Prodotti industriali con marchi o altri segni contraffatti introdotto nel territorio dello Stato (Cass. pen. n. 38906/2013)

Redazione 20/09/13
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Svolgimento del processo

1. R.G. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe con la quale la corte di appello di Perugia ha confermato quella resa dal tribunale della medesima città in data 20 gennaio 2009 con la quale era stato dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in relazione al reato contestato per essere il medesimo estinto per prescrizione, condannando l’imputato ai pagamento delle spese del grado di giudizio nonchè al pagamento delle spese di difesa della parte civile liquidate in Euro 1.000,00.

1.1 Al R. era stato contestato in particolare il reato di cui all’articolo 514 del codice penale per avere, in qualità di legale rappresentante della società SAITT, venduto nel corso del 1995 alla società Ribes International srl 7900 camicie provviste della etichetta emporio ****** prive del certificato di autenticità del prodotto e, quindi, con marchio contraffatto.

1.2 Il giudice di prime cure aveva ritenuto insussistenti le condizioni indicate nel capoverso dell’art. 129 c.p., ritenendo che gli accertamenti espletati avessero consentito di acclarare come la società SAITT fosse una società che confezionava le camicie per conto dell’emporio Armani, e che aveva di sua iniziativa in violazione degli accordi commerciali assunti, ceduto a terzi le camicie prodotte che non presentavano gli accessori originali, l’etichetta dell’emporio Armani, il certificato di garanzia e l’etichetta con il nome.

2. La corte di appello, respingendo l’impugnazione dell’imputato, ha confermato la decisione del tribunale, mostrando di condividere il percorso argomentativo del giudice di prime cure.

Rispondendo al rilievo della difesa del R. la quale aveva tra l’altro obiettato che in nessun caso potesse essere ravvisato nella specie il requisito del nocumento all’industria nazionale richiesto dall’art. 514 c.p., in relazione al numero delle camicie, ha evidenziato che nel caso di specie occorreva considerare che l’intero numero di camicie era stato veduto in Perugia in un unico contesto temporale e che ciò aveva causato non solo un evidente danno alla società ******, ma all’intero comparto dell’industria della moda in quel determinato contesto geografico, essendo evidente come l’immissione contestuale all’interno di uno specifico mercato della merce aveva portato ad una contrazione delle vendite anche di merce di marche concorrenti.

Aggiungeva inoltre la corte di merito che la condotta del R. avrebbe integrato in ogni caso la violazione dell’art. 474 c.p., e che, pertanto, indipendentemente dai rilievi sulla configurabilità dell’art. 514 c.p., non si sarebbe comunque resa possibile una sentenza di proscioglimento nel merito dell’appellante sul presupposto della mancanza di una fattispecie di reato.

3. Deduce in questa sede il ricorrente la contraddittorietà della motivazione sul nocumento all’industria nazionale previsto dall’art. 514 c.p.. Al riguardo fa rilevare che il danno alla ditta ****** avrebbe integrato semmai il reato di cui all’art. 473 c.p., posto che il nocumento all’industria nazionale esclude di per sè qualsiasi particolarismo. Sottolinea peraltro come il nocumento, oltre a riguardare l’industria nazionale, debba essere in ogni caso grave, circostanza questa non emersa dal procedimento penale in cui la difesa si era invece spesa per dimostrare che il valore delle camicie ammontava a circa Euro 60.000, laddove il fenomeno della falsificazione dei marchi di prodotti di abbigliamento in Italia era stimato in termini di 10-15 milioni di Euro all’anno. Evidenzia inoltre che la sentenza non si sarebbe in alcun modo fatta carico di motivare sull’elemento soggettivo del reato ed il contrasto della decisione con gli artt. 60 e 65 c.p.p., con riferimento alla parte della motivazione in cui si sostiene in ogni caso la configurabilità dell’art. 474 c.p., in quanto tale ultima disposizione non era stata mai contestata e risultava quindi vulnerato il diritto di difesa. La sentenza, dunque, avrebbe dovuto essere necessariamente assolutoria.

E ciò tanto più in considerazione del fatto che in presenza di una causa estintiva del reato, come affermato in alcune decisioni di questa Corte, il proscioglimento nel merito deve essere pronunciato non solo quando dagli atti acquisiti di per la prova evidente dell’innocenza dell’imputato, ma anche quando manchi la prova della sua colpevolezza in presenza di una prova incerta.

4. La difesa della parte civile ************** S.p.A. ha prodotto memoria in cui, oltre a contestare la nozione di danno all’economia nazionale sostenuta dal ricorrente, oppone alle deduzioni dell’imputato che la condotta di quest’ultimo aveva cagionato danno a tutti i fabbricanti e commercianti del settore che avevano dovuto subire la concorrenza sleale posta in essere dall’imputato. Inoltre contesta l’asserita circostanza che la corte di merito avrebbe proceduto alla riqualificazione del fatto osservando che in nessun modo risultava essere stato applicato il disposto dell’art. 474 c.p..

Motivi della decisione

Il ricorso dell’imputato è fondato nei limiti di seguito indicati.

Chiarezza espositiva impone di rilevare anzitutto che la fattispecie dell’art. 474 c.p.p., non risulta mai contestata nella specie benchè evocata effettivamente nelle decisioni di primo e secondo grado.

La corte di merito, nel dichiarare la prescrizione del reato, rispondendo al rilievo secondo cui nella specie non sarebbe stato ravvisabile comunque il nocumento all’industria nazionale richiesto dall’art. 514 c.p., indicando le ragioni riportate in precedenza.

Solo in via subordinata ha osservato che in ogni caso sarebbe stato comunque ravvisabile il reato di cui all’art. 474 c.p..

Ha concluso, infatti, confermando la sentenza di primo grado che aveva dichiarato prescritto il reato di cui all’art. 514 c.p..

Ora non vi è dubbio tuttavia che nella specie non ricorrano le condizioni per ravvisare il reato in questione dovendosi invece configurare la violazione dell’art. 474 c.p..

E’ innegabile l’incertezza che pone l’espressione “nocumento all’industria nazionale”.

La dottrina ha suggerito una serie di criteri che certamente possono contribuire a definire la nozione in questione e che il Collegio ritiene di dover senz’altro recepire siccome condivisi.

Si può senz’altro accedere alla prospettazione di danno all’industria nazionale inteso come ripercussione su un singolo settore, ma si deve ritenere che il danno medesimo, stante l’ampiezza della nozione di “industria nazionale”, debba essere comunque di proporzioni consistenti, tali da ingenerare, quale conseguenza, la diminuzione del volume di affari o l’offuscamento del buon nome dell’industria nazionale o di un suo settore, facendo venire meno negli acquirenti l’affidamento sulla originalità del prodotto del mercato nazionale.

Non è sufficiente, peraltro, il danno ad una singola azienda posto che nei casi in cui l’oggetto di tutela è stato ravvisato nella attività della singola impresa il legislatore ha utilizzato espressioni diverse quali “l’esercizio di un’industria” come è dato rilevare, ad esempio, dalla formulazione dell’art. 513 c.p..

Ciò posto ed in quanto di diretto interesse per il ricorso in esame, va in premessa aggiunto anche che, come già chiarito da questa Corte, il reato di cui all’art. 514 c.p., siccome prevede come punibile il commercio anche all’estero di prodotti industriali con marchi contraffatti, ove ne sia derivato nocumento all’industria nazionale, delinea un reato di evento e non di mera condotta (Sez. 5, n. 3556 del 09/11/1993 Rv. 196301).

Alla luce di quanto sin qui evidenziato, non sembrano convincenti le argomentazioni dei giudici di appello sul punto.

Essi hanno motivato l’esistenza del nocumento con riferimento “all’evidente danno subito dalla ditta Armani” ed a quello “subito dall’intero comparto dell’industria della moda in un determinato contesto geografico”.

Ora il primo aspetto non rileva per la fattispecie in esame alla luce di quanto detto in precedenza.

Sul secondo si deve rilevare quanto segue.

Come precisato in precedenza, la immissione del prodotto sul mercato sul mercato deve recare nocumento all’industria nazionale e quest’ultimo aspetto deve essere oggetto di prova.

L’immissione del prodotto contraffatto sul mercato locale, specialmente se sporadica, potrà dunque rilevare solo se venga fornita la prova del riflesso in termini di danno della condotta accertata sull’andamento dell’industria nazionale.

Non possono essere ritenute sufficienti al riguardo mere considerazioni di ordine logico, nè basta richiamare nella specie il numero degli esemplari contraffatti.

Ribadita, infatti, la necessità di prova circa il nocumento all’industria nazionale per la sussistenza del reato de quo, si deve necessariamente ritenere che il dato numerico degli esemplari contraffatti, se certamente concorre nella valutazione, non possa nel caso in esame da solo assumere carattere dirimente tenuto conto del fatturato annuo del settore.

Esclusa la ravvisabilità della fattispecie dell’art. 514 c.p., è tuttavia indubbio, nella specie, che, come rilevato dai giudici di appello, la condotta di porre in vendita o mettere comunque in circolazione prodotti industriali con marchi o segni distintivi nazionali contraffatti o alterati costituisca comunque reato.

La previsione è, infatti, comune a quella dell’art. 474 c.p..

Essendo incontestato nella specie che le camice provviste della etichetta emporio Armarti fossero prive del certificato di autenticità del prodotto, non vi è dubbio che il reato configurabile nella specie dovesse essere pertanto quest’ultimo.

E’ dunque da condividere sul piano sostanziale la conclusione per cui non ricorrevano comunque le condizioni per una assoluzione con formula piena in quanto il fatto era comunque sussumibile in un’ipotesi di reato diversa, quella dell’art. 474 c.p., appunto.

Il passaggio della riqualificazione giuridica del reato va formalizzato in quanto è la sussistenza del reato di cui all’art. 474 c.p., a rendere nella specie inapplicabile fa formula assolutoria (il fatto non sussiste) invocata nei motivi di appello.

In questo senso va rettificata, pertanto, la sentenza di appello con conseguente annullamento di essa senza rinvio per intervenuta prescrizione, previa riqualificazione del fatto nel reato di cui all’art. 474 c.p..

Discende da ciò anche la revoca delle disposizioni in favore della parte civile essendo fondato il motivo di appello ed il ricorso sul punto.

Nè il ricorrente può dolersi della mancanza di correlazione tra accusa e sentenza.

Al riguardo questa Corte ha condivisibilmente puntualizzato che il giudice di appello può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto nel rispetto del principio del giusto processo previsto dall’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, anche senza disporre una rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria dibattimentale, sempre che sia sufficientemente prevedibile la ridefinizione dell’accusa inizialmente formulata, che il condannato sia in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto e che questa non comporti una modifica “in peius” del trattamento sanzionatorio e del computo della prescrizione (Sez. 6, n. 7195 del 08/02/2013 Rv. 254720).

E tali condizioni ricorrono certamente nella specie in cui il fatto è rimasto immutato nei termini della contestazione, non vi sono mai stati rilievi sulla ricostruzione di esso, il reato ritenuto in sentenza è meno grave di quello contestato e nulla si è alterato sotto il profilo della prescrizione.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione qualificato il fatto come violazione dell’articolo 474 del codice penale, annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere detto reato estinto per prescrizione. Revoca le disposizioni in favore della parte civile.

Così deciso in Roma, il 21 maggio 2013.

Redazione