Procedimento espropriativo: cessione volontaria del bene e giurisdizione

Redazione 20/08/13
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FATTO

1. Con ricorso di primo grado incardinato presso il Tribunale amministrativo per la Sardegna le odierne appellanti avanzavano richiesta volta:

a) all’accertamento dell’inadempimento all’obbligo contratto dal Demanio della Regione Autonoma Sardegna di costituire una servitù di passaggio, a piedi e carrabile, a favore di un fondo della sig.ra ************************** rimasto di sua proprietà dopo la cessione volontaria in favore della Regione di un’area contigua;

b) all’accertamento dell’inadempimento del medesimo obbligo contratto in favore della signora **********************************;

c) all’esecuzione in forma specifica degli obblighi suddetti;

d) alla condanna, ove impossibile l’esecuzione in forma specifica, al risarcimento dei danni, ivi compresi quelli morali, subiti dalle ricorrenti, con rivalutazione monetaria ed interessi.

2. La pronuncia oggetto di gravame dichiarava il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione senza disporre contestualmente la translatio judicii a favore del g.o. In particolare, il primo Giudice rilevava che alcune aree di proprietà delle sig. re ************************** e **********************************, ubicate in comune di Tempio Pausania, località Monti di Deu, venivano assoggettate a procedura espropriativa, avviata dal Consorzio Industriale di Interesse Regionale di Tempio Pausania per la realizzazione di una diga. Nel corso del suddetto procedimento si concludevano tra le parti accordi di cessione dei beni, che oltre a trasferire la proprietà di alcuni fondi delle appellanti, costituivano servitù di passaggio a favore di altri fondi rimasti di proprietà delle appellanti. Secondo la ricostruzione operata dal Tribunale, contrariamente a quanto le ricorrenti sostenevano, gli accordi per la cessione volontaria dei beni da espropriare, stipulati, come nel caso di specie, ai sensi dell’art. 12, comma 1, della L. 22/10/1971 n. 865 (ora art. 45 del D.P.R. 8/6/2001 n. 327) non sono riconducibili a quelli di cui all’art. 11 della L. 7/8/1990 n. 241, atteso che questi ultimi possono assumere contenuti vari connessi all’esigenza di definire, seppur pattiziamente, ambiti di discrezionalità, mentre i primi, sono caratterizzati da un contenuto predeterminato dal legislatore, che si sostanzia unicamente nel trasferimento della proprietà dal soggetto privato a quello pubblico. Del resto, la giurisdizione esclusiva attribuita al giudice amministrativo sugli atti di cessione di beni da espropriare dall’art. 133, lett. g), del c.p.a., deve ritenersi limitata alle controversie inerenti ai medesimi atti nel loro contenuto tipico; la detta pattuizione aggiunta – di natura eminentemente privatistica – non ha, quindi, nulla a che vedere con il contenuto tipico degli accordi ex art. 12, comma 1, L. 865/1971, né è inquadrabile fra gli accordi di cui all’art. 11 della citata L. n. 241/1990, non essendo finalizzata a regolare ambiti discrezionali del potere. Pertanto, non può che pronunciarsi il difetto di giurisdizione del g.a..

3. Con atto d’appello notificato il 28 gennaio 2013 e depositato il 29 gennaio 2013, le originarie ricorrenti impugnano la sentenza del TAR Sardegna n. 1010, depositata il 19 novembre 2012, invocandone l’annullamento nella parte in cui conclude per la sussistenza nella fattispecie della giurisdizione del g.o. In dettaglio, le appellanti indicano che: a) erronea è la sentenza nella parte in cui non ritiene che gli accordi di cessione vadano ricondotti nel più ampio genus degli accordi disciplinati dall’art. 11 della legge generale sul procedimento amministrativo e nella misura in cui non fa corretta applicazione delle direttive contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 191/2006; 2) erronea è l’esegesi offerta dal primo Giudice dell’art. 133, comma 1, lett. g) c.p.a., limitandola agli accordi in materia di espropriazione per pubblica utilità nel loro contenuto tipico, sia perché non opera il necessario coordinamento della norma con il dettato dell’art. 133, comma 1, lett. a), punto 2), c.p.a., sia perché esclude la giurisdizione esclusiva del g.a. proprio per quelle clausole che in ragione della loro atipicità denunciano l’origine discrezionale del potere che le ha generate; 3) non convince il ragionamento contenuta nella sentenza gravata, laddove non fa discendere dal contenuto atipico dell’accordo di cessione la nullità dello stesso per violazione dell’art. 21 septies, l. 241/90; 4) va risarcito il danno a loro cagionato dalla mancata esecuzione dell’accordo di cessione; 5) deve conseguentemente essere riformata la sentenza nella parte in cui le condanna al pagamento delle spese del primo grado di giudizio.

3. Con memoria del 31 maggio 2013 la Regione Sardegna invoca la conferma della sentenza gravata anche in ragione della sentenza del Tribunale di Tempio Pausania che sulla base della stessa causa petendi e dello stesso petitum, in data 12 gennaio 2012 ha accertato il diritto di servitù a favore delle odierne appellanti, ordinando alla Regione Sardegna di adempiere all’obbligo di renderne possibile l’esercizio. Inoltre, l’appellata rileva come la configurazione come obbligazione pubblica piuttosto che come servitù prediale proposta dalle appellanti sia un motivo di diritto introdotto solo in sede di gravame. Infine, la Regione ritiene infondata la richiesta di risarcimento del danno e comunque alla stessa non addebitabile, dovendo al più essere individuato quale responsabile dell’asserito illecito il Consorzio ZIR di Tempio Pausania.

4. Con successive memorie depositate agli atti del presente giudizio le appellanti approfondiscono gli argomenti introdotti con l’atto d’appello ed, in particolare, indicano la diversità del petitum oggetto del presente giudizio rispetto a quello introdotto dinanzi al Tribunale di Tempio Pausania, attualmente al vaglio della Corte d’Appello di Cagliari – Sezione distaccata di Sassari, nella differente richiesta risarcitoria e nella possibilità riconosciuta all’indomani del pronunciamento dell’Adunanza Plenaria n. 28/2012 di ottenere dal g.a. l’esecuzione forzata in forma specifica ex art. 2932 c.c.

5. Con memoria dell’11 giugno 2013 il sunnominato Consorzio invoca il rigetto dell’appello, evidenziando: 1) la correttezza della sentenza gravata come dimostrato dal fatto che la costituzione della servitù a favore delle appellanti rappresenti corrispettivo che integra l’indennità di esproprio, sicché la controversia in esame viene assorbita ai sensi dell’art. 133 comma 1 lett. g), c.p.a. dalla giurisdizione del g.o.; 2) il proprio difetto di legittimazione passiva.

DIRITTO

1. L’appello è infondato e merita di essere respinto non sussistendo nella controversia in esame la giurisdizione del g.a., sebbene per ragioni differenti da quelle indicate dal primo Giudice.

2. Il tema posto all’attenzione del Collegio è quello della natura giuridica della cessione volontaria di beni e conseguentemente dell’eventuale giurisdizione del g.a. sulle eventuali controversie in sede di esecuzione. Gli argomenti utilizzati dal primo Giudice per escludere la giurisdizione del g.a. nella fattispecie sono sostanzialmente due: a) l’impossibilità di ricondurre la cessione volontaria al genus degli accordi ex art. 11, l. 241/90, e conseguentemente la non operatività della previsione di cui all’odierno art. 133, comma 1, lett. a), n. 2; b) un’interpretazione dell’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., che restringe l’ambito di giurisdizione esclusiva del g.a. alle sole controversie aventi ad oggetto il contenuto tipico della cessione volontaria. Approdi come indicato sopra, nella parte motiva in fatto, contrastati dalle appellanti.

3. La soluzione della questione passa attraverso una disamina della natura giuridica della cessione volontaria e dei suoi rapporti con l’istituto disciplinato dall’art. 11, l. 241/90. Com’è noto, ben prima del varo della legge generale sul procedimento la conciliabilità delle categorie giuridiche del potere pubblico e del contratto è stata oggetto di un vivace dibattito che sin dalla fine dell’800, ha interessato gli ordinamenti europei continentali, incentrandosi sulla configurabilità stessa dell’istituto del contratto di diritto pubblico. Ossia una convenzione tra amministrazione e privato all’interno della quale l’esercizio del potere pubblicistico sia compromesso in obbligazione. A fronte della prospettazione di uno schema ibrido, all’interno del quale declinare in forme diverse da quelle unilaterali il potere pubblico, si è sempre posto l’accento sulla necessità che questo meccanismo si riveli idoneo quanto l’esercizio unilaterale del potere nel soddisfare l’interesse pubblico. Gli studi sul tema, non sembra inutile sottolinearlo, nella speculazione tedesca di fine ottocento, hanno avuto ad oggetto non un istituto generale, ma la concessione della cittadinanza (Naturalisation) ed il rapporto di pubblico impiego (Beamtenanstellung), ed in quella francese la concessione di servizi pubblici, secondo direttrici che influenzeranno in modo consistente l’ordinamento italiano. La tendenza che attecchisce in questa fase porta ad un superamento dell’impostazione fondata sull’assoluta inconciliabilità tra potere e contratto, in omaggio alla quale si era propensi a ridurre quest’ultimo alla mera sottomissione del privato all’esercizio del potere pubblico. A partire dal ‘900 la diatriba valica le Alpi ed interessa i massimi studiosi del diritto amministrativo italiano, che in larga parte finiscono per ritenere non superabili quelle obiezioni fondate sulla non paritaria posizione delle parti e sulla non commerciabilità dell’interesse pubblico, tanto da aderire ad un’impostazione che mantiene separati i due moduli, quello pubblicistico e quello privatistico secondo il paradigma della concessione-contratto. Una tale impostazione fa breccia anche nella giurisprudenza, tanto che una celebre sentenza della Cassazione di Roma del 12 gennaio 1910, avalla l’utilizzo di uno strumento composito, quello della concessione-contratto, all’interno del quale il momento autoritativo e quello consensuale non si traducono in una sintesi ma in un accostamento. Un meccanismo che rassicura circa la permanenza in capo alla p.a. del controllo dell’interesse pubblico e che declina con stabilità e chiarezza i rapporti patrimoniali tra le parti.

3.1. La possibilità di una piena sostituzione dell’atto unilaterale con una atto bilaterale che produca anche gli effetti del primo viene ad affacciarsi nella teorica del diritto amministrativo solo a partire dalla seconda metà degli anni ’30 del secolo scorso. Così tra i contratti di diritto amministrativo vengono annoverati, ad esempio, gli accordi amichevoli nel procedimento di espropriazione ed il concordato tributario. Si tratta di un approdo non condiviso da parte di insigni *******, e che sconta la difficoltà di coniugare a livello teorico nozioni quali quella di causa in senso oggettivo e di perseguimento dell’interesse pubblico. Elemento quest’ultimo, secondo l’impostazione civilistica all’epoca dominante, prossimo piuttosto alla nozione dei motivi del contratto ovvero a quella fusione di scopi che caratterizza la concezione successivamente diventa prevalente della causa in concreto (Cass. civ., Sez. III, n. 10490/2006; Cass., Sez. Un., n. 26972/2008). Com’è noto l’opposizione al riconoscimento della categoria del contratto di diritto pubblico diviene largamente dominante a partire dal dopoguerra, periodo durante il quale si registra una profonda divaricazione tra l’esperienza italiana e quella tedesca. Il prevalere della concezione dualistica nelle differenti ricostruzione dottrinarie rinviene un comune denominatore nell’assenza di una disciplina che legittimi una simile figura giuridica. Sotto la cenere della tesi contraria continua, però, a covare l’idea che il momento pubblicistico e quello privatistico possano incontrarsi, tanto che la celebre tripartizione tra: contratti accessivi necessari, contratti ausiliari di provvedimento e contratti sostitutivi di provvedimento, abbraccia un arco all’interno del quale l’ultima delle citate categorie, che viene esemplificata con il riferimento alle convenzioni urbanistiche, richiama l’esperienza dei contratti di diritto pubblico. “Alternativa” e “sostituzione” rappresentano le basi di quell’ulteriore riflessione, che porta al superamento dell’impostazione dualistica e del varo da parte del legislatore dell’art. 11, l. 241/90. Così, il contrasto tra autonomia privatistica e discrezionalità pubblicistica non viene risolto all’insegna dell’inconciliabilità, ma della diversa configurazione delle regole di formazione della volontà del privato e della pubblica amministrazione, mentre la disciplina degli effetti trova nell’accordo un momento unitario.

4. A fronte dell’esperienza francese che vede svilupparsi il modello dei “contrats administratifs”, secondo discipline settoriali, ricondotte ad unità di principi dall’intervento giurisprudenziale, il nostro ordinamento pare aderire al modello tedesco, che offre all’” öffentlich-rechtlicher Vertrag” una disciplina generale con i §§ 54-61 della Verwaltungsverfahrensgesetz. L’art. 11, l. 241/90, introduce, infatti, un modello generale di accordo, che ha natura pubblicistica. Conclusione quest’ultima alla quale si giunge agevolmente non solo sulla scorta del percorso storico-giuridico sopra tracciato, ma anche in ragione dell’esegesi della norma, che offre molteplici argomenti: a) il necessario perseguimento dell’interesse pubblico; b) il riferimento al “contenuto discrezionale”; c) il richiamo ai soli principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti; d) il limite della “compatibilità” nel richiamo ai suddetti principi; e) l’invarianza quanto al regime dei controlli; f) la previsione della giurisdizione esclusiva del g.a. ora assorbita dall’art. 133 c.p.a La tesi di segno contrario che ne evidenzia, invece, la natura privatistica non risulta, inoltre, più sostenibile proprio grazie alle indicazioni offerte dalla Corte costituzionale (Corte cost. nn. 204/2004 e 191/2006) sui limiti entro i quali il legislatore ordinario può sagomare la giurisdizione esclusiva del g.a. Il Giudice delle leggi, infatti, ha chiarito che l’utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l’esistenza in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l’accordo sostituisce l’atto unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un provvedimento espressione di potere autoritativo. Da qui l’impossibilità di ricondurre sic et simpliciter l’accordo allo schema del contratto di diritto privato e la conseguente giustificazione dell’assegnazione al g.a. della giurisdizione esclusiva anche per quelle controversie che attengono all’esecuzione dell’accordo.

5. Riconosciuta la natura giuridica dell’accordo deve essere esaminato il rapporto che corre tra quest’ultimo e la cessione volontaria disciplinata all’epoca dei fatti dall’art. 12, l. n. 865/1971.

5.1. Il tema esaminato dalle Sezioni Unite della Cassazione, più di recente con sentenza n. 24687/2010, è stato risolto da quest’ultime nel senso di escludere che la cessione volontaria sia species dell’accordo ex art. 11, tanto, che: “inoltre – come esattamente rilevato dal confliggente Tribunale amministrativo regionale per la Calabria con la menzionata sentenza n. 1313/09 del 25 novembre 2009 (che richiama il consolidato orientamento di queste sezioni unite), in contrasto con la sentenza del Tribunale di Lamezia Terme n. 257/06 del 6 giugno 2006 – tale orientamento non collide con il combinato disposto della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 11, commi 5 e 1 – che riserva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi stipulati dall’amministrazione procedente con gli interessati al fine di determinare il contenuto del provvedimento finale ovvero … in sostituzione di questo -, in quanto questa Corte ha ripetutamente affermato che detta norma non è applicabile al (sub)procedimento di cessione volontaria del bene da espropriare, ciò in base al rilievo che la legge generale sul procedimento amministrativo non può trovare applicazione quando la disciplina di settore (quale quella che regola, come nella specie, la procedura ablatoria di cui alla L. n. 865 del 1971, artt. 9 e segg.), soddisfacendo in maniera diversa (e con minori margini di discrezionalità per la Pubblica Amministrazione) le esigenze tutelate dalla disciplina generale, risulti incompatibile con il modello procedimentale da essa delineato e debba applicarsi nella sua interezza, compresa la disciplina della giurisdizione, atteso l’inscindibile collegamento tra questa e le disposizioni sul procedimento (cfr., ex plurimis, le sentenze delle sezioni unite nn. 9845 del 2007 e 9130 del 1994);

che con le ora richiamate sentenze è stato affermato, in particolare, che la cessione volontaria degli immobili assoggettati ad espropriazione e la determinazione amichevole della relativa indennità non possono derogare in alcun modo dai prestabiliti parametri legali, e che la funzione stessa di tale cessione è quella di rappresentare un modo tipico di chiusura del procedimento di esproprio, secondo modalità ritenute necessarie dalla legge in forza di una relazione legale e predeterminata di alternatività della cessione volontaria rispetto al decreto ablatorio, e non già di mera “sostituzione” di questo che ne consenta l’inquadramento tra gli accordi sostitutivi di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 11, comma 1 i quali sono liberi nell’an e nel quomodo, a differenza degli accordi espropriativi che sono, invece, liberi soltanto nell’an;”. Quest’impostazione non può essere condivisa, proprio per le conclusioni alle quali è giunta la Consulta: presupposto dell’accordo è la preesistenza di un potere autoritativo, che viene sostituito da uno strumento negoziale, non importa se la discrezionalità attiene soltanto all’an e non al quomodo. Del resto, è la stessa Cassazione che precisa come la cessione volontaria non possa essere assimilata ad un contratto di compravendita per le seguenti ragioni: “a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità; b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerta ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge 22 ottobre 1971 n. 865; c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione.” (Cass., civ. Sez. II, 22 maggio 2009, n. 11955). In definitiva, la posizione della Suprema Corte pare maggiormente orientata alla necessità di giustificare la giurisdizione del g.o. in tema di determinazione e corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa (Cass., Sez. Un., n. 29527/2008). Peculiarità che risulta essere stata mantenuta anche all’indomani del c.p.a. con l’art. 133, comma 1, lett. g), anche per evitare che l’insorgere di conflitti giurisprudenziali potenzialmente non risolvibili nel caso in cui delle controversie inerenti le indennità dovute per l’adozione del decreto d’esproprio dovesse occuparsi il g.o., e di quelle conseguenza della cessione volontaria dei beni dovesse occuparsi il g.a. Questa conclusione, infatti, hanno raggiunto le stesse Sezioni Unite con la pronuncia, n. 28343/2011, desumendola dalle coordinate offerte dalla Consulta in sede di valutazione della costituzionalità dell’art. 53 d.P.R. n. 327/2001: “La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 53 comma 1, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 325, trasfuso nell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, ad opera della sentenza n. 191 del 2006 della Corte costituzionale, riguarda soltanto la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative ai comportamenti delle pubbliche amministrazioni, conseguenti all’applicazione delle disposizioni del testo unico, non riconducibili, nemmeno mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere e, dunque, tenuti in carenza di potere od in via di mero fatto; conseguentemente appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo quelle controversie in tema di risarcimento del danno derivante da provvedimenti che, benché impugnati per illegittimità od illiceità, sono comunque riconducibili ai poteri ablatori riconosciuti alla P.A. dagli artt. 43 e 44 del T.U. n. 327 e dall’art. 3 della legge 1° agosto 2002, n. 166, ivi compresi gli atti di cessione volontaria, parificati dall’art. 45 del medesimo T.U. ai decreti di esproprio. (Fattispecie relativa ad un’azione di annullamento di un contratto di cessione volontaria di beni immobili e contestuale azione di restituzione e di risarcimento dei danni)”.

5.2. In definitiva, come ha già avuto modo di chiarire questo Consiglio (Cons. St., Sez. VI; 14 settembre 2005, n. 4735) la cessione volontaria del bene, nel procedimento espropriativo, in quanto sostitutiva del decreto di espropriazione, di cui produce i medesimi effetti, non perde la connotazione di atto autoritativo, implicando, più semplicemente la confluenza in un unico testo di provvedimento e negozio e senza che la presenza del secondo snaturi l’attività dell’Amministrazione, dato che il fine pubblico può essere perseguito anche attraverso la diretta negoziazione del contenuto del provvedimento finale. Né come affermato dal primo Giudice la circostanza secondo la quale la clausola con la quale viene costituita la servitù prediale a favore delle odierne appellanti, nella misura in cui decampa dal contenuto vincolato della cessione volontaria può portare ad escludere la giurisdizione esclusiva del g.a., che sarebbe limitata al solo contenuto tipico dell’accordo di cessione. La riconducibilità, infatti, della cessione volontaria sotto il più ampio ombrello dell’art. 11, l. 241/90, così come l’ampia duttilità che caratterizza quest’ultimo sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, consentono di affermare che le controversie relative all’esecuzione della cessione volontaria, diverse da quelle in tema di indennità, devono essere conosciute dal g.a.

6. Questo approdo, però, impone l’obbligo di operare un’ulteriore precisazione che conduce al rigetto dell’appello in esame. Infatti, nella fattispecie l’esecuzione dell’accordo si sovrappone alla costituzione della servitù a favore dei fondi delle appellanti, sicché una volta costituito il diritto reale a favore di quest’ultime, come accertato anche dalla citata sentenza del Tribunale di Tempio Pausania, tutte le controversie a valle che attengono all’esercizio del diritto, restano slegate dall’esecuzione della cessione volontaria. Quindi, la circostanza che all’indomani della costituzione della servitù a causa del maggior volume d’acqua contenuta nell’invaso, sia divenuto non più esercitabile il diritto di servitù, è vicenda che non attiene all’esecuzione della cessione volontaria, ma all’esercizio del diritto reale che ne è scaturito. Pertanto, le correlate controversie non possono che rientrare, unitamente a quelle inerenti l’esercizio delle posizioni attive e passive che la caratterizzano, e sono in capo ai proprietari dei fondi, nella giurisdizione del g.o., come tutte le vicende che riguardano l’esercizio di servitù prediali, risultando del tutto reciso quel legame con il potere autoritativo che solo giustifica la giurisdizione esclusiva del g.a. secondo il richiamato insegnamento offerto dalla Corte costituzionale.

7. La particolare complessità della vicenda all’attenzione del Consiglio è ragione idonea per compensare le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,

lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2013

Redazione