Procedimento disciplinare: sospensione dal servizio nei confronti dei dipendenti sottoposti a procedimento penale (Cons. Stato n. 5593/2012)

Redazione 05/11/12
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FATTO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Milano, sez. II, con la sentenza n. 605 in data 1° aprile 2003, ha respinto i ricorsi riuniti proposti dall’attuale appellante per l’annullamento del provvedimento disciplinare del 18 luglio 1997, prot. 21273-97, con il quale era stata applicata la sanzione della sospensione della qualifica per la durata di sei mesi, dando atto che essa era già stata scontata in sede di sospensione cautelare e del provvedimento del 25 novembre 1997, n. 36121 con il quale, nel determinare gli emolumenti arretrati, veniva escluso il periodo di sei mesi per la sanzione della sospensione dalla qualifica, nonché il periodo intercorrente dalla sospensione obbligatoria adottata ex lege n. 16-92.

Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente, che il provvedimento con cui era stata applicata la sanzione della sospensione della qualifica per la durata di sei mesi, disposta ex art. 91, comma 1, d.P.R. n. 3 del 1957, non doveva essere preceduto dalla contestazione degli addebiti e che il procedimento disciplinare era stato avviato solo a seguito della conoscenza, da parte dell’Amministrazione della sentenza penale che ha dato origine al procedimento stesso e, dunque, tempestivamente.

Inoltre, per il TAR, la sospensione obbligatoria in questione, in quanto conseguenza voluta direttamente dal legislatore in relazione a determinati esiti dell’azione penale, rimane strettamente ancorata alle sorti e alle vicende del processo penale, per cui solo la sentenza penale di proscioglimento giustifica la corresponsione degli emolumenti relativi al periodo di sospensione obbligatoria.

L’appellante contestava la sentenza del TAR chiedendo l’accoglimento dell’appello.

Si costituiva il Comune, chiedendo il rigetto dell’appello.

All’udienza pubblica del 10 luglio 2012 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

Rileva il Collegio che l’attuale appellante è stato Comandante del Corpo di Polizia Municipale di Lecco ed è stato condannato, con sentenza definitiva per rigetto del ricorso per Cassazione (in data 26 marzo 1997), ad un anno e sei mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione, per il reato di abuso d’ufficio continuato (ex artt. 323 e 81 c.p.).

L’attuale appellante era stato sospeso in via cautelare dal servizio, in un primo momento, in seguito al rinvio a giudizio avanti al Tribunale di Lecco, con ordinanza sindacale 11 febbraio 1994, prot. n. 3739; successivamente tale ordinanza era stata revocata e l’attuale appellante veniva sospeso dal servizio ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. c) della l. n. 55 del 1990, modif. dalla l. n. 16 del 1992 (ordinanza sindacale 26 settembre 1996, prot. n. 25460).

Successivamente al passaggio in giudicato della sentenza penale, in data 21 aprile 1997, era notificato all’appellante atto di contestazione degli addebiti con cui si avviava il procedimento disciplinare conclusosi con la sospensione della qualifica.

Osserva il Collegio che il provvedimento di cui all’art. 91, d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3 prevede una duplice ipotesi di sospensione dal servizio nei confronti dei dipendenti sottoposti a procedimento penale: la prima, obbligatoria, connessa all’emissione del mandato o dell’ordine di cattura e la seconda, discrezionale, correlata alla natura particolarmente grave del reato. In questo secondo caso, il provvedimento deve contenere una sommaria cognitio dei fatti e l’esposizione dei motivi che rendano incompatibile o quanto meno inopportuna, la permanenza in servizio del dipendente sotto il profilo del pubblico interesse che s’intende salvaguardare per la gravità del reato commesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 25 agosto 2011, n. 4807).

In entrambe le ipotesi, comune, la sospensione cautelare non preclude all’Amministrazione il successivo esercizio della facoltà di sospendere in via facoltativa il dipendente ai sensi dell’art. 92, citato d.P.R. n. 3 del 1957.

È tuttavia necessario che, nell’esercizio di tale facoltà, l’Amministrazione non faccia esclusivo riferimento al dato formale dell’imputazione penale, ma consideri la commissione dell’addebito disciplinare alla luce di una sommaria cognizione dei fatti, valutando allo stato ogni aspetto soggettivo ed oggettivo della condotta del dipendente, al fine di giudicare se tale condotta costituisca ostacolo insuperabile alla sua riammissione in servizio.

E’ evidente, quindi, che le due ipotesi normative (sospensione cautelare ex art. 91 e sospensione facoltativa ex art. 92) sono tra loro del tutto indipendenti e che, pertanto, non può trovare applicazione, come invece ritiene l’appellante, l’istituto della revoca ex lege che è dettato unicamente dal legislatore con riguardo all’ipotesi di cui all’art. 92.

Pertanto, la sospensione cautelare dal servizio dell’appellante, in seguito al rinvio a giudizio avanti al Tribunale di Lecco, disposta con ordinanza sindacale 11 febbraio 1994, prot. n. 3739 non poteva ritenersi revocata ex lege per mancato avvio del procedimento disciplinare, in quanto tale revoca è applicabile unicamente per l’ipotesi di cui all’art. 92, come detto.

Per quanto riguarda l’avvio del procedimento disciplinare, il Collegio deve concordare con le valutazioni espresse dal TAR, atteso che, ad opinione del Collegio, in forza degli art. 107 e 97 t.u. n. 3 del 1957 (la cui vigenza ed operatività è stata anche ammessa dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 197 del 1999), ovvero nelle ipotesi in cui trovi applicazione l’art. 9 l. n. 19 del 1990, il procedimento disciplinare deve avere inizio, con la contestazione degli addebiti, sempre entro il termine di 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento (cfr. anche, in analogia, Consiglio di Stato, sez. VI, 13 maggio 2003, n. 2527), coincidente con la sua pubblicazione.

Tale termine, dunque, non è sovrapponibile al termine entro il quale deve iniziarsi il procedimento disciplinare pena la revoca del provvedimento di sospensione dal servizio, termine che, come detto, riguarda la diversa ipotesi normativa di cui all’art. 92 del d.P.R. n. 3 del 1957 e che è stato oggetto di una modifica temporale dal CCNL (da quaranta giorni a venti giorni), riferendosi pur sempre a tale ipotesi che, come si è già detto, non è qui applicabile.

Nel caso in esame, invece, si applica il termine di 180 giorni che opera, ad avviso del Collegio, in ogni ipotesi, come quella in esame, in cui il procedimento disciplinare non è stato avviato (non essendo obbligatorio e potendo l’Amministrazione aspettare l’esito del procedimento penale) e il processo penale si è concluso con una sentenza passata in giudicato.

In ogni caso, il CCNL, laddove prevede 20 giorni per la contestazione degli addebiti conosciuti a seguito della sentenza definitiva di condanna può solo essere interpretato, ad avviso del Collegio, visto il termine così breve previsto dal medesimo rispetto a quello di legge, nel senso che si riferisca alla conoscenza effettiva; si può calcolare il decorso del termine nella specie non dunque dalla pubblicazione della sentenza della Cassazione sopra citata, bensì dalla nota del 10 aprile 1997 con cui il legale del Comune comunicava all’Amministrazione che la Corte di Cassazione aveva respinto il ricorso (la contestazione degli addebiti, come detto, è stata notificata in data 21 aprile).

Per quanto riguarda i motivi d’appello ulteriori, con cui vengono riproposte le censure di primo grado, il Collegio ritiene sinteticamente che:

– la violazione del termine per l’irrogazione della sanzione non è sussistente, giacché tale termine è previsto dall’art. 24 comma 3 del CCNL ma unicamente, ad avviso del Collegio, nell’ipotesi in cui l’incolpato non presenti alcuna difesa; viceversa nel caso di specie, l’incolpato ha presentato giustificazioni che dovevano, quindi, essere adeguatamente valutate in un periodo di tempo naturalmente congruo;

– la violazione dell’art. 104, comma 2, del d.P.R. n. 3 del 1957 non sussiste poiché la mancata consegna personale dell’atto di contestazione degli addebiti è dovuto al fatto che l’incolpato non era presente sul posto di lavoro in quanto sospeso dal servizio; sul punto non occorreva certamente una particolare motivazione;

– la sospensione della qualifica è prevista dall’art. 81 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ratione temporis applicabile in relazione al fatto oggetto di sanzione; in ogni caso, tale sanzione è sicuramente inclusa in quella più grave del licenziamento senza preavviso, previsto dal CCNL (art. 25, comma 7, lett. c) secondo un principio di continenza ragionevolmente applicabile dall’Amministrazione;

– l’art. 323 c.p. non ha subito una abolitio criminis, per il noto principio di continuità normativa, secondo cui tra le due fattispecie criminose non sussiste alcuna soluzione di continuità qualora tutti gli elementi essenziali dell’una si ritrovano nell’altra; in ogni caso, l’Amministrazione ha correttamente ed esaustivamente motivato in ordine all’irrogazione della sanzione che avrebbe potuto essere anche più pesante, visti i fatti contestati e visto il tipo di sanzione ad essi naturalmente applicabili (licenziamento senza preavviso).

In merito, invece, al provvedimento del 25 novembre 1997, n. 36121 con il quale il Comune di Lecco ha trasmesso il conteggio degli emolumenti a conguaglio dell’assegno alimentare periodicamente erogato, durante il periodo di sospensione del servizio, detto provvedimento ha precisato che il calcolo esclude il periodo di mesi sei per la sanzione della sospensione della qualifica nonché il periodo, intercorrente dalla sospensione obbligatoria adottata ex lege n. 16/1992 e cioè dal 27 settembre 1996.

Tale ultimo periodo di sospensione, ha motivato il Comune, è intervenuto in attuazione di disposizione legislativa di applicazione obbligatoria e pertanto non si procede al conguaglio dalla data dell’intervenuto provvedimento.

Quanto disposto dal Comune è, ad avviso del Collegio, pienamente legittimo.

Si deve, infatti, osservare che, con l’intervento normativo di cui all’art. 15, comma 4, della l. 19 marzo 1990, n. 55 come modificato dall’art. 1, comma 4-septies, della l. 18 gennaio 1992, n. 16, il legislatore ha introdotto un nuovo provvedimento cautelare di allontanamento dal posto di lavoro, di natura obbligatoria.

In tale norma si prevedeva che i dipendenti delle pubbliche amministrazioni fossero immediatamente ed automaticamente sospesi dall’ufficio o dalla funzione ricoperta al verificarsi di determinate condizioni:

a) in caso di esercizio dell’azione penale per i reati di associazione mafiosa o di associazione finalizzata al traffico, produzione ed importazione sostanze stupefacenti, o alla fabbricazione o vendita di armi o materiali esplodenti (cfr. art. 15, comma 1, lett. a), l. n. 55 cit.);

b) condanna con sentenza anche non definitiva per i reati sopra indicati nonché per i reati contro la P.A. quali peculato, malversazione, concussione, corruzione, o per i reati concernenti il traffico illecito delle sostanze stupefacenti (cfr. art. 15, comma 1, lett. b) l. n. 55 cit.);

c) condanna con sentenza definitiva o comunque confermata in appello commessi con abuso o violazione dei doveri inerenti una pubblica funzione ovvero condanna con sentenza definitiva ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo (cfr. art. 15, comma 1, lett. c) e d) l. n. 55 cit.).

Infine si prevedeva l’allontanamento obbligatorio dal posto di lavoro nei confronti del dipendente che, indagato del reato di associazione di stampo mafioso, veniva sottoposto a misura preventiva.

L’esigenza cautelare in esame, come evidenziato dalla Corte costituzionale (sentenza 26 maggio 1999, n. 206), risiede nella tutela di un interesse prettamente amministrativo, non legato cioè a scopi processuali ed a ragioni preventive, fattori che, invece, è tenuto a valutare il giudice penale nella scelta delle misure cautelari applicabili.

Nell’ambito della P.A. assume viceversa prevalenza, rispetto all’interesse del singolo dipendente, il rapporto fiduciario che si instaura tra l’utente (o comunque il destinatario dell’attività amministrativa) e le istituzioni, legame questo che verrebbe gravemente incrinato laddove venisse confermata la permanenza in servizio e la possibilità di agire di un soggetto accusato di gravi reati.

Sulla materia è successivamente intervenuta la l. 13 dicembre 1999, n. 475 che, nel modificare l’art. 15 l. 55-1990 cit., ha fortemente attenuato il regime della sospensione obbligatoria dei pubblici dipendenti, pur senza escluderlo del tutto.

Le continue pronunce della Corte costituzionale sulla legittimità del fin qui descritto sistema cautelare hanno indotto il legislatore, infatti, a limitare l’ambito applicativo della sospensione obbligatoria richiedendo per la sua adozione esclusivamente una condanna definitiva.

E’ evidente, quindi, che con l’emanazione della legge citata è stato accolta da parte del legislatore un’istanza di maggior garanzia per il singolo dipendente, per il quale l’automatismo cautelare avrebbe d’ora in poi operato solo sulla base di un’acclarata responsabilità penale.

La sospensione cautelare obbligatoria dal servizio rimane comunque un atto dovuto da parte dell’Amministrazione, nelle ipotesi normativamente previste, una delle quali ha riguardato l’attuale appellante.

Ne consegue che l’obbligo di reintegrare la posizione del dipendente, a fini sia economici che giuridici, non sussiste quando sia stata inflitta sanzione disciplinare in conseguenza di procedimento penale conclusosi con sentenza di condanna, imponendosi in tale circostanza il principio per cui l’Amministrazione non è tenuta alle proprie prestazioni per il periodo di mancata prestazione lavorativa del dipendente quando sia stata accertata la sua responsabilità nell’interruzione del sinallagma.

Peraltro, l’obbligatorietà della sospensione costituisce factum principis ( o meglio, volontà di legge influente direttamente e in via definitiva, sulla sospensione delle prestazioni reciproche nell’ambito del rapporto di lavoro) che impedisce la prosecuzione del rapporto di lavoro, senza che tale circostanza possa esser addebitata alla P.A. datrice di lavoro con la conseguenza che, su di essa, non può gravare alcuna imputabilità dell’inadempimento di erogare quanto dovuto.

La giurisprudenza, peraltro, si è occupata della restituito in integrum, dandovi positiva risposta solo ed esclusivamente con riferimento alle sospensioni facoltative (cfr. Consiglio Stato, Ad. Plen., 2 maggio 2002, n. 4) e non anche a quelle obbligatorie, che costituiscono per la P.A. un dovere ineludibile.

Peraltro, si deve osservare, per completezza che anche rispetto alle sospensioni facoltative la restituito in integrum non è piena, poiché dal quantum dovuto a titolo di restituzione delle retribuzioni perse durante il periodo di sospensione cautelare, va dedotto in primo luogo l’importo delle retribuzioni corrispondenti al tempo della condanna penale detentiva, quand’anche questa non sia stata di fatto scontata (Consiglio di Stato, sez. VI, 27 dicembre 2011, n. 6815); in secondo luogo, vanno disapplicati tutti quegli istituti che presuppongono di fatto l’espletamento della prestazione lavorativa come (a titolo di mero esempio non certo esaustivo) il diritto a veder maturate le ferie nel periodo di sospensione cautelare dal servizio, rilevato che la fruizione delle ferie è intesa al recupero delle energie psicofisiche profuse nell’attività lavorativa e, dunque, non può essere riconosciuto.

Pertanto, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato.

Le spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),

definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante alla rifusione delle spese di lite del presente grado di giudizio, spese che liquida in euro 5.000,00, oltre accessori di legge, in favore della parte appellata.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Redazione