Processo amministrativo: rimessione in termini (Cons. Stato n. 3326/2012)

Redazione 14/06/12
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ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 3983 del 2008, proposto da:

 

Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

 

Agenzia del Territorio, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Osservatorio sul patrimonio immobiliare degli enti previdenziali;

 

contro

A. A., A. V., B. A., D. C. G., *****, L. C. A., M. G., R. I., S.i G., B. S., rappresentati e difesi dall’avvocato **************, con domicilio eletto presso l’avvocato ********** in Roma, piazza Benedetto Cairoli, 6;
S. A., V. L.;

nei confronti di

Inpdap, Scip – ******à di cartolarizzazione immobili pubblici, in persona del legale rappresentante, rappresentati e difesi dall’avvocato *******************, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via S. Croce in Gerusalemme, 55;

per la riforma

della sentenza del 10 settembre 2007, n. 2330 del Tribunale amministrativo regionale per la Toscana.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 aprile 2012 il Cons. *********** e uditi per le parti gli avvocati dello Stato ********* e l’avvocato *********************** per delega dell’avvocato *****.

 

1.– La descrizione della vicenda all’esame di questo Collegio presuppone, invertendo il normale ordine di esposizione, la previa indicazione della normativa sostanziale di riferimento.

1.1.– Il decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351 (Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare) disciplina un complesso procedimento di privatizzazione sostanziale mediante dismissione di alcuni beni stabilendo che l’Agenzia del demanio, con propri decreti dirigenziali, individui i singoli beni oggetto del procedimento stesso (art. 1). L’art. 3, comma 13, del predetto decreto, nella versione applicabile ratione temporis, prevede che gli immobili così individuati possono essere trasferiti a titolo oneroso ad una società a responsabilità limitata di cartolarizzazione con «decreti di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze», i quali dovranno, su proposta dell’Osservatorio sul patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, indicare gli «immobili di pregio».

La stessa norma dispone che si «considerano comunque di pregio gli immobili situati nei centri storici urbani», ad eccezione di quelli individuati con i suddetti decreti nel rispetto del procedimento sopra indicato.

Con decreto ministeriale 31 luglio 2002 sono stati stabiliti i criteri ai quali deve conformare la propria attività l’Osservatorio e l’Agenzia del territorio nella definizione degli immobili di pregio e, tra questi, viene indicata la «ubicazione nel centro storico, individuato in base alle perimetrazioni dei piani regolatori (zone omogenee di tipo A), con esclusione delle zone degradate soggette a piani di recupero individuate negli stessi piani regolatori».

L’art. 26, commi 5 e 6, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 ha modificato, in parte, l’art. 3, comma 13, del decreto-legge n. 351 del 2001, prevedendo, oltre ad alcune innovazioni rilevanti sul piano delle competenze, che si «considerano comunque di pregio gli immobili situati nei centri storici urbani» ad eccezione di quelli individuati con decreto ministeriale, su proposta dell’Agenzia del Territorio, «che si trovano in stato di degrado e per i quali sono necessari interventi di restauro e di risanamento conservativo, ovvero di ristrutturazione edilizia».

1.2.– Nella vicenda in esame, con deliberazione del 14 marzo 2003 dell’Osservatorio sul patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, di concerto con l’Agenzia del territorio, sono stati individuati un «primo lotto di immobili di pregio».

Con decreto ministeriale del 1° aprile 2003 è stato approvato l’elenco degli immobili di pregio da trasferire alla società di cartolarizzazione.

1.3.– I ricorrenti nel giudizio di primo grado sono conduttori di immobili di proprietà dell’Inpdap – situati in Firenze viale Matteotti, n. 28, inseriti in detto elenco – che avevano presentato domanda di acquisto degli stessi.

Essi – avendo il disposto inserimento determinato un aumento del valore di cessione – hanno impugnato, innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, gli atti sopra indicati con ricorso, contenente domanda cautelare, notificato il 13 giugno 2003 e depositato il successivo 2 luglio. In particolare, hanno dedotto: a) violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990; b) violazione dell’art. 3, comma 13, del decreto legge n. 351 del 2001; c) eccesso di potere.

Il Ministero dell’economia e delle finanze si è costituito con atto del 7 agosto 2003 e con ricorso del successivo 30 agosto ha proposto regolamento di competenza. L’Inpad e la ******à di cartolarizzazione immobili pubblici si sono costituiti, con atto separati, il 9 settembre 2003.

1.4.– Il Tar adito ha fissato la camera di consiglio per la trattazione della domanda cautelare il 9 settembre 2003. All’esito di tale camera di consiglio non è stato assunto alcun provvedimento. Alla camera di consiglio del 6 aprile 2006 è stata discussa l’istanza di regolamento di competenza proposta dall’Avvocatura distrettuale di Firenze. Con ordinanza del 12 giugno 2006 si è dato atto della rinuncia alla predetta istanza. L’udienza pubblica si è svolta il 23 novembre 2006: prima di tale udienza i ricorrenti hanno depositato memorie il 10 giugno e l’11 novembre e documenti il 22 e 26 maggio, il 31 ottobre e il 2 novembre; il Ministero ha depositato memorie e documenti il 9 giugno. All’esito della discussione, con ordinanza del 22 gennaio 2007, è stato ordinato al Responsabile dell’Osservatorio patrimonio Enti previdenziali di depositare la copia autentica della delibera impugnata. La successiva udienza è stata fissata il 10 maggio 2007: prima di tale udienza i ricorrenti ha depositato memorie il 26 aprile. La sentenza, n. 2330, è stata depositata il successivo 10 settembre.

Con tale sentenza si è ritenuto, in particolare, che l’amministrazione avesse violato il predetto art. 7 della legge n. 241 del 1990, nella parte in cui è stata omessa la comunicazione di avvio del procedimento. Nella sentenza si afferma che la partecipazione era necessaria per consentire un apporto dei privati in ordine ai seguenti dati: a) l’art. 3, comma 13, del decreto-legge n. 351 del 2001 considera di pregio gli immobili situati nei centri urbani, «tra cui però individua numerose eccezioni»; b) «l’ubicazione degli edifici di interesse dei ricorrenti è in un centro definito “storico” solo per opinabile estensione compiuta, peraltro ad altri fini, dallo strumento urbanistico e non coincidente con le zone indicate dal decreto 31 luglio 2002»; c) il punto 5 dei criteri allegati prevede che, nei casi in cui si tratti di immobili degradati, è necessario verificare se si superi una determinata soglia di valore.

2.– Il Ministero dell’economia e delle finanze, l’Agenzia del territorio, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, hanno impugnato la predetta sentenza per i seguenti motivi.

In primo luogo, si rileva che non occorre la comunicazione di avvio del procedimento sia perché si tratta di atti di programmazione che svolgono una funzione preparatoria rispetto alla ulteriore attività di effettiva dismissione degli immobili sia perché sussistono esigenze di celerità connesse all’esigenza di «recupero di liquidità» da parte dello Stato.

In secondo luogo, si sottolinea come gli immobili in esame siano ubicati nella zona A) del vigente piano regolatore generale e, in particolare, nel centro storico fuori le mura e non si trovano in una situazione di degrado. A tale ultimo proposito, si deduce che, anche a volere considerare i requisiti prescritti dall’art. 3, comma 13, del decreto-legge n. 351 del 2001, come modificato dal decreto-legge n. 269 del 2003, una volta accertata la insussistenza di una situazione di degrado non occorre l’ulteriore verifica volta a stabilire se sono necessari «interventi di restauro, di risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia».

2.1.– Ha proposto appello incidentale l’Inpdap prospettando argomentazioni analoghe a quelle sopra riportate. Con riguardo alla violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 si aggiunge che, nella specie, l’attività sarebbe vincolata con conseguente non necessità di garantire la partecipazione procedimentale.

2.2.– Si sono costituiti in giudizio i ricorrenti di primo grado deducendo, in via preliminare, la inammissibilità degli appelli per tardività. In particolare, si è rilevato che, applicandosi, ratione temporis, alla fattispecie all’esame di questo Collegio l’art. 23-bis della legge Tar, l’appello avrebbe dovuto essere proposto nel termine di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza. Nel caso in esame, la sentenza è stata depositata il 10 settembre 2007, l’appello principale è «stato notificato il 22/26 maggio 2008 e quello incidentale in data 29 maggio/4 giugno 2008», dunque oltre il termine massimo previsto.

2.3.– Questo Collegio, con ordinanza 8 giugno 2008 n. 3235, ha rigettato la domanda cautelare rilevando che, «ad un primo sommario esame», l’appello risulta notificato tardivamente.

2.4.– Con memoria del 22 marzo 2012 l’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto, in relazione alla tardività dell’appello, che venga riconosciuto l’errore scusabile in quanto il giudice di primo grado non avrebbe seguito la procedura prefigurata dal citato art. 23-bis e, in particolare, non avrebbe depositato il dispositivo (si cita Cons. Stato, sez. VI, sentenza 24 febbraio 2011, n. 1175; Cons. Stato, sez. VI, ordinanza 24 gennaio 2012, n. 299).

Con memoria del 26 marzo 2012 anche l’Inpdap ha chiesto che venga concesso l’errore scusabile richiamando i medesimi precedenti.

3.– Gli appelli proposti impongono in via preliminare di esaminare l’eccezione di inammissibilità sollevata dalle parti appellate.

La notificazione dell’appello, come riconoscono gli stessi appellanti, è avvenuta oltre il termine di centoventi giorni, dalla pubblicazione della sentenza, previsto dall’art. 23-bis della legge Tar.

Si tratta di stabilire se possa integrare gli estremi dell’errore scusabile, ai fini della rimessione in termini, la circostanza che il giudice non abbia seguito la procedura speciale prevista dal citato articolo. Occorre, pertanto, accertare quale sia la relazione esistente tra il mancato rispetto nel giudizio di primo grado di tale procedura da parte del giudice e il mancato rispetto nel giudizio di secondo grado della regola processuale che, sempre in attuazione della medesima disciplina, impone l’osservanza del termine dimezzato per la proposizione dell’atto di appello.

Sul punto, è necessario, in presenza di un contrasto interpretativo tra singole Sezioni di questo Consiglio, rimettere la decisione del ricorso all’Adunanza plenaria.

A questo fine si riportano di seguito: i) le norme processuali rilevanti relative al rito speciale in esame; ii) la disciplina dell’errore scusabile; iii) gli orientamenti giurisprudenziali contrastanti che si sono formati in relazione all’ambito di applicazione dell’errore scusabile; iv) la proposta, da parte di questa Sezione, di composizione del contrasto.

4.– L’art. 23-bis della legge Tar disciplina un rito speciale accelerato in presenza di particolari materie specificamente indicate.

La norma contempla due diversi precetti normativi.

Il primo individua, con elencazione tassativa, le specifiche controversie che rientrano nel suo ambito applicativo e, tra queste, menziona anche quelle concernenti i provvedimenti relativi «alle procedure di privatizzazione o di dismissione» di beni pubblici (comma 1, lettera e).

Il secondo attiene alla disciplina delle regole processuali che devono essere seguite in presenza delle materie elencate. In particolare, si stabilisce: i) che tutti i termini processuali, salvo quelli per la proposizione del ricorso, «sono ridotti alla metà» (comma 2); ii) «il dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni dalla data dell’udienza, mediante deposito in segreteria» (comma 6); iii) «il termine per la proposizione dell’appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale» pronunciata nei giudizi tassativamente indicati «è di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza»; iv) queste disposizioni «si applicano anche davanti al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata».

Il codice del processo amministrativo ha riprodotto, con modifiche, la disciplina contenuta nella disposizione riportata distinguendo un rito abbreviato comune a determinate materie comprese quelle relative alla privatizzazione e dismissione di beni pubblici (art. 119) e un rito speciale relativo al settore dei contratti pubblici (art. 120).

In relazione al primo si confermano le regole stabilite dall’art. 23-bis per quanto attiene al dimezzamento dei termini, che non opera esclusivamente per il ricorso introduttivo, il ricorso incidentale e i motivi aggiunti (art. 119, comma 2) e si prevede la pubblicazione anticipata del dispositivo rispetto alla sentenza non oltre sette giorni dalla decisione della causa quando almeno una delle parti, nell’udienza di discussione, dichiara di avere interesse (art. 119, comma 5).

In relazione al secondo, è stabilita l’applicazione delle medesime regole con alcune eccezioni tra le quali l’obbligo, nel solo giudizio di primo grado, della pubblicazione del dispositivo che definisce il processo (art. 120, comma 9).

5.– L’istituto dell’errore scusabile, prima della entrata in vigore del codice del processo amministrativo, era disciplinato, con riferimento a particolari fattispecie, dalle seguenti disposizioni:

a) l’art. 34 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato disponeva che se veniva impugnato innanzi a quest’ultimo, «per errore ritenuto scusabile», un provvedimento non definitivo, il Consiglio poteva assegnare un breve termine per la riproposizione del ricorso all’autorità gerarchica;

b) l’art. 36 dello stesso testo unico stabiliva che, in presenza di un errore «ritenuto scusabile», il Consiglio di Stato poteva concedere alla parte la possibilità di rinnovare o integrare la notificazione all’autorità amministrativa e ai controinteressati;

c) l’art. 34 della legge Tar prevedeva che il Consiglio di Stato, «in caso di errore scusabile», avrebbe potuto rimettere in termini il ricorrente per proporre l’impugnativa al giudice competente o per rinnovare la notificazione del ricorso.

La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che, pur in presenza di specifiche fattispecie, l’errore scusabile dovesse essere considerato un istituto di generale applicazione (Cons. Stato, Sez. V, 21 giugno 2005, n. 3268).

5.1.– L’art. 37 cod. proc. amm. ha trasposto in una disposizione normativa tale principio stabilendo che «il giudice può disporre, anche d’ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto».

L’art. 11, comma 5, cod. proc. amm., di disciplina della traslatio iudicii, contiene uno specifico riferimento all’istituto della rimessione in termine, ritenendolo applicabile, «ove ne ricorrano i presupposti», nei «giudizi riproposti» a seguito di una decisione sulla giurisdizione.

5.2.– Nel processo civile l’art. 153, comma 2, prevede – con norma, anch’essa generale, introdotta dalla legge n. 69 del 2009 – che «la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini».

6.– La questione relativa all’applicabilità dell’istituto dell’errore scusabile in presenza di una proposizione tardiva dell’appello e del mancato rispetto delle regole che presiedono alla disciplina del rito speciale in primo grado da parte del giudice è stata oggetto, come già sottolineato, di due diversi orientamenti giurisprudenziali.

6.1.– Un primo orientamento sostiene che – nel caso in cui il giudice di primo grado, «consapevolmente o meno», non abbia seguito il rito di cui all’art. 23-bis della legge Tar e, in particolare, risulta che non abbia depositato il dispositivo della sentenza entro il termine di sette giorni dalla camera di consiglio – l’appellante è «tratto in errore sull’applicabilità del termine breve per la proposizione dell’appello», con la conseguenza che «deve essere concesso l’errore scusabile» (Cons. Stato, sez. VI, 24 febbraio 2011, n.1175). Questa interpretazione è stata seguita anche dall’ordinanza della Sesta sezione di questo Consiglio del 24 gennaio 2012, n. 299 che, accogliendo uno specifico motivo di revocazione, ha ribadito – con riguardo alla medesima fattispecie che viene in rilievo in questa sede – la concedibilità dell’errore scusabile qualora il giudice di primo grado non abbia seguito l’iter procedimentale prefigurato dall’art. 23-bis e, in particolare, non abbia pubblicato il dispositivo.

6.2.– Un secondo orientamento – seguito, in particolare, da Consiglio di Stato, Ad. plen., 3 giugno 2011, n. 10 – ritiene che sia «irrilevante» la condotta processuale «tenuta dal giudice nel corso del giudizio di primo grado, trattandosi di evenienza che non esclude ex se la doverosa applicazione del rito (ordinario o speciale), effettivamente stabilito dalla legge» (in questo senso anche Cons. Stato, sez. IV, 23 dicembre 2010 n. 9376).

Nonostante tale orientamento sia stato seguito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la Sezione ha ritenuto necessario ugualmente rimettere ad essa l’esame della questione in quanto la decisione richiamata non è stata adottata per dirimere il contrasto in esame ovvero per risolvere una questione di massima di particolare importanza relativa all’interpretazione delle norme applicabili nel presente giudizio. L’affermazione contenuta nella sentenza citata costituisce, infatti, soltanto un passaggio argomentativo necessario per la decisione nel merito dell’intera controversia.

7.– Questo Collegio ritiene che la soluzione del contrasto imponga la previa individuazione della natura e delle modalità di operatività dell’errore scusabile.

7.1.– Le norme che pongono le regole processuali possono prevedere che, qualora la parte non osservi i limiti temporali di natura perentoria per il compimento di alcuni atti, la stessa perde il potere di compiere quella determinata attività.

Il rimedio della decadenza dal potere può essere non applicato qualora si accerti che la parte ha violato la norma imperativa in maniera incolpevole.

Nel processo amministrativo, così come nel processo civile, assume rilevanza, pertanto, nei limiti che si diranno, quella che può essere definita colpa processuale (il riferimento alla colpa è anche contenuto nella prima sentenza del Consiglio di Stato che si è occupata dell’errore scusabile: Cons. Stato, Sez. IV, 27 maggio 1892, n. 154).

Le parti del giudizio devono, infatti, osservare le regole di condotta della diligenza nel compimento dei singoli atti, con la conseguenza che qualora la violazione della norma imperativa processuale avvenga per causa non imputabile alla parte la stessa va esente da colpa. In questi casi non si applica il rimedio della decadenza in quanto si ha diritto ad ottenere la rimessione in termini.

La natura indeterminata di tali concetti ha portato – come normalmente avviene anche quando si tratta di effettuare un giudizio sulla colpa nel diritto sostanziale – il legislatore e la giurisprudenza, anche al fine di evitare una eccessiva discrezionalità giudiziaria, a tipizzare talune regole di condotta.

Questa opera di tipizzazione, nel nostro caso, è avvenuta, innanzitutto, su un piano generale, mediante la delimitazione normativa dell’ambito in cui può venire in rilievo la diligenza: l’art. 37 stabilisce, infatti, che la colpa è esclusa in presenza di un errore determinato da «oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto».

L’opera di tipizzazione è poi proseguita, nell’ambito di tale perimetro, mediante la costruzione di regole di condotta più specifiche da parte soprattutto della giurisprudenza. Quest’ultima, in particolare, con riguardo alla «incertezza su questioni di diritto», ha tipizzato alcune regole la cui ricorrenza induce a ritenere, sussistendo gli altri presupposti indicati nel prosieguo, che il comportamento posto in essere, se conforme ad esse, non possa essere ritenuto colposo. Sono stati, infatti, considerati, tra l’altro, come modelli di riferimento, nel giudizio sulla concedibilità dell’errore scusabile, il comportamento di chi sia stato tratto in errore dall’oscurità e ambiguità della normativa applicabile, dal cambiamento del quadro legislativo, da contrasti giurisprudenziali, da attività equivoche poste in essere da parte della stessa pubblica amministrazione (ex multis, cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 2 dicembre 2010, n. 3; Cons. Stato, Ad. plen., 31 maggio 2002, n. 5; Cons. Stato, sez. V, 2 novembre 2011, 5836; id. 29 novembre 2011, n. 6298; id., sez. IV, 27 novembre 2008, n. 5860; id., sez. V, 17 ottobre 2008, n. 5061; id., 7 maggio 2008, n. 2094; pur nella consapevolezza della diversità dei contesti, analoghi principi sono stati elaborati dalla giurisprudenza amministrativa anche per valutare, ai fini del riconoscimento della responsabilità civile della pubblica amministrazione, se il comportamento dell’amministrazione che viola il precetto normativo di disciplina della sua azione sia stato giustificato da errore scusabile con conseguente assenza di colpa).

Nella costruzione di queste regole, avendo riguardo anche a quanto testualmente previsto dall’art. 37 cod. proc. amm., non possono venire in rilievo anche gli aspetti di rilevanza soggettiva: gli impedimenti che rendono non imputabile la violazione devono essere di natura oggettiva (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 febbraio 2012, n. 1127).

Infine, occorre valutare se la specificità del caso concreto può indurre a ritenere ugualmente imputabile a negligenza, con assenza dell’errore scusabile, la condotta posta in essere. Nel giudizio di confronto tra la condotta concreta e la condotta tipica occorre prendere in esame anche la peculiarità della situazione che viene in rilievo per stabilire se effettivamente possa ritenersi che la violazione processuale non sia imputabile alla parte stessa per la ricorrenza di impedimenti oggettivi. Del resto, anche nei giudizi sulla colpa che si svolgono in ambito sostanziale non si può prescindere, pur in presenza di regole di condotta predefinite (a volte anche a livello normativo), dall’accertamento, imposta dalla natura dei giudizi stessi, della specificità della fattispecie concreta.

Non si deve, dunque, effettuare un giudizio meccanico di comparazione ma, per evitare una non consentita sovrapposizione tra le due condotte sopra indicate, è necessario valutare la particolarità del singolo caso (la necessità di questa valutazione è stata, da ultimo, ribadita da Cons. Stato, sez. VI, 16 aprile 2012, n. 2139; si veda anche Cons. Stato, Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 1).

In questo contesto l’attività del giudice consiste nello stabilire se la condotta concreta sia o meno conforme alla regola di condotta predefinita. Se sussiste, anche alla luce delle specificità della fattispecie, uno “scarto” tra di esse deve ritenersi colpevole la violazione della norma processuale con conseguente impossibilità di riconoscere l’errore scusabile ai fini della rimessione in termini.

La modulazione del giudizio alla luce delle indicate coordinate interpretative rappresenta, ad avviso della Sezione, un giusto contemperamento tra le esigenze di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale e, attraverso il rispetto delle norme imperative, la parità delle parti (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 3 del 2010, cit.).

7.2.– Applicando questi principi generali al caso in esame ne discende quanto segue.

In primo luogo, opera il livello di tipizzazione normativa delle condotte costituito, nella specie, dalla rilevanza dei soli comportamenti posti in essere in presenza di oggettive «ragioni di incertezza su questioni di diritto».

In secondo luogo, opera il livello di tipizzazione giurisprudenziale della condotta standard. Nel nostro caso il contrasto interpretativo riguarda questa fase: si tratta, infatti, di stabilire se possa costituire una condotta predefinita quella posta in essere in presenza di un errore determinato dal comportamento del giudice che non ha osservato le regole processuali che scandiscono i momenti della sua attività. In altri termini, si tratta di stabilire se nell’ambito del catalogo dei comportamenti sopra riportati, che vengono normalmente valutati nel giudizio relativo all’errore scusabile, possa essere inserito anche quello in esame. Questa Sezione ritiene che tale condotta standard debba essere inclusa tra quelle sino ad ora tipizzate dalla giurisprudenza. Non si ravvisano, infatti, valide ragioni per escludere che la parte, nello stabilire quali siano le regole processuali applicabili nella specie, possa essere tratta in “inganno” dal comportamento processuale del giudice.

Infine, opera il livello costituito dalla valutazione della specificità della condotta concreta che impone di verificare se la stessa, alla luce di tutti gli elementi a disposizione del giudice, possa considerarsi effettivamente conforme alla regola di condotta della diligenza. In questa ottica, possono assumere rilievo, ad esempio, la stessa “natura” della materia che viene in rilievo, il comportamento delle parti stesse al fine di verificare se esse abbiamo o meno seguito il rito speciale, la gravità delle violazioni (nella specie la descrizione delle modalità temporali di svolgimento del giudizio è contenuta, in particolare, al punto 1.3.).

8.– In conclusione, si rimette all’esame della Adunanza plenaria la seguente questione.

Se possa costituire o meno errore scusabile con rimessione in termini la proposizione di un atto di appello senza il rispetto del termine dimezzato previsto per le materie soggette al rito speciale di cui all’art. 23-bis della legge Tar (oggi artt. 119-120 cod. proc. amm.) qualora nel processo di primo grado il giudice non abbia seguito le regole processuali di disciplina del predetto rito e, in particolare, non abbia depositato il dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, rimette l’esame della intera controversia all’esame all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 del Codice del processo amministrativo.

Redazione