Portatori di handicap: il servizio di assistenza non è obbligatorio nei fine settimana (Cons. Stato n. 3543/2012)

Redazione 18/06/12
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Svolgimento del processo

G.P., in proprio e nella qualità di esercente la potestà sul figlio minore G.T., adiva il TAR Lombardia di Milano al fine di ottenere l’annullamento del parere della Commissione consultiva n. 1/13 dell’8 gennaio 2004, nonché della Det. n. 159391 del 4 febbraio 2004, con cui il Settore Servizi alla Famiglia – Servizi Handicap del Comune di Milano aveva rigettato la richiesta di contributo economico per assegno terapeutico finalizzato ad un intervento domiciliare in favore del minore disabile in orario serale e nei giorni di sabato e domenica.

Con ordinanza 1673/2001 l’adito TAR accoglieva l’istanza cautelare ai fini del riesame dell’atto impugnato da parte dell’Amministrazione; quindi, con la sentenza in epigrafe, decideva nel merito il ricorso, rigettandolo.

Avverso tale decisione l’interessata proponeva appello.

Resisteva l’Amministrazione.

All’udienza del 4 maggio 2012 la causa è stata trattenuta per la decisione.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente il Collegio ritiene di dover ricordare che oggetto del giudizio di appello, quale quello di fronte al Consiglio di Stato, è la sentenza di primo grado, non già il provvedimento impugnato in quel giudizio.

L’appello, pertanto, che assume i tratti di un’impugnazione e non di un gravame, non può consistere in una generica contestazione dell’erroneità della sentenza, poiché non può tradursi in un mero riesame della stessa questione trattata dal TAR quanto – necessariamente – in una critica alla sentenza di primo grado. All’appellante non è, quindi, consentito riproporre le medesime censure dedotte dinanzi al TAR, senza una specifica contestazione delle conclusioni alle quali questo è pervenuto e delle argomentazioni che le sorreggono (cfr. Cons. St., sez. IV, 10 luglio 2007, n. 3910; idem 19 giugno 2007, n. 3295). In altre parole, l’appello avverso la decisione di primo grado non può consistere nella mera riformulazione, dinanzi al Consiglio di Stato, delle censure prospettate con il ricorso di primo grado o in una mera riproposizione delle questioni e delle eccezioni articolate in quel grado. L’appello, piuttosto, deve contenere a norma dell’art. 101 c.p.a. “specifiche censure contro i capi della sentenza gravata”.

Nel giudizio di fronte al Consiglio di Stato, inoltre, non possono trovare ingresso censure non prospettate dal ricorrente innanzi al TAR in base al noto divieto di ius novorum in appello come principio in base al quale non è consentito accedere, in secondo grado di giudizio, ad alcun ampliamento della domanda (cfr. Cons. St., sez. VI, 21.6.2011, n. 3715; idem 2.3.2011, n. 1303). Il divieto appena menzionato ha carattere assoluto e di ordine pubblico processuale e la relativa ratio promana dalla fondamentale esigenza di assicurare il rispetto del principio del doppio grado di giurisdizione e impone l’immutabilità della causa petendi introdotta in primo grado. L’effetto devolutivo dell’appello, oggi consacrato dall’art 104 c.p.a., dal quale discende il divieto – con le eccezioni ora previste dal c.p.a. – di porre nuove difese rispetto a quelle formulate innanzi al primo giudice, assicura che l’oggetto del giudizio del gravame non risulti più ampio di quello su cui si è pronunciato il giudice della sentenza appellata (cfr. Cons. St., sez. V, 24.4.2009, n. 2588).

2. Con il ricorso di primo grado l’interessata – dopo aver premesso di aver chiesto al comune di Milano la corresponsione di un contributo economico per assegno terapeutico finalizzato ad un intervento domiciliare in orario serale e nei giorni di sabato e domenica – ha adito il Tar affidandosi ai seguenti motivi: violazione dei principi contenuti nella L. n. 104 del 1992, così come modificata dalla L. n. 162 del 1998. Eccesso di potere per carenza di motivazione, ingiustizia manifesta, pretestuosità, illogicità, contraddittorietà. A giudizio di parte ricorrente, odierna appellante, oltre che per la contestata violazione di legge, il provvedimento adottato dall’amministrazione sarebbe invalido perché nei casi particolarmente gravi l’assistenza non potrebbe prevedere “sospensioni” o “pause” di alcun genere nell’assicurare al disabile e alla sua famiglia ogni idoneo intervento di assistenza diretta ed indiretta (pagine 3-4 del ricorso di primo grado). Inoltre, l’illogicità deriverebbe anche dal fatto che con atto del 6 ottobre 1998 erano stati assicurati l’assistenza domiciliare diretta (in determinate ore della giornata) e la corresponsione di un contributo alla famiglia, perché in autonomia potesse provvedere all’assistenza domiciliare per le restanti ore della giornata. Infine, non potrebbero essere valutate delle altre soluzioni in ragione della gravità e complessità del quadro clinico del minore, nonché della sua inidoneità all’inserimento presso una struttura residenziale.

3. Al di fuori di tali censure, qualsiasi ulteriore doglianza in appello è inammissibile. Il “thema decidendum”, come detto, è delimitato dalle censure articolate in prime cure, non potendosi tenere conto di profili nuovi sollevati dall’originario ricorrente in primo grado per la prima volta in sede di appello, in violazione del divieto dei nova sancito dall’art. 345 comma 1, c.p.c. Tale orientamento trova compiuta conferma nella giurisprudenza consolidata di questo Consiglio, secondo cui il divieto di nuove censure in appello nell’ambito del processo amministrativo costituisce logica conseguenza dell’onere di specificità dei motivi di impugnazione del provvedimento amministrativo e, più in generale, dell’onere di specificazione della domanda da parte di chi agisce in giudizio (cfr. Cons. St., VI, 24 febbraio 2011, n. 1154).

4. Passando alla decisione della specifica controversia, dagli atti di causa si evince che G.T. è stato dichiarato, ai sensi dell’art 3, comma 3, L. n. 104 del 1992, disabile con situazione di handicap grave essendo affetto, fin dai primi mesi di vita, da forme di ipercinesia, disordine neuropsicologico e ricorrenti crisi epilettiche giornaliere, così come documentato dalle relazioni specialistiche versate in atti. Detta condizione clinica del paziente richiede la presenza costante di una persona adulta che se ne prenda cura. Come emerge tra l’altro dall’atto di appello, di tale delicata situazione il Comune si è preoccupato tanto da predisporre, nel tempo, un piano individualizzato di assistenza al minore da effettuarsi per il tramite della Cooperativa Servizio ADH. Con nota del 6.10.98 il Direttore dei Servizi Educativi, infatti, informava la famiglia della formulazione di un progetto integrato di intervento che il Comune aveva predisposto a favore di G., precisando che a quest’ultimo sarebbe stata garantita la frequenza alla scuola materna dalle 9.30 alle 16.00; il servizio di Assistenza domiciliare diretta (ADH) dalle 8.30 alle 9.30 e dalle 16.00 alle 18.00 e un contributo economico al fine di provvedere alle spese per l’assistenza domiciliare per le restanti ore della giornata. Il minore, infatti, aveva frequentato la scuola materna comunale di Via Mantegna n. 8 ed in considerazione dell’invalidità del medesimo gli era stato consentito il prolungamento della frequenza della scuola materna per l’anno 1998.

Il Comune emanava poi alcuni atti con i quali riconosceva dei contributi economici in favore della famiglia che però, non ritenendoli soddisfacenti, li impugnava nelle competenti sedi giurisdizionali.

Successivamente l’amministrazione locale metteva a punto un progetto integrato che comprendeva prestazioni di assistenza domiciliare diretta e indiretta (secondo quanto riportato nell’atto di appello non veniva mai realizzato, pagina 8). Senza ripercorrere il complesso carteggio intervenuto tra il comune di Milano e la famiglia, per quanto qui rileva, a seguito di apposita istanza presentata dalla famiglia, il comune con atto del 4 febbraio 2004, rigettava l’istanza finalizzata ad ottenere un assegno terapeutico finalizzato ad un intervento domiciliare in orario serale e nei giorni di sabato e domenica. Tale ultimo provvedimento, unitamente alla relazione della apposita commissione, venivano impugnati innanzi al TAR.

5. Il Comune, costituitosi in giudizio, dopo aver ricostruito tutti gli interventi in atto in favore del minore, disposti fin dal 1997, ed aver evidenziato che già offriva assistenza per la quasi totalità dei giorni, nonché un contributo economico alla famiglia che, in ogni caso, non era indigente, sottolineava la legittimità dell’operato della Commissione consultiva e del successivo atto impugnato. In particolare, tale ultimo organo, operando una valutazione complessiva della situazione del minore, aveva ritenuto non opportuna l’erogazione dell’ulteriore intervento richiesto (assegno terapeutico), suggerendo che, se l’esigenza fosse stata quella di avere una copertura per l’intera giornata e per tutti i giorni dell’anno, avrebbe dovuto farsi ricorso all’inserimento del ragazzo in una struttura residenziale, soluzione questa che tra l’altro sarebbe stata meno onerosa per il bilancio comunale. Tenendo, quindi, conto di tutti i servizi disposti a favore di G., la Commissione consultiva aveva ritenuto che l’attivazione dell’intervento richiesto, sommato a quanto già in atto, non configurasse più un intervento di sostegno alla famiglia, ma una totale sostituzione della stessa.

6. Così delineata la situazione in fatto, la Sezione ritiene utile ripercorrere brevemente il quadro normativo di riferimento.

L’art 5 della L. n. 104 del 1992, in tema di principi generali, stabilisce tra gli obiettivi che la legge stessa si prefigge quello di garantire alla persona svantaggiata e alla famiglia adeguato sostegno psicologico e psicopedagogico, servizi di aiuto personale o familiare, strumenti e sussidi tecnici, prevedendo, nei casi strettamente necessari e per il periodo indispensabile, interventi economici integrativi per il raggiungimento degli obiettivi di cui si è detto.

Il successivo art. 39, comma 2, lett. l-bis e l-ter, così come modificato dalla citata L. n. 162 del 1998, nel delineare i compiti delle Regioni, prevede tra l’altro che queste ultime possano adottare misure aggiuntive di assistenza domiciliare e di aiuto personale, anche continuo per 24 ore, nonché il rimborso parziale delle spese documentate di assistenza, se effettuate all’interno di programmi previamente concordati.

Alle Regioni, quindi, è consentito, nei limiti delle proprie disponibilità di bilancio, attuare programmi di interventi di aiuto alla persona ed alla famiglia come prestazioni integrative di quelle effettuate dagli Enti locali realizzando piani personalizzati, gestiti in forma indiretta dagli stessi soggetti che ne facciano richiesta, con verifica delle prestazioni erogate e della loro efficacia da parte – ed in collaborazione- con l’Ente locale.

L’art. 40 stabilisce, infatti, che i Comuni devono attuare il coordinamento degli interventi sociali, sanitari, educativi, di tempo libero e di inserimento lavorativo operanti nell’ambito territoriale, attraverso la stipula dell’accordo di programma previsto dall’art. 27 L. n. 142 del 1990, dando priorità agli interventi di riqualificazione, riordinamento e di potenziamento dei servizi esistenti.

Alla luce della normativa nazionale appena esposta, la L.R. Lombardia n. 1 del 1986, vigente all’epoca dei fatti, garantiva sia interventi di assistenza economica prioritariamente assicurati ai nuclei familiari che non disponessero di risorse sufficienti a realizzare il soddisfacimento dei bisogni fondamentali o si trovassero in occasionali situazioni di emergenza (art. 72) sia forme di assistenza socio-sanitaria a domicilio (art. 73), al fine di consentire la permanenza nel normale ambito di vita del disabile e di ridurre le spese per i ricoveri residenziali.

Deve tenersi presente che la tutela della salute, così come salvaguardata dalle norme appena enunciate, deve trovare il giusto contemperamento con i vincoli di bilancio che gli enti locali sono obbligati a rispettare. Se è sicuramente compito del Comune quello di assicurare ai cittadini il godimento del diritto alla salute, soprattutto quando si tratta di classi di soggetti svantaggiati, quale quella dei disabili, è pur vero che tale prioritaria esigenza deve fare i conti con i tetti di spesa prefissati, trovando nelle ordinarie risorse di bilancio un limite invalicabile. Può, pertanto, ritenersi giustificata la graduabilità nell’attuazione di taluni diritti sociali – nella specie la misura del contributo economico – in ragione del coordinamento tra i servizi considerati socialmente necessari ed il concomitante utilizzo della finanza pubblica. La necessità di contemperare le prestazioni rese a tutela della salute con i necessari vincoli di bilancio è stata, peraltro, recentemente ribadita dall’Adunanza Plenaria 12 aprile 2012 n. 3 che, nella diversa ipotesi della legittimità della determinazione regionale che definisce i tetti di spesa per i servizi sanitari in corso d’anno, ritiene tali vincoli di bilancio indispensabili, date le insopprimibili esigenze di equilibrio finanziario e di razionalizzazione della spesa pubblica. Anzi, soggiunge l’Adunanza Plenaria, tale pianificazione finanziaria assume una valenza imprescindibile in quanto la determinazione dei limiti di spesa costituisce l’adempimento di un ineludibile obbligo che influisce sulla stessa possibilità di attingere le risorse necessarie per la remunerazione delle prestazioni erogate.

La concessione di contributi e finanziamenti posti a tutela delle persone disabili – concessione che trova base costituzionale nella garanzie della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati – dipende dunque principalmente dalla possibilità economica delle amministrazioni (cfr. Cons. St., sez. V, 30.12.2011 n. 6999:”… E’ chiaro quindi che tra gli interessi da bilanciare ben possa ricomprendersi, oltre a quello alla parità di trattamento di tutti i richiedenti, anche quello posto dai limiti di bilancio dell’amministrazione, peraltro correlato al primo, il quale non può che costituire un limite , ammissibile e ragionevole, al riconoscimento della misura piena del contributo richiesto in relazione al progetto proposto…”).

7. L’interessata con l’atto di appello si è lungamente soffermata sulle condizioni di G., sugli aiuti ricevuti dal comune e su quelli non ottenuti, nonché sulla complessa vicenda umana del ragazzo e della sua famiglia.

Venendo alle specifiche censure mosse alla sentenza, l’appellante ha lamentato l’erroneità della decisione che non avrebbe colto nell’atto impugnato i “connotati di limitatezza, insufficienza e inidoneità che li caratterizza”; sarebbe, poi, inaccettabile la “sporadicità” degli interventi, che avrebbero i tratti della casualità anche in ragione che alcuni di loro sarebbero stati assunti dopo i ricorsi al TAR.

Deve considerarsi, come già detto, che la disciplina nazionale prevede la compatibilità degli interventi, nel loro complesso, con le disponibilità di bilancio, ossia con i finanziamenti previsti per la copertura di tale tipologia di servizi stabilendo un procedimento di concessione del contributo dipendente dal finanziamento regionale e non necessariamente corrispondente all’entità del complesso delle richieste pervenute e giudicate congrue dall’interessata (cfr. Cons. St., sez. V, 30.12.2011, n. 6999).

È bene sottolineare sul punto che questo Consiglio ha già affermato che, in tema di tutela dei portatori di handicap, alla previsione di cui all’art 39 L. n. 104 del 1992 di “forme di assistenza domiciliare e di aiuto personale, anche della durata di 24 ore” non corrisponde un diritto soggettivo del disabile, perché è facoltà – e non obbligo – di ciascuna Regione o Provincia autonoma l’istituzione di un tale servizio “nei limiti delle proprie disponibilità di bilancio”, con possibile alternativa rappresentata dal “rimborso parziale delle spese documentate di assistenza nell’ambito di programmi previamente concordati” (cfr. Cons. St., sez. VI, 23.2.2012, n. 1001).

Alla luce delle riportate premesse, e in ragione dell’inesistenza di un diritto soggettivo nei termini prima precisati, non è dunque rilevante sotto un profilo giuridico stabilire per quante ore nei suoi diciannove anni G. ha avuto assistenza (come evidenziato a pagina 16-17 dell’atto di appello), ma accertare se l’azione dell’amministrazione sia stata improntata a coerenza e ragionevolezza. Nel caso di specie, anche dalla ricostruzione dei fatti (operata correttamente dall’appellante e dall’appellato), emerge che l’amministrazione di volta in volta ha fatto quello che poteva tentando di venire incontro alle esigenze del ragazzo in una materia nella quale, come prima affermato, bisogna realizzare gli interventi a sostegno della parte debole facendo i conti con i limiti del bilancio pubblico e trovando il giusto punto di contemperamento. Le azioni, sotto questo aspetto, non sono state casuali, ma finalizzate a venire incontro alle esigenze della famiglia di volta in volta prospettate nei limiti in cui l’ordinamento e il bilancio lo consentivano. Con riferimento poi alla mutata condizione lavorativa (il licenziamento del dott. T.) e reddituale, ritiene il Consiglio che tale accadimento, pur molto grave e sintomo di una situazione di disagio complessivo, anche economico, dell’intero nucleo familiare, di per sé non influisce sulla legittimità dell’atto impugnato – né sotto il profilo della violazione di legge né sotto quello dell’eccesso di potere – per le più volte constatate ragioni di bilancio da contemperare con le richieste degli interessati.

8. In conclusione l’appello è infondato e va respinto.

9. Attesa la natura delle questioni trattate può, tuttavia, disporsi la compensazione delle spese.

 

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Redazione