Professioni: al professionista va pagato l’onorario anche per l’attività stragiudiziale (Cass. n. 16303/2012)

Redazione 25/09/12
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 2002 il Tribunale di Roma, in accoglimento della domanda proposta dall’avvocato B.F., condannò L.B. al pagamento della somma di Euro 16.799,45 a titolo di compenso dell’attività stragiudiziale e giudiziale svolta dal legale in suo favore in relazione ad una controversia sorta a seguito di un sinistro stradale, oltre interessi e rifusione delle spese di lite.

Interposto gravame da parte della convenuta, con sentenza n. 3213 del 14 luglio 2005 la Corte di appello di Roma riformò in parte la decisione impugnata, riducendo l’importo dovuto al professionista alla somma di L. 11.902,176, confermando la condanna della L. al pagamento delle spese di lite del giudizio di primo grado e compensando tra le parti le spese del giudizio di appello. A sostegno della sua decisione il giudice di secondo grado affermò che, sulla base delle deposizioni dei testi, l’attività stragiudiziale svolta dall’avv. B. in favore della convenuta doveva ritenersi provata e che essa, in mancanza di specifiche contestazioni circa la congruità dell’importo richiesto, andava liquidata nella somma indicata dal professionista; escluse invece in favore dello stesso il diritto al compenso per l’attività giudiziale, reputando provata la circostanza che la cliente gli aveva revocato l’incarico alla fine di ottobre del 1996, prima della redazione dell’atto introduttivo del relativo giudizio.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 13 luglio 2006, ricorre L.B., affidandosi a due motivi.

Resiste con controricorso B.F., che propone anche ricorso incidentale, sulla base di due motivi.

Motivi della decisione

Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 cod. proc. Civ., essendo stati proposti avverso la medesima sentenza. Il primo motivo del ricorso principale proposto da L.B. denunzia insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, lamentando che la sentenza impugnata non abbia esaminato le contestazioni sollevate dall’appellante in ordine alla congruità delle spettanze richieste dalla controparte per l’attività prestata in via stragiudiziale, affermando anzi che esse non erano state formulate in modo specifico.

Sotto altro profilo si censura la sentenza impugnata per avere ritenuto dimostrata, senza addurre adeguate ragioni, tale attività da parte del professionista, nonostante che questi non avesse fornito la prova sul punto. Parte controricorrente eccepisce che questo motivo del ricorso principale, così come quello successivo, sono inammissibili per mancata osservanza dell’adempimento previsto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., che richiede che i motivi del ricorso per cassazione debbono concludersi, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto.

L’eccezione è manifestamente infondata, atteso che la disposizione di cui all’art. 366 bis, introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6 e successivamente abrogata dalla L. n. 69 del 2009, art. 47 trovava applicazione, per espressa previsione dell’art. 27, comma 2, del predetto decreto, solo ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate a partire dal 2 marzo 2006, laddove la decisione impugnata è stata pubblicata il 14 luglio 2005.

Nel merito il motivo è infondato.

Come risulta dalla lettura dello stesso ricorso, la L., nel proprio atto di appello, non sollevò alcuna diretta e specifica contestazione in ordine alla congruità degli importi pretesi dalla controparte, limitandosi a dedurre che la decisione di primo grado era incorsa in un contrasto di giudicati laddove aveva quantificato la pretesa del professionista in un importo di molto superiore alle spese di lite liquidate dal Tribunale in suo favore all’esito della causa di risarcimento dei danni da incidente stradale in relazione al quale l’Avv. B. aveva prestato la sua attività professionale. Trattasi, all’evidenza, di censura diversa da quella che oggi la parte pretende di avere svolto dinanzi al giudice di secondo grado, la cui decisione sul punto, motivata dalla mancanza di specifiche contestazioni della appellante sul quantum, si sottrae pertanto al vizio di motivazione sollevato.

Il secondo motivo del ricorso principale, denunziando insufficiente illogica e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, investe il capo della decisione con cui il giudice di appello ha confermato la statuizione del giudice di primo grado che l’aveva condannata alle spese di lite, assumendo che tale soluzione appare del tutto illogica e contraddetta dall’esito finale della lite, che aveva visto la convenuta in gran parte vittoriosa rispetto alla pretesa della controparte, nonchè dalla stessa decisione del giudice di appello di compensare tra le parti le spese del secondo grado di giudizio.

Il motivo è fondato.

La Corte di appello ha motivato la propria statuizione di rigetto sulla base del rilievo che: “La perdurante soccombenza non consente l’accoglimento dell’appello in punto di spese di lite”.

Così decidendo il giudice di secondo grado è però incorso in un palese errore, non avendo considerato che il parziale accoglimento dell’appello e la conseguente riforma della sentenza di primo grado, che aveva ridotto la condanna della L. dall’importo di Euro 16.799,45 alla somma di L. 11.902.176 (così inspiegabilmente espressa dal giudicante in L. anzichè in Euro) travolgeva, ai sensi dell’art. 336 cod. proc. civ., anche il capo della pronuncia sulle spese, quale statuizione accessoria a quella sulla domanda di merito;

con l’effetto che il giudice dell’impugnazione aveva il potere-dovere di provvedere nuovamente al regolamento delle spese relative al primo grado di giudizio (Cass. n. 18837 del 2010; Cass. n. 7486 del 2006), in applicazione, salva la facoltà di ravvisare giusti motivi di compensazione, del generale criterio della soccombenza stabilito dall’art. 91 cod. proc. civ., il quale, come questa Corte ha precisato, in presenza di varie fasi di giudizio, va considerato unitariamente avuto riguardo all’esito finale della lite (Cass. n. 19880 del 2011; Cass. n. 4778 del 2004).

Il primo motivo del ricorso incidentale, che denunzia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, lamenta che la Corte di appello non abbia riconosciuto il compenso per l’attività giudiziale svolta dal professionista, nonostante che dagli atti processuali acquisiti risultasse che questi aveva redatto e notificato l’atto di citazione in giudizio in nome della convenuta e provveduto ad iscrivere la causa a ruolo, venendo poi sostituito da altri legali solo nel corso del giudizio di primo grado. Il giudice di secondo grado ha poi errato nel ritenere che il mandato fosse stato revocato prima dell’inizio della causa, in data 30 ottobre 1996, dando credito alla testimonianza resa dal coniuge della convenuta, che, come tale, era interessato all’esito della lite e non poteva considerarsi una fonte di prova obiettiva e credibile, trascurando per contro di rilevare che la controparte aveva formalmente revocato il mandato soltanto con la lettera successiva del 20 novembre 1996, ricevuta il giorno 25 successivo, e che, a mente dell’art. 85 cod. proc. civ., la revoca del mandato non ha effetto finchè il difensore non sia sostituito, sicchè l’atto di citazione notificato in data 11 novembre 1996 costituiva a tutti gli effetti adempimento del mandato professionale ricevuto.

Sotto altro e concorrente profilo la sentenza è criticata per non avere tenuto comunque conto che il compenso spettava al professionista, anche ad ammettere una revoca precedente, in ragione dell’applicazione della disciplina sulla gestione di affari, non potendosi negare che l’atto di citazione redatto dall’avv. B. abbia rappresentato un inizio utile del processo e sia stato fatto proprio dai legali subentrati successivamente.

Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

La sentenza impugnata ha respinto la domanda dell’attore diretta ad ottenere un compenso anche per l’attività giudiziale svolta in favore della L. sulla base del rilievo che la prova testimoniale espletata aveva dimostrato che, in data 30 ovvero il 31 ottobre 1996, vale a dire in un momento antecedente alla presentazione dell’atto di citazione in giudizio da parte del professionista, era stata consegnata al medesimo legale una lettera con la quale la L. lo revocava formalmente dal suo incarico professionale.

Ciò precisato, le censure che lamentano che la Corte di appello abbia fondato il proprio convincimento sulla dichiarazione testimoniale sopra riferita appaiono chiaramente inammissibili, introducendo un sindacato sull’attendibilità della prova non consentito in sede di legittimità. E’ noto che nel nostro ordinamento processuale la valutazione della prova è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, potendo il ricorrente per cassazione sindacare tale valutazione solo sotto il profilo della congruità e sufficienza della motivazione (Cass. n. 14972 del 2006; Cass. n. 4770 del 2006; Cass. n. 16034 del 2002), motivo che, nella specie, non risulta nemmeno dedotto.

La censura con cui il ricorrente in via incidentale contesta l’omessa applicazione da parte del giudice a quo della disposizione di cui all’art. 85 cod. proc. civ. è invece infondata. La norma invocata, secondo cui la revoca della procura alle liti non ha effetto finchè non sia intervenuta la nomina di un nuovo difensore, è infatti disposizione dettata al fine di garantire il diritto della parte alla difesa tecnica nel processo; essa presuppone, pertanto, effe l’esistenza di un giudizio e che la revoca sia intervenuta nel corso dello stesso, laddove nel caso di specie, come accertato dal giudice di merito, la revoca dell’incarico professionale è stata comunicata al legale prima che questi provvedesse alla notifica dell’atto di citazione, cioè prima della instaurazione di una qualsiasi lite giudiziaria. Inammissibile appare infine la doglianza che lamenta la mancata applicazione della disciplina relativa all’istituto della negotiorum gestio, perchè, al di là della palese infondatezza dell’argomentazione, rappresentando la già accertata revoca del mandato al difensore una esplicita proibizione ad iniziare un giudizio non ancora cominciato, con conseguente esclusione a carico dell’interessato degli obblighi nascenti dall’attività del gestore (art. 2031 cod. civ.), trattasi di deduzione del tutto nuova, non essendo mai stata avanzata nel corso dei giudizio di merito.

Il secondo motivo del ricorso incidentale denunzia violazione e falsa applicazione di norme di diritto, censurando la decisione impugnata per avere compensato le spese del giudizio di appello, pur in presenza di una sostanziale soccombenza della controparte.

Il mezzo, che investe la statuizione delle spese, va dichiarato assorbito in ragione della ritenuta fondatezza del secondo motivo del ricorso principale e delle conseguenti determinazioni.

In conclusione, va accolto il secondo motivo del ricorso principale avanzato da L.B., rigettato il primo motivo del medesimo ricorso ed il primo motivo di quello incidentale di ***** e dichiarato assorbito il secondo. La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, che provvedere anche alla liquidazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

riunisce i ricorsi, accoglie il secondo motivo del ricorso principale avanzato da L.B., rigetta il primo motivo del predetto ricorso ed il primo motivo di quello incidentale di ***** e dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese, ad altra Sezione della Corte di appello di Roma.

Redazione