur. La lettera del legale rappresentante della società, generica in ordine al quantum, comunque attestava la natura onerosa della prestazione che, connaturata al contratto d’opera professionale, non doveva essere provata, come invece erroneamente ha sostenuto il giudice del merito laddove ha posto a suo carico il relativo onere probatorio. L’univoca evidenza della gratuità nella specie è attestata dal fatto che la decisione la ipotizza in astratto e illogicamente la giustifica sulla base dell’affectio societatis, valorizzando la sua qualità di socio, nonchè sull’assenza di iniziative per ottenere il pagamento ritenuta implicante rinuncia al compenso, indimostrata nè desumibile dall’omessa iscrizione del debito in bilancio.

2.- Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1201, 1203, 1936, 1949, 1813, 2697 e 2704 c.c., e correlato vizio d’insufficiente motivazione in ordine all’asserita assenza di prova dell’imputabilità del versamento eseguito sul c/c intestato alla società fallita a precedente contratto di fideiussione, che avrebbe legittimato surrogazione legale ex art. 1203 c.c., ovvero all’ipotesi di cui all’art. 1180 c.c., attesa l’assenza d’allegazione e prova della surrogazione per volontà del debitore. La Corte del merito avrebbe esaminato parte delle contabili bancarie, segnatamente solo quelle da cui risultano fideiussori altri soggetti e non anche le altre in cui suddetta qualità è attribuita alla sua persona, di cui sarebbe stato omesso l’esame. Ad ogni modo, esclusa la garanzia, il versamento è qualificabile adempimento del terzo essendo stato eseguito in nome del debitore.

Il primo motivo espone censura priva di pregio.

La Corte del merito ha osservato che il credito controverso, relativo a competenze per prestazioni d’opera professionale, non risulta fondato su contratto, non potendo attribuirsi siffatta natura alla scrittura 31.2.1985 neppure avente data certa e, in quanto tale, inopponibile alla procedura, nè tale lacuna probatoria può ritenere colmata sulla base della lettera, recante data certa, del legale rappresentante della società fallita che rassicurava il professionista circa l’imminente pagamento della parcella concordata con quella scrittura, siccome, generica nell’indicazione del debito e comunque nel suo contenuto.

Il debito non risultava altresì indicato nel bilancio della società nè il D.M. ne aveva reclamato il pagamento per iscritto.

Questi infine non aveva assolto all’onere di provare che le prestazioni da lui effettivamente eseguite inerivano a diverso rapporto implicante rinuncia al compenso.

Al professionista è consentita la prestazione gratuita per i motivi più vari, e la rinuncia al compenso può essere espressa anche attraverso comportamento concludente, nella specie concretatasi nel lungo tempo trascorso senza ottenere il compenso e nell’insussistenza di un’intesa sulla retribuzione sia in fase genetica che successivamente.

Il motivo induce all’evidenza alla rivisitazione degli elementi di fatto apprezzati dal giudice dell’appello, che ha reso conto del relativo vaglio critico nel contesto di una motivazione puntuale e logica. Non è ammesso in questa sede lo scrutinio sul merito di tale percorso argomentativo e la decisione, seppur in ordine al regime probatorio applicabile in ordine alla natura del contratto di prestazione d’opera professionale muova da presupposto errato, comunque esprime, con logica motivazione, il convincimento raggiunto dal giudicante, alla stregua delle circostanze evidenziate, in ordine all’assenza della prova del patto avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo. Se è vero infatti che il contratto in discorso si presume oneroso essendo il corrispettivo previsto dall’art. 1225 c.c., elemento naturale della locatio operis (cfr. Cass. n. 4452/1985, n. 2318/1987, n. 3532/1990), la natura gratuita è stata dalla Corte distrettuale desunta dai tratti della vicenda fattuale esaminata, alla cui stregua resta superata, in quanto assorbita, l’errata perentoria ricostruzione esegetica in ordine al governo della prova che regola il caso. Ed invero, dal momento che il patto di gratuità della prestazione non postula forma specifica, tantomeno quella scritta, e può perciò essere stipulato anche verbalmente, non necessitando di prova documentale, la sua sussistenza può desumersi anche e soprattutto dal contegno assunto dalle parti, o nel suo momento genetico ovvero in fase di esecuzione. In questa chiave prospettica la Corte del merito ha esaminato e quindi reputato concludente il contegno del professionista odierno ricorrente desumendone la gratuità delle prestazioni da lui eseguite.

Il motivo deve per l’effetto rigettato.

Analoga sorte merita l’altra censura.

La Corte territoriale ha ritenuto la produzione documentale allegata dal D.M. non sufficiente. Le contabili esibite ai fini della prova del titolo sottostante il versamento eseguito sul c/c della fallita non dimostrano la sottostante invocata fideiussione con conseguente esclusione della surrogazione legale; in simile evenienza, versandosi nell’ipotesi dell’adempimento del terzo che da luogo alla surrogazione rectius per volontà del creditore ex art. 1201 c.c., non è stata fornita la prova indefettibile di tale volontà.

Il motivo non coglie nè confuta la ratio decidendi fondata sull’asserita assenza dell’allegazione e della prova del consenso prescritto dal disposto dell’art. 1201 c.c.. Il ricorrente infatti, che insiste sull’esistenza della garanzia fideiussoria, a suo dire desumibile dalle contabili bancarie non esaminate dal giudice del merito, che tuttavia nè riproduce nel contenuto nè riferisce in quale sede e con quale atto abbia prodotto, non centra quel nucleo del decisum, limitandosi ad insistere sulla mera ipotizzabilità della figura prevista dall’art. 1180 c.c., supposta anche dalla Corte del merito che correttamente non l’ha però ritenuta ex se esaustiva in difetto dell’omesso assolvimento dell’onere della prova di cui al disposto normativo citato.

Tutto ciò premesso, il ricorso deve essere rigettato senza farsi luogo alla pronuncia sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 19 aprile 2013.

Redazione