Porcellum incostituzionale. La Cassazione rinvia alla Consulta (Cass. n. 12060/2013)

Redazione 17/05/13
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Ordinanza

Svolgimento del processo

Nel novembre 2009 il sig. B.A., in qualità di cittadino elettore, ha convenuto in giudizio, davanti al Tribunale di Milano, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’interno, deducendo che nelle elezioni per la Camera dei Deputati e per il Senato della Repubblica svoltesi successivamente all’entrata in vigore della L. n. 270 del 2005, e, in particolare, nelle elezioni del 2006 e 2008, egli aveva potuto esercitare (e potrebbe esercitare ancora nel futuro) il diritto di voto secondo modalità configurate dalla predetta legge in senso contrario a principi costituzionali del voto “personale ed eguale, libero e segreto” (art. 48 Cost., comma 2) e “a suffragio universale e diretto” (art. 56 Cost., comma 1, e art. 58 Cost., comma 1).

Nell’espressione del voto personale e diretto sarebbe implicito, a suo avviso, il diritto di esprimere la preferenza ai singoli candidati, possibilità esclusa dalla legge elettorale citata, la quale, attribuendo rilevanza all’ordine di inserimento dei candidati nella medesima lista, affida agli organi di partito la designazione di coloro che devono essere nominati, con conseguente creazione di un effettivo e concreto vincolo di mandato dell’eletto nei confronti degli organi di partito che lo hanno prescelto, in violazione dell’art. 67 Cost., secondo il quale ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Inoltre il principio di uguaglianza del voto sarebbe violato dall’attribuzione di un “premio di maggioranza” alla lista che abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre, senza nemmeno la previsione di una soglia minima in voti o seggi, con l’effetto di riconoscere un valore diverso ai singoli voti, a seconda che rientrino nel “quoziente elettorale di maggioranza” o “di minoranza”, e di attribuire a non significative “minoranze” uscite dalle urne (anche ampiamente inferiori al 50%) ben 340 seggi alla Camera e la maggioranza qualificata del 55% dei seggi al Senato.

Il principio di uguaglianza del voto sarebbe violato anche per il peculiare “premio di maggioranza” attribuito per l’elezione del Senato su base regionale (essendo il numero dei seggi assegnati ad ogni regione proporzionale alla popolazione residente, il voto espresso dall’elettore residente nelle regioni più popolose concorrerebbe all’attribuzione di un premio di maggioranza ben più elevato di quello cui potrebbe concorrere l’elettore delle regioni meno popolose). Inoltre arbitraria sarebbe la previsione dell’inserimento nella scheda elettorale del nome del capo di ciascuna lista o coalizione, che avrebbe l’effetto di coartare la libertà del voto e di condizionare l’autonomia del Capo dello Stato nella nomina del Presidente del Consiglio di Ministri.

L’attore ha chiesto quindi di dichiarare che il suo diritto di voto non può essere esercitato in modo libero e diretto, secondo le modalità previste e garantite dalla Costituzione e dal Protocollo 1 della CEDU, nonchè nel rispetto delle forme e dei limiti concernenti il potere del Presidente della Repubblica di nominare il Presidente del Consiglio di Ministri, e di conseguenza ha chiesto di ripristinarlo secondo modalità conformi alla legalità costituzionale. A tal fine, in relazione all’art. 1 Cost., commi 2 e 3; art. 48 Cost., commi 2 e 4; art. 56 Cost., comma 1; art. 67 Cost.; art. 117 Cost., comma 1; art. 138 Cost., e art. 3 Prot. 1 CEDU, ha eccepito, in via incidentale, l’illegittimità costituzionale, quanto all’elezione della Camera dei Deputati, del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 1, comma 1; art. 4, comma 2; art. 59; art. 83, commi 2, 3, 4 e 5, nel testo risultante dalla legge n. 270/2005; quanto all’elezione del Senato, del D.Lgs. n. 533 del 1993, artt. 14, 16, 17, 19 e 27, nel testo risultante dalla L. n. 270 del 2005; inoltre, ha eccepito l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 14 bis, comma 3, e D.Lgs. n. 533 del 1993, art. 8, nel testo vigente, a causa della dedotta limitazione del potere del Presidente della Repubblica.

Nel giudizio di primo grado sono intervenuti ad adiuvandum venticinque cittadini elettori e si sono costituiti la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’interno.

Il Tribunale di Milano, con sentenza 18 aprile 2011, ha rigettato le eccezioni preliminari di inammissibilità delle domande per difetto di giurisdizione e insussistenza dell’interesse ad agire, nel merito ha rigettato le domande giudicando manifestamente infondate le proposte eccezioni di illegittimità costituzionale.

Il giudizio svoltosi dinanzi alla Corte di appello di Milano, nel quale i convenuti hanno reiterato le eccezioni preliminari già proposte, è stato definito con sentenza 24 aprile 2012 che ha rigettato l’appello, giudicando manifestamente infondate le proposte questioni di costituzionalità. Infatti, ad avviso dei giudici di merito, il principio del voto uguale deve intendersi nel senso formale che “nell’urna ogni voto è uguale agli altri voti, ha lo stesso valore quale che sia il censo, il sesso o altra connotazione del votante ed identica uguaglianza di peso si riscontra nello scrutinio e nei conteggi”; anche il principio del voto diretto deve intendersi nel senso formale di contribuire “direttamente all’elezione dei rappresentanti parlamentari, a differenza di altri sistemi elettorali di secondo grado in cui l’elettore designa un proprio rappresentante a far parte di un collegio più ristretto che poi elegge il componente dell’assemblea legislativa”; quanto al sistema delle c.d. “liste bloccate”, a causa dell’eliminazione del voto di preferenza, la corte, premesso che la Costituzione non garantisce nè assicura il voto di preferenza, ha osservato che rimane pur sempre la libertà dell’elettore di scegliere tra l’una e l’altra lista in cui è ricompreso il candidato cui eventualmente avrebbe dato la preferenza; i dedotti effetti distorsivi sul consenso elettorale (anche in relazione al premio di maggioranza) sono solo indiretti e non integrano lesioni costituzionali, ma hanno rilevanza come oggetto di valutazioni politiche ai fini dell’esercizio della discrezionalità del legislatore; nè infine è ravvisabile alcun pregiudizio delle prerogative del Capo dello Stato per effetto dell’indicazione del nominativo del “capo della coalizione” sulla scheda elettorale.

B.A. e gli altri cittadini elettori ricorrono per cassazione formulando tre motivi illustrati da memoria.

La Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’interno non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1.- Nel primo motivo di ricorso, logicamente pregiudiziale, i ricorrenti imputano ai giudici di appello di essersi limitati ad esaminare e a rigettare la questione di legittimità costituzionale, senza motivare la decisione di rigetto nel merito della proposta domanda di accertamento, in tal modo violando il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) e le norme che prevedono l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (art. 111 Cost., comma 6; art. 132 c.p.c., n. 4; art. 118 disp. att. c.p.c.).

1.1.- Il motivo è infondato. La Corte territoriale, avendo rigettato le eccezioni di illegittimità costituzionale delle norme censurate della L. n. 270 del 2005, ha implicitamente rigettato nel merito la domanda proposta, escludendo la rilevanza giuridica della dedotta lesione del diritto di voto, in quanto imputabile all’esercizio di un potere (legislativo) discrezionale e insindacabile in materia elettorale.

2.- Nel secondo motivo i ricorrenti imputano alla corte di merito di avere erroneamente rigettato l’eccezione di illegittimità costituzionale di norme nelle quali, secondo una diffusa opinione dottrinaria, sono presenti diversi profili intrinsecamente irrazionali e “aspetti problematici” (Corte cost. n. 13/2012, n. 15 e 16/2008). Essi reiterano l’istanza di rimessione alla Corte costituzionale delle medesime questioni di costituzionalità già sollevate (in particolare con riguardo al premio di maggioranza e alle preferenze), che ritengono rilevanti e non manifestamente infondate.

Con riguardo all’attribuzione del premio di maggioranza su base regionale, ne deducono ulteriormente l’irrazionalità trattandosi di norme concernenti l’elezione di un parlamento nazionale che deve esprimere un governo nazionale (del tutto avulso dai consensi riscossi in ogni singola regione) e non un governo regionale. In altri termini, il premio di maggioranza non verrebbe a premiare il partito o la coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti a livello nazionale, ma irragionevolmente solo quelli che hanno ottenuto il maggior numero di voti nelle regioni più popolose che assegnano il maggior numero di seggi, con la conseguenza che esso si traduce (e si è tradotto) in un “premio di minoranza”, con conseguente venir meno della ratio del premio che è quella di favorire una maggiore stabilità degli esecutivi, essendo invece favorita la ingovernabilità. I ricorrenti rilevano infine che la legge elettorale del Senato era stata modellata dal legislatore del 2005 sui principi della contestuale riforma costituzionale (che prevedeva la creazione del “Senato federale”) che successivamente fu bocciata all’esito del referendum confermativo del 25 giugno 2006.

3.- E’ necessario, prima di entrare nel merito delle questioni di costituzionalità, valutare se sussista in capo ai ricorrenti l’interesse (ex art. 100 c.p.c.) a proporre un’azione il cui petitum sostanziale è diretto al riconoscimento della pienezza del diritto di voto, quale diritto politico di rilevanza primaria, attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme della L. n. 270 del 2005, che, in tesi, ne precludono l’esercizio in modo conforme alla Costituzione. Il tribunale, decidendo sull’eccezione sollevata dalle Amministrazioni convenute nel giudizio di merito, ha valutato positivamente l’interesse ad agire in capo ai ricorrenti, implicitamente ritenendo “più ampia la latitudine dell’interesse ad agire, della legittimazione e della facoltà di azione concessa a ogni elettore” (in tal senso è Cass. n. 4103/1982). La corte di appello, nel confermare “integralmente” la sentenza del tribunale, ha rigettato l’eccezione che (come risulta dalla sentenza qui impugnata) era stata riproposta in appello, ma le Amministrazioni non hanno svolto attività difensiva in questa sede di legittimità e quindi non hanno proposto il ricorso incidentale in via condizionata che sarebbe stato necessario per investire questa Corte della questione della esistenza dell’interesse ad agire.

3.1.- E tuttavìa, una volta riconosciuto l’interesse ad agire per ottenere il riconoscimento della pienezza del diritto di voto in conformità della disciplina costituzionale, quale diritto politico di rilevanza primaria, in funzione del suo esercizio in occasione delle elezione per il rinnovo delle Camere, ci si deve pur sempre confrontare con la possibile obiezione secondo cui quella in esame sarebbe un’azione di mero accertamento con l’unico fine di ottenere dal giudice solo un “visto di entrata” per l’accesso al giudizio costituzionale, in tal modo rivelandosi la sua pretestuosità. In questa prospettiva sarebbe un’azione inammissibile, per difetto di meritevolezza o di rilevanza dell’interesse azionato, che si risolverebbe in una mera ed astratta prospettazione di un pregiudizio incerto quantomeno nel quando e perciò inidoneo ad assurgere a giurìdica consistenza, in quanto strumentale alla soluzione di questioni di diritto soltanto in via teorica.

3.1.1.- A prescindere dal rilievo che la (indagine sulla) meritevolezza dell’interesse non costituisce un parametro valutativo richiesto a norma dell’art. 100 c.p.c., (a differenza di quanto previsto in materia negoziale dall’art. 1322, comma 2, c.c), si può replicare che, ai fini della proponibilità delle azioni di mero accertamento (ammesso che quella proposta sia realmente tale), è sufficiente l’esistenza di uno stato di dubbio o incertezza oggettiva sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi scaturenti da un rapporto giuridico di fonte negoziale o anche legale, in quanto tale idonea a provocare un ingiusto pregiudizio non evitabile se non per il tramite del richiesto accertamento giudiziale della concreta volontà della legge, senza che sia necessaria l’attualità della lesione di un diritto (v. Cass. n. 13556 e n. 4496/2008, n. 1952/1976, n. 2209/1966).

Del resto, come si è detto, è discutibile che si tratti realmente di un’azione di mero accertamento, posto che l’interesse dei ricorrenti non è tanto quello di sapere di non avere potuto esercitare (nelle elezioni già svolte) e di non potere esercitare (nelle prossime elezioni) il diritto fondamentale di voto in modo conforme a Costituzione, ma è quello di rimuovere un pregiudizio che invero non è dato da una mera situazione di incertezza ma da una (già avvenuta) modificazione della realtà giuridica che postula di essere rimossa mediante un’attività ulteriore, giuridica e materiale, che consenta ai cittadini elettori di esercitare realmente il diritto di voto in modo pieno e in sintonia con i valori costituzionali. In tal modo ci si allontana dall’archetipo delle azioni di mero accertamento per avvicinarsi a quello delle azioni costitutive o di accertamento-costitutive.

Se così è, senza affermare la natura in re ipsa dell’interesse ad agire in siffatte tipologie di azioni (pure predicata da parte della dottrina), sarebbe ben difficile sostenere che l’accertamento richiesto abbia ad oggetto una questione astratta o meramente ipotetica o che si risolva nella mera richiesta di un parere legale al giudice.

L’espressione del voto – attraverso la quale si manifestano la sovranità popolare (art. 1, comma 2, Cost.) e la stessa dignità dell’uomo – costituisce oggetto di un diritto inviolabile (artt. 2, 48, 56 e 58 Cost., art. 3 prot. 1 CEDU) e “permanente” dei cittadini, i quali possono essere chiamati ad esercitarlo in qualunque momento e devono poterlo esercitare in modo conforme a Costituzione. Lo stato di incertezza al riguardo è fonte di un pregiudizio concreto e ciò è sufficiente per giustificare la meritevolezza dell’interesse ad agire in capo ai ricorrenti.

Una interpretazione della normativa elettorale che, valorizzando la tipicità delle azioni previste in materia (di tipo impugnatorio o concernenti l’ineleggibilità, la decadenza o l’incompatibilità dei candidati), escludesse in radice ovvero condizionasse la proponibilità di azioni come quella qui proposta al maturare di tempi indefiniti o al verificarsi di condizioni non previste dalla legge (come, ad esempio, la convocazione dei comizi elettorali), entrerebbe in conflitto con i parametri costituzionali (art. 24, e art. 113, comma 2) della effettività e tempestività della tutela giurisdizionale (diversa potrebbe essere la conclusione nel caso in cui sia invocato nel giudizio di merito il riconoscimento preventivo della pienezza del diritto di elettorato passivo, che si assuma leso da una legge incostituzionale che preveda l’ineleggibilità, quando quel diritto non sia stato esercitato nè contestato: quella lesione potrebbe materializzarsi soltanto dopo che il consiglio regionale abbia deciso “sulle cause di ineleggibilità dei propri componenti”, non potendo l’interesse ad agire desumersi dalla mera “intenzione” di un cittadino di candidarsi in una competizione elettorale, v. Corte cost. n. 84/2006).

3.2.- Si potrebbe ancora obiettare che non si potrebbe distinguere tra l’oggetto del giudizio di merito principale e quello del giudizio avente ad oggetto l’esame della questione di costituzionalità. In altri termini, non vi sarebbe la possibilità di configurare la questione di costituzionalità come incidentale rispetto ad un giudizio principale che non sarebbe suscettibile di essere definito con una pronuncia di merito.

Ci si riferisce evidentemente alla tesi secondo cui l’incidentalità che caratterizza il giudizio costituzionale esige una maggiore ampiezza del giudizio a quo e, dunque, la necessità di una statuizione ulteriore da parte del giudice di merito in relazione alla domanda proposta, pur dopo che la Corte costituzionale abbia deciso la questione di costituzionalità. Questa statuizione ulteriore costituisce il segno ineludibile che la questione è stata sollevata, appunto, davvero in via incidentale e non, surrettiziamente, in via principale, perchè altrimenti sarebbe violato il divieto di accesso diretto alla Corte costituzionale che distingue il nostro ordinamento da altri ordinamenti dove tale accesso è consentito (la L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, stabilisce che è possibile sollevare una questione di legittimità costituzionale “nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale” e “qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione”).

La tesi sopra ricordata (elaborata rispetto al problema della c.d. fictio litis) è condivisibile nella misura in cui il giudizio a quo deve effettivamente essere mirato a far ottenere un bene della vita proprio o comunque “concettualmente” distinguibile dalla caducazione della norma di legge all’esito del giudizio di costituzionalità, e così non è nei casi in cui il petitum del giudizio di merito consista esclusivamente nell’impugnazione diretta di una norma di legge ritenuta incostituzionale. La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che costituiscano “l’oggetto esclusivo del giudizio a quo” (n. 256/1982, n. 127/1998), nei casi in cui non sia ravvisabile alcuna questione di merito (n. 214/1986), o non sia possibile individuare, venuta meno la norma censurata, un provvedimento ulteriore emanabile dal giudice a quo per realizzare la tutela della situazione giuridica fatta valere dal ricorrente nel processo principale (n. 175/2003, n. 38/2009).

3.2.1.- A queste obiezioni i giudici di merito hanno replicato evidenziando che la proposta questione di legittimità costituzionale “non esaurisce la controversia di merito” ed ha rispetto ad essa una “portata più ampia in quanto introdotta mediante la formulazione di una domanda di accertamento”. Questa è un’affermazione sostanzialmente condivisibile. Infatti non potrebbe ritenersi che vi sia coincidenza (sul piano fattuale e giuridico) tra il dispositivo della sentenza costituzionale e quello della sentenza che definisce il giudizio di merito. Quest’ultima accerta l’avvenuta lesione del diritto azionato e, allo stesso tempo, lo ripristina nella pienezza della sua espansione, seppure per il tramite della sentenza costituzionale. Il punto merita una riflessione ulteriore.

3.2.2.- Si deve considerare che l’autonomia tra l’oggetto del giudizio di merito e di quello costituzionale risulta più evidente nelle azioni di condanna, ma non scompare nelle azioni di accertamento e, a maggior ragione, in quelle di accertamento- costitutive.

Come osservato da una autorevole dottrina, ci sono leggi che creano in maniera immediata restrizioni dei poteri o doveri in capo a determinati soggetti, i quali nel momento stesso in cui la legge entra in vigore si trovano già pregiudicati da esse, senza bisogno dell’avverarsi di un fatto che trasformi l’ipotesi legislativa in un concreto comando. In tali casi l’azione di accertamento può rappresentare l’unica strada percorribile per la tutela giurisdizionale di diritti fondamentali di cui, altrimenti, non sarebbe possibile una tutela ugualmente efficace e diretta.

L’esistenza nel nostro ordinamento di un filtro per l’accesso alla Corte costituzionale, che è subordinato alla rilevanza della questione di costituzionalità rispetto alla definizione di un giudizio comune, di certo non può tradursi in un ostacolo che precluda quell’accesso qualora si debba rimuovere un’effettiva e concreta lesione di valori costituzionali primari. Una interpretazione in senso opposto indurrebbe a dubitare della compatibilita della L. n. 87 del 1953, medesimo art. 23, con l’art. 134 Cost. (v. Corte cost. n. 130/1971).

3.2.3.- E’ necessario tenere presente che il requisito della rilevanza “va valutato allo stato degli atti al momento dell’emanazione dell’ordinanza di rimessione” (Corte cost. n. 367/1991), esso riguardando “solo il momento genetico in cui il dubbio di costituzionalità viene sollevato” (Corte cost. n. 110/2000), “essendo irrilevante questione di fatto se le parti del giudizio a quo si possano o meno giovare degli effetti della decisione con la quale si è chiuso il giudizio medesimo” (Corte cost. n. 241/2008), nè ha effetti sulla rilevanza della questione “l’avvenuto svolgimento della competizione elettorale” (Corte cost. n. 236/2010). La medesima Corte ha puntualizzato che “nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, la circostanza che la dedotta incostituzionalità di una o più norme legislative costituisca l’unico motivo di ricorso innanzi al giudice a quo, non impedisce di considerare sussistente il requisito della rilevanza, ogni qualvolta sia individuabile nel giudizio principale un petitum separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice rimettente sia chiamato a pronunciarsi” (Corte cost. n. 4/2000).

Anche la giurisprudenza della Cassazione è nel senso che la questione di costituzionalità può formare oggetto autonomo di impugnazione quando, attraverso la sua riproposizione, si tenda ad ottenere, per effetto dell’eliminazione dall’ordinamento della norma denunciata, una decisione diversa e più favorevole di quella adottata dalla sentenza impugnata (v., tra le altre, Cass. n. 5775/1987). Fallace sarebbe quindi l’obiezione (cui si è già in parte risposto al p. 3.2.1) secondo cui l’eventuale pronuncia di accoglimento della Corte cost. verrebbe a consumare ex se la tutela richiesta al giudice remittente, nella successiva fase del giudizio principale, con l’effetto di escludere l’incidentalità del giudizio costituzionale. Infatti, il giudizio sulla rilevanza va fatto, come si è detto, nel momento in cui il dubbio di costituzionalità è posto, dalla cui dimostrata fondatezza (per effetto della sentenza della Corte costituzionale) è possibile avere solo una conferma e non certo una smentita della correttezza di quel giudizio sulla rilevanza.

4.- Sebbene la questione di giurisdizione sia coperta dal giudicato interno (l’eccezione è stata rigettata dai giudici di merito e non riproposta in questa sede) è opportuno evidenziare che la conclusione qui raggiunta, in ordine all’ammissibilità dell’azione introdotta avanti al giudice ordinario, non collide con la competenza riservata alle Camere tramite le rispettive Giunte parlamentari (art. 66 Cost.), alle quali spetta di conoscere ogni questione concernente le operazioni elettorali, ivi comprese quelle relative all’ammissione delle liste in materia di convalida dell’elezione dei propri componenti, nonchè al giudizio definitivo su ogni contestazione, protesta o reclamo presentati ai singoli Uffici elettorali circoscrizionali e all’Ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente (v. Cass., sez. un., n. 3731/2013, n. 9151/2008). Tale competenza, infatti, non interferisce con la giurisdizione del giudice naturale dei diritti fondamentali e dei diritti politici in particolare, che è il giudice ordinario, senza bisogno di invocare la L. n. 2248 del 1865, pur vigente art. 2, all. E (non essendo parte nella controversia una Pubblica amministrazione intesa come articolazione del potere esecutivo).

5.- Venendo ad esaminare il secondo motivo di ricorso, si deve valutare se siano non manifestamente infondate le proposte questioni di legittimità costituzionale della Legge Elettorale n. 270/2005, di cui si è riconosciuta la rilevanza, non potendo il giudizio sulla dedotta lesione del diritto di voto essere definito indipendentemente da esse.

A seguire la tesi espressa dai giudici di merito, i quali le hanno giudicato manifestamente infondate, sul presupposto della particolare ampiezza della discrezionalità di cui gode il legislatore in materia, si dovrebbe ritenere che le leggi elettorali sfuggano di per sè al sindacato di costituzionalità, rappresentando (come si è pure problematicamente sostenuto da una parte della dottrina) una sorta di “zona d’ombra” o “zona franca” sottratta al giudizio di costituzionalità.

5.1.- Questa impostazione non è condivisibile.

Il fatto che la materia dei sistemi elettorali non abbia costituito oggetto di un’espressa disciplina nella Costituzione, che ha rimesso al legislatore ordinario la scelta e la configurazione del sistema elettorale, non significa che le norme legislative in materia non debbano essere concepite in un quadro coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento e, in particolare, con il principio costituzionale di uguaglianza, inteso come principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), e con il vincolo costituzionale al legislatore di rispettare i parametri del voto personale, eguale, libero e diretto (artt. 48, 56 e 58 Cost.), in linea con una consolidata tradizione costituzionale comune agli Stati membri (l’art. 3 prot. 1 CEDU riconosce al popolo il diritto alla “scelta del corpo legislativo”; di “suffragio universale diretto, libero e segreto” parla anche l’art. 39 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a proposito dell’elezione dei membri del Parlamento Europeo; sulla stessa linea l’art. 38 della Costituzione tedesca, art. 61 di quella belga e, sull’uguaglianza del voto, l’art. 3 di quella francese del 1958).

Nè varrebbe l’obiezione secondo cui, rientrando le leggi elettorali nella categoria delle leggi costituzionalmente necessarie, non ne sarebbe possibile l’espunzione dall’ordinamento nemmeno in caso di illegittimità costituzionale poichè una eventuale sentenza costituzionale avrebbe come effetto quello di creare un inammissibile vulnus al principio (da ultimo ribadito da Corte cost. n. 13/2012) di continuità e costante operatività degli organi costituzionali, al cui funzionamento quelle leggi sono indispensabili.

In realtà, come evidenziato da un’autorevole dottrina, è dubbio che tale principio, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale ai fini dell’ammissibilità dei referendum abrogativi, sia trasferibile negli stessi termini anche in presenza di una illegittimità costituzionale conclamata (perchè si finirebbe per tollerare la permanente vigenza di norme incostituzionali, fatto questo grave se si considera la rilevanza essenziale della legge elettorale per la vita democratica di un Paese).

E’ opportuno puntualizzare che la proposta questione di legittimità costituzionale non mira a far caducare l’intera L. n. 270 del 2005, nè a sostituirla con un’altra eterogenea impingendo nella discrezionalità del legislatore, ma a ripristinare nella legge elettorale contenuti costituzionalmente obbligati (concernenti – così anticipando le conclusioni – la disciplina del premio di maggioranza e delle preferenze), senza compromettere la permanente idoneità del sistema elettorale a garantire il rinnovo degli organi costituzionali. Tale conclusione – ad avviso del Collegio – non è contraddetta nè ostacolata dalla eventualità che si renda necessaria un’opera di mera “cosmesi normativa” e di ripulitura del testo per la presenza di frammenti normativi residui, che può essere realizzata dalla Corte costituzionale, avvalendosi dei poteri che ha a disposizione (compreso quello di cui alla L. n. 87 del 1953, art. 27, ult. parte), o dal legislatore in attuazione dei principi enunciati dalla stessa Corte.

6.- Venendo al merito delle questioni di legittimità costituzionale, non sono manifestamente infondate quelle concernenti l’attribuzione del premio di maggioranza per la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica e l’esclusione del voto di preferenza; è manifestamente infondata quella concernente la dedotta menomazione dei poteri del Capo dello Stato.

7.- Con riguardo al premio di maggioranza per la Camera, il D.P.R. n. 361 del 1957, art. 83, nel testo risultante dalla sostituzione operata dalla L. n. 270 del 2005, prevede che l’Ufficio elettorale nazionale verifica “se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi abbia conseguito almeno 340 seggi” (comma 1 n. 5); “Qualora la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi ai sensi del comma 1 non abbia già conseguito almeno 340 seggi, ad essa viene ulteriormente attribuito il numero di seggi necessario per raggiungere tale consistenza. In tale caso l’Ufficio assegna 340 seggi alla suddetta coalizione di liste o singola lista.

Divide quindi il totale delle cifre elettorali nazionali di tutte le liste della coalizione o della singola lista per 340, ottenendo così il quoziente elettorale nazionale di maggioranza” (comma 2; la ripartizione dei seggi restanti tra le altre liste e coalizioni è prevista nel comma successivo).

7.1.- La legge n. 270/2005 ha in tal modo introdotto un premio di maggioranza assegnato (a livello nazionale per la Camera e a livello regionale per il Senato) alla lista o coalizione di liste che abbia ottenuto il maggior numero di voti. E’ sufficiente uno scarto minimo di voti per fare attribuire alla lista o coalizione vincente alla Camera un vantaggio in termini di seggi (340) rispetto a tutte le altre liste o coalizioni, che è ancor più evidente se si considera che il premio è attribuito a prescindere dal raggiungimento di un minimo di voti o di seggi. L’effetto è di trasformare una maggioranza relativa di voti (potenzialmente anche molto modesta) in una maggioranza assoluta di seggi, con un vantaggio rispetto alle altre liste o coalizioni che determina una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica (art. 1 Cost., comma 2, e art. 67 Cost.).

La Corte costituzionale ha più volte segnalato al Parlamento “l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi” (Corte cost. n. 15/2008 e, per il Senato, n. 16/2008; v. anche la n. 13/2012); il Capo dello Stato (nel discorso del 22 aprile 2013 al Parlamento in seduta comune) ha osservato che si tratta di un premio “abnorme”.

La finalità avuta di mira dalla L. n. 270 del 2005, è stata quella di assicurare la durata della legislatura e la governabilità. Del resto, durante i lavori preparatori della Costituzione, l’ordine del giorno ******* (II Sottoc, 4 settembre 1946) aveva espresso l’opportunità che la forma parlamentare venisse disciplinata “con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.

Se quindi è vero che tale finalità può giustificare una limitata deroga al principio della rappresentanza e la sottrazione alla minoranza di un certo numero di seggi (cui essa avrebbe diritto in base a un calcolo proporzionale), tuttavia occorre pur sempre che il meccanismo che consente la traduzione dei voti in seggi non determini una sproporzione talmente grave da risultare irragionevole e, quindi, in violazione dell’art. 3 Cost..

Ciò è quanto realizzato dalla L. n. 270 del 2005. Il premio per la Camera, come si è detto, ha la funzione di trasformare anche modeste maggioranze relative di voti in maggioranze assolute di seggi, con un effetto ben più grave del premio previsto dalla L. n. 148 del 1953, che (sulla scia della legge francese n. 519/1951, c.d. loi scelerate) attribuiva alle liste che avessero già ottenuto la maggioranza assoluta dei voti una quota aggiuntiva di seggi (si parlava di premio “alla” maggioranza) al fine di far raggiungere il 64% del totale dei seggi, e persino di quello previsto dalla L. n. 2444 del 1923 (c.d. legge Acerbo) che richiedeva il raggiungimento del venticinque per cento dei voti validi per far scattare il premio dei due terzi dei seggi.

Si tratta di un meccanismo premiale che, da un lato, come è stato notato in dottrina, incentivando (mediante una complessa modulazione delle soglie di accesso alle due Camere) il raggiungimento di accordi tra le liste al fine di accedere al premio, contraddice l’esigenza di assicurare la governabilità, stante la possibilità che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiarla del premio si sciolga o i partiti che ne facevano parte ne escano (con l’ulteriore conseguenza che l’attribuzione del premio, se era servita a favorire la formazione di un governo all’inizio della legislatura, potrebbe invece ostacolarla con riferimento ai governi successivi, basati su coalizioni diverse); dall’altro, esso provoca una alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiarla del premio è in grado di eleggere gli organi di garanzia che, tra l’altro, restano in carica per un tempo più lungo della legislatura. Esso è quindi manifestamente irragionevole (art. 3 Cost.), nonchè lesivo dei principi di uguaglianza del voto (art. 48 Cost., comma 2) e rappresentanza democratica (art. 1 Cost., comma 2, e art. 67 Cost.). E’ vero, come ha ricordato la Corte di appello, che il principio costituzionale dell’uguaglianza del voto “non si estende al risultato delle elezioni ma opera esclusivamente nella fase in cui viene espresso, con conseguente esclusione del voto multiplo e del voto plurimo, considerato che qualsiasi sistema elettorale implica un grado più o meno consistente di distorsione nella fase conclusiva della distribuzione dei seggi” (Corte cost. n. 15 e 16/2008 cit., n. 107/1996, n. 429/1992). Tuttavia la distorsione provocata dall’attribuzione del suddetto premio costituisce non già un mero inconveniente di fatto (che può riscontrarsi in vari sistemi elettorali) ma il risultato di un meccanismo che è irrazionale perchè normativamente programmato per tale esito. Ed è per questo che i ricorrenti correttamente invocano come norma-parametro anche l’art. 48 Cost., comma 2, poichè ad essere compromessa è proprio la “parità di condizione dei cittadini nel momento in cui il voto viene espresso” nella quale l’uguaglianza del voto consiste (Corte cost. n. 173/2005, n. 107/1996).

8.- Per il Senato, il D.Lgs. n. 533 del 1993, art. 17, nel testo sostituito dalla L. n. 270 del 2005, prevede che l’Ufficio elettorale regionale verifica “se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’ambito della circoscrizione abbia conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore” (comma 2); “Nel caso in cui la verifica di cui al comma 2 abbia dato esito negativo, l’ufficio elettorale regionale assegna alla coalizione di liste o alla singola lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore” (comma 4; la ripartizione dei seggi restanti tra le altre liste e coalizioni è disciplinata nei commi successivi).

8.1.- Il dubbio di legittimità costituzionale del premio per il Senato, oltre che per la mancanza di una soglia minima di voti e/o di seggi (v. Corte cost. n. 16/2008), sorge per l’ulteriore profilo di irrazionalità intrinseco in un meccanismo che di fatto contraddice lo scopo che dichiara di voler perseguire (quello di assicurare la governabilità). Infatti, essendo il premio diverso per ogni regione, il risultato è una sommatoria casuale dei premi regionali che finiscono per elidersi tra loro e possono addirittura rovesciare il risultato ottenuto dalle liste e coalizioni di lista su base nazionale. Le diverse maggioranze regionali non avranno mai modo di esprimersi e di contare, perchè il Senato è un’assemblea unitaria e il governo è nazionale.

In tal modo si favorisce la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti, pur in presenza di una distribuzione del voto sostanzialmente omogenea tra i due rami del Parlamento, e si compromette sia il funzionamento della nostra forma di governo parlamentare nella quale, secondo i dettami del bicameralismo perfetto, “il Governo deve avere la fiducia delle due Camere” (art. 94 Cost., comma 1), sia l’esercizio della funzione legislativa che l’art. 70 Cost., attribuisce paritariamente alla Camera e al Senato.

8.2.- La violazione dei principi di ragionevolezza e uguaglianza del voto (art. 3 Cost., e art. 48 Cost., comma 2) è per il Senato ancor più evidente se si considera che l’entità del premio, in favore della lista o coalizione che ha ottenuto più voti, varia regione per regione ed è maggiore nelle regioni più grandi e popolose, con l’effetto che il peso del voto (che dovrebbe essere uguale e contare allo stesso modo ai fini della traduzione in seggi) è diverso a seconda della collocazione geografica dei cittadini elettori.

Nè varrebbe obiettare che l’art. 57 Cost.,, comma 1, prevede che il Senato sia “eletto a base regionale”, essendo qui in discussione non l’attribuzione dei seggi su base regionale ma le caratteristiche e gli effetti di un premio (alle singole liste o coalizioni di liste) che se introdotto dal legislatore ordinario deve esserlo rispettando il principio di uguaglianza di tutti i cittadini nel territorio nazionale.

9.- Con riguardo all’abolizione del voto di preferenza, il dubbio di legittimità costituzionale investe, per l’elezione della Camera, il D.P.R. n. 361 del 1957, art. 4, comma 2, nel testo risultante dalla sostituzione operata dalla legge n. 270/2005, secondo cui “Ogni elettore dispone di un voto per la scelta della lista ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, da esprimere su un’unica scheda recante il contrassegno di ciascuna lista” (l’ulteriore disposizione censurata dai ricorrenti, secondo cui il voto è “attribuito a liste di candidati concorrenti”, era già contenuta nel testo originario del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 1, comma 1). Inoltre la L. n. 270 del 2005, sopprimendo nell’art. 59 del citato D.P.R. il secondo comma (che così recitava: “Una scheda valida per l’elezione del candidato nel collegio uninominale rappresenta un voto individuale”), ha lasciato in vigore solo il comma 1 (“Una scheda valida per la scelta della lista rappresenta un voto di lista”) il quale è anch’esso investito, in via consequenziale, dal dubbio di costituzionalità (il D.P.R. n. 361 del 1957, artt. 58 e 60 ss., in parte sostituiti o soppressi dalla L. n. 270 del 2005, disciplinavano poi le modalità di espressione del voto).

Per l’elezione del Senato, il dubbio investe il D.Lgs. n. 533 del 1993, art. 14, comma 1, come sostituito dalla L. n. 270 del 2005, secondo cui “Il voto si esprime tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, nel rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta” (gli articoli successivi, ora sostituiti e in parte soppressi, disciplinavano le modalità del voto nel precedente sistema elettorale; l’ulteriore disposizione, censurata dai ricorrenti, sulla attribuzione del seggio vacante “nell’ambito della medesima circoscrizione, al candidato che nella lista segue immediatamente l’ultimo degli eletti nell’ordine progressivo di lista”, era già contenuta nel testo originario dell’art. 19, comma 1, del medesimo D.Lgs.).

9.1.- E’ stata così abolita qualsiasi possibilità per l’elettore di esprimere una preferenza (i nomi dei candidati non compaiono neppure sulla scheda e per conoscerli egli è costretto a svolgere apposite ricerche). Come diffusamente evidenziato dalla dottrina, l’elettore può votare solo una lista “bloccata”; l’elezione sarà determinata esclusivamente dall’ordine di lista stabilito dal partito all’atto della presentazione, poichè è tale ordine, e non il voto del cittadino elettore, a distinguere la posizione di candidato certamente eletto o, al contrario, non eletto.

I ricorrenti dubitano della legittimità costituzionale di questo sistema. La questione non è manifestamente infondata per le ragioni che seguono.

9.2.- L’art. 56 Cost., comma 1, e art. 58 Cost., comma 1, stabiliscono che il suffragio è “diretto” (oltre che “universale”) per l’elezione dei deputati e dei senatori; l’art. 48 Cost., comma 2, stabilisce che il voto è “personale” e “libero” (oltre che “eguale” e “segreto”); l’art. 3 prot. 1 CEDU riconosce al popolo il diritto alla “scelta del corpo legislativo”, in linea con le costituzioni di altri paesi Europei (i deputati “sono eletti direttamente dai cittadini” secondo l’art. 61 della Costituzione belga; l’art. 38 della Costituzione tedesca stabilisce che “I deputati del Bundestag sono eletti con elezioni a suffragio universale, dirette, libere, uguali e segrete”).

La nostra Carta fondamentale, nel prevedere il voto “diretto”, esclude quindi implicitamente (ma chiaramente) il voto “indiretto” in qualsiasi forma esso possa essere congegnato dal legislatore.

Il dubbio è se possa considerarsi come “diretto” oppure come sostanzialmente “indiretto”, e quindi incompatibile con la Costituzione, un voto che non consente all’elettore di esprimere alcuna preferenza, ad esempio indicando il nominativo di un candidato sulla scheda, ma solo di scegliere una lista di partito, cui in definitiva è rimessa la designazione dei candidati.

I partiti concorrono, con le altre formazioni sociali (art. 2 Cost.), “con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.), ma non si identificano con le istituzioni rappresentative da eleggere nè con il corpo elettorale. La loro è una funzione strumentale di proposta e di raccordo tra i cittadini e le istituzioni, cioè di intermediazione; essi “concorrono alla espressione del voto” (per usare le parole dell’art. 4 della Costituzione francese), ma non possono sostituirsi al corpo elettorale. Vi è da chiedersi se sia rispettato il nucleo sostanziale dell’art. 67 Cost. che, prevedendo che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, presuppone evidentemente l’esistenza di un mandato conferito direttamente dagli elettori.

Vi è anche da chiedersi se possa ritenersi realmente “libero” il voto quando all’elettore è sottratta la facoltà di scegliere l’eletto (ad avviso di una parte della dottrina, l’espressione “libertà di voto senza preferenza” assume il significato di un “drammatico ossimoro”) e se possa ritenersi “personale” un voto che è invece “spersonalizzato”.

Nè varrebbe sostenere in senso contrario che l’elettore sarebbe libero di scegliere tra l’una e l’altra lista in cui è ricompreso il candidato prescelto. La sua elezione infatti non dipenderebbe dal numero di voti ottenuti ma dall’ordine di candidatura nella lista assegnato dagli organi di partito.

In definitiva è dubbio che l’opzione seguita dal legislatore del 2005 costituisca il risultato di un bilanciamento ragionevole e costituzionalmente accettabile tra i diversi valori in gioco.

10.- Nel terzo motivo di ricorso è censurato l’inserimento nel D.P.R. n. 361 del 1957, art. 14 bis, ad opera della L. n. 270 del 2005, della indicazione del nome e cognome della persona “come unico capo della coalizione” da parte dei partiti o gruppi politici organizzati, tra loro collegati in coalizione, che si candidano a governare, con l’effetto che il Presidente della Repubblica non potrebbe contraddire tale indicazione contenuta nel simbolo della coalizione o lista di “minoranza” vincente anche per un solo voto. In tal modo la convergente previsione del “premio di maggioranza”, combinata con il “sistema delle liste bloccate” e con l’inserimento nella scheda elettorale del nome del capo della lista o della coalizione, quale indicazione coartante la discrezionalità del Presidente della Repubblica nella nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, si tradurrebbe in una surrettizia trasformazione della Repubblica da “parlamentare” a “presidenziale”.

10.1.- La questione di costituzionalità, che è alla base del motivo in esame, è manifestamente infondata. E’ sufficiente considerare che il richiamato D.P.R. n. 361 del 1957, art. 14 bis, comma 3, ult. parte, puntualizza che “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’art. 92 Cost., comma 2”, risultando smentita la tesi della menomazione dei poteri del Capo dello Stato nella formazione del governo.

11.- Nella memoria illustrativa i ricorrenti adombrano ulteriori profili di incostituzionalità della legge n. 270/2005, per la diversità delle soglie di accesso alla Camera e al Senato e per la previsione solo per la Camera di soglie più basse (anche sotto il 2%) per le liste coalizzate.

11.1. La generica deduzione, tuttavia, non si è tradotta in una eccezione di legittimità costituzionale di specifiche disposizioni di legge. E comunque la modulazione delle soglie di accesso alle due Camere rientra nella piena discrezionalità del legislatore il quale, al fine di evitare una frammentazione eccessiva delle liste, può provvedervi con una pluralità di soluzioni e di meccanismi che, se configurati in modo non irragionevole, si sottraggono al sindacato di costituzionalità.

12.- In conclusione, sono rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di costituzionalità sollevate nel giudizio, tutte incidenti sulle modalità di esercizio della sovranità popolare (art. 1 Cost., comma 2, e art. 67 Cost.), aventi ad oggetto:

– il D.P.R. n. 361 del 1957, art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, nel testo risultante dalla L. n. 270 del 2005, sul premio di maggioranza per l’elezione della Camera dei Deputati, in relazione all’art. 3 Cost., e art. 48 Cost., comma 2;

– il D.Lgs. n. 533 del 1993, art. 17, commi 2 e 4, nel testo risultante dalla L. n. 270 del 2005, sul premio di maggioranza per l’elezione del Senato della Repubblica, in relazione all’art. 3 Cost., e art. 48 Cost., comma 2;

– il D.P.R. n. 361 del 1957, art. 4, comma 2, e art. 59, comma 1, nel testo risultante dalla L. n. 270 del 2005, sul voto di preferenza per la Camera, in relazione all’art. 3 Cost., art. 48 Cost., comma 2, art. 49 Cost., art. 56 Cost., comma 1, e art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell’art. 3 Prot. 1 CEDU;

– il D.Lgs. n. 533 del 1993, art. 14, comma 1, nel testo risultante dalla legge n. 270/2005, sul voto di preferenza per il Senato, in relazione all’art. 3 Cost., art. 48 Cost., comma 2, art. 49 Cost., art. 58 Cost., comma 1, e art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell’art. 3 Prot. 1 CEDU.

P.Q.M.

La Corte dichiara rilevanti e non manifestamente infondate, in relazione all’art. 1 Cost., comma 2, art. 3 Cost., art. 48 Cost., comma 2, art. 49 Cost., art. 56 Cost., comma 1, art. 58 Cost., comma 1, art. 67 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell’art. 3 Prot. 1 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 4, comma 2, art. 59, comma 1, e art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, nel testo risultante dalla L. n. 270 del 2005; D.Lgs. n. 533 del 1993, art. 14, comma 1, e art. 17, commi 2 e 4, nel testo risultante dalla L. n. 270 del 2005.

Manda alla Cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente dei Consiglio dei Ministri, nonchè di darne comunicazione al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei Deputati ed alle parti del presente giudizio.

Dispone l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte comunicazioni e notificazioni, alla Corte Costituzionale.

Sospende il giudizio in corso.

Si comunichi a cura della Cancelleria.

Così deciso in Roma, il 21 marzo 2013.

Redazione