Processo amministrativo: la revocazione è un rimedio eccezionale che non può costituire un terzo grado di giudizio (Cons. Stato n. 2338/2013)

Redazione 29/04/13
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

L’Università degli studi di Roma “La Sapienza” propone ricorso per la revocazione parziale della sentenza di questo Consiglio di Stato 21 ottobre 2011 n. 5669 concernente il riconoscimento, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 103 D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, del servizio prestato da alcuni docenti dell’Università prima dell’inquadramento nel ruolo dei ricercatori.

Assume l’Università ricorrente che nella redazione della suddetta sentenza questo Consiglio di Stato sarebbe incorso in errore materiale laddove, nel dispositivo della decisione, avrebbe erroneamente riconosciuto come periodo utile alla ricostruzione di carriera dei ricercatori il servizio prestato dagli odierni appellati, prima della assunzione della qualifica di ricercatore, nel ruolo di funzionario tecnico (VIII qualifica) in forza della applicazione dell’art.9, comma 2, del D.L. 24 novembre 1990, n. 344 (convertito nella L. 23 gennaio 1991, n. 21). E tanto nonostante che – sempre secondo la prospettazione della parte ricorrente – nella motivazione della suddetta sentenza, il Collegio avesse escluso che il servizio prestato nella qualifica di funzionario tecnico (ottenuta ex lege per i collaboratori tecnici muniti di laurea) potesse essere utile al riconoscimento del beneficio della parziale ricongiunzione.

Da tanto l’iniziativa per la revocazione parziale della richiamata sentenza, assumendosi la ricorrenza di una ipotesi testuale di errore di fatto revocatorio.

Si sono costituiti in giudizio gli appellati per resistere al ricorso e per chiederne la reiezione e, prima ancora, la declaratoria di inammissibilità.

All’udienza del 22 marzo 2013 il ricorso è stato trattenuto per la sentenza.

Il ricorso è inammissibile.

Va premesso che l’art. 106 cod. proc. amm. stabilisce che “le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione nei casi e nei modi previsti dagli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile”. In particolare, l’art. 395, comma 1, numero 4, cod. proc. civ. prevede che la revocazione è ammissibile “se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa”, specificando che “vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.

La giurisprudenza amministrativa, muovendo dalla condivisibile premessa che l’istituto della revocazione è un rimedio eccezionale che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio, ritiene, con orientamento costante cui aderisce questa Sezione, che per aversi errore di fatto revocatorio devono sussistere, contestualmente, tre distinti requisiti: a) l’attinenza dell’errore ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; b) la “pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale” di atti ritualmente prodotti nel giudizio, “la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere esistente un fatto documentalmente escluso o inesistente un fatto documentalmente provato”; c) la valenza decisiva dell’errore sulla decisione essendo necessario che vi sia “un rapporto di causalità tra l’erronea supposizione e la pronuncia stessa” (ex multis, Cons. Stato, VI, 20 aprile 2012, n. 2353; IV, 24 gennaio 2011, n. 503). Devono, invece, ritenersi “vizi logici e dunque errori di diritto quelli consistenti nell’erronea interpretazione e valutazione dei fatti” e, in più in generale, delle risultanze processuali (Cons. Stato, V, 21 ottobre 2010, n. 7599; VI, 5 settembre 2011, n. 4987).

Tanto premesso, va osservato che la ricorrente Università assume che la sentenza impugnata sarebbe inficiata da errore di fatto in quanto, mentre in motivazione si sarebbe escluso che il periodo di servizio prestato dai ricercatori confermati nella qualifica di funzionari tecnici, ottenuta in base all’art. 9, comma 2, del D.L. 24 novembre 1990, n. 344, sia da valutare ai fini del riconoscimento dei benefici di cui all’art. 103 D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, nel dispositivo la stessa sentenza avrebbe contraddittoriamente operato detto riconoscimento.

Risulta tuttavia evidente che, nel caso in esame, il ricorso al rimedio revocatorio risulti inammissibile per insussistenza dello stesso presupposto dell’errore di fatto.

Invero, nell’impugnata sentenza questo Consiglio di Stato, dopo aver ricostruito, anche a mezzo del richiamo alla giurisprudenza costituzionale, le ragioni poste a base del riconoscimento normativo (ai fini di quiescenza e previdenza nonché della ricostruzione di carriera) dell’attività di servizio pregressa svolta dai ricercatori nel ruolo universitario non docente, ha preso in considerazione la posizione di tre gruppi distinti di soggetti, a seconda della eterogenea esperienza professionale pregressa maturata prima della assunzione della qualifica di ricercatore: a) il gruppo dei ricercatori che hanno svolto attribuzioni proprie della qualifica di tecnico laureato, cui va esteso senz’altro il beneficio della ricostruzione di carriera ai sensi del citato art. 103, comma terzo, del D.P.R 11 luglio 1980, n. 382 (a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 21 maggio-6 giugno 2008, n. 191, che ha dichiarato l’illegittimità del comma terzo di tale articolo, nella parte in cui non riconosce ai ricercatori universitari, all’atto della loro immissione nella fascia dei ricercatori confermati, per intero ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza e per i due terzi ai fini della carriera, l’attività effettivamente prestata nelle università in qualità di tecnici laureati con almeno tre anni di attività di ricerca, b) il gruppo dei funzionari tecnici cui va riconosciuto il medesimo beneficio, posto che tale profilo professionale è venuto a sostituire, in virtù del D.P.C.M. 24 settembre 1981, quello del tecnico laureato; c) infine, il gruppo dei soggetti, già collaboratori amministrativi, che sono venuti ad assumere ope legis la ottava qualifica in quanto muniti di laurea, nei cui confronti l’attribuzione della nuova qualifica ha comportato che essi abbiano potuto in concreto assumere, nell’ambito dell’area tecnico-scientifica, il profilo professionale di funzionario tecnico.

Dalla data in cui, unitamente all’ acquisizione della ottava qualifica, si è associato anche lo svolgimento in concreto dei compiti propri del profilo professionale di funzionario tecnico il Collegio, nella impugnata sentenza, ha ritenuto – con valutazione condivisibile ma in ogni caso in questa sede incensurabile – che non vi fosse ragione di disconoscere anche a tale categoria di soggetti i benefici più volte richiamati, restando naturalmente esclusa per costoro la possibilità di valersi del periodo di servizio prestato in settima qualifica e nel distinto profilo di collaboratore tecnico o amministrativo.

Nella sentenza impugnata è dato ravvisare anzitutto un approfondimento della dedotta questione di diritto (che pertanto, già per ciò solo, non integra una statuizione su un punto di fatto non controverso); vi è poi linearità e non contraddizione tra motivazione e dispositivo, posto che gli ex collaboratori tecnici o amministrativi sono stati assimilati, ai fini che qui interesano, ai funzionari tecnici soltanto dal momento in cui hanno acquisito (sia pure ex lege ed in virtù del solo possesso del diploma di laurea) la ottava qualifica e sono venuti in concreto ad esercitare compiti ed attribuzioni già proprie dei tecnici laureati (divenuti poi “funzionari tecnici” secondo la terminologia introdotta dal citato D.P.C.M. 24 settembre 1981). Rispetto a tale ordito motivazionale risulta pienamente congruente il dispositivo della impugnata sentenza che, pertanto, non appare suscettibile di revocazione.

In definitiva, il ricorso risulta inammissibile.

Le spese di lite del presente giudizio di revocazione seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione, come in epigrafe proposto (Rg n. 2769/12), lo dichiara inammissibile.

Condanna l’Università appellante al pagamento, in favore delle parti intimate, delle spese processuali del presente giudizio di revocazione, che liquida complessivamente in Euro 3.000,00 (tremila/00), oltre iva e cpa.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 marzo 2013

Redazione