Permesso di soggiorno: non rischia nulla il datore di lavoro, se non è provato il dolo (Cass. pen. n. 25607/2013)

Redazione 11/06/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza resa il 21 giugno 2012 la Corte di appello di Genova confermava quella pronunciata il 21 settembre 2009 dal Tribunale della stessa sede e con essa la condanna alla pena di mesi tre di arresto ed Euro 5000,00 di ammenda a carico di P.F., imputato del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12, contestatogli per avere l’imputato, quale titolare di impresa individuale esercente attività edile, occupato alle proprie dipendenze R.G., cittadino extracomunitario sprovvisto di permesso di soggiorno; fatti accertati in (omissis).

A sostegno delle decisione osservava il giudice territoriale, confutando le contrarie tesi difensive, che la condotta di reato risultava provata; che la trasformazione del reato contestato in delitto dalla originaria formulazione contravvenzionale non integrava abolitio criminis; che la norma incriminatrice faceva obbligo al datore di lavoro di verificare il possesso del permesso di soggiorno da parte del lavoratore straniero assunto; che non rileva per questo, ai fini della decisione, la protesta di buona fede dell’imputato.

2. Avverso detta decisione propone ricorso per cassazione l’imputato, assistito dal difensore di fiducia, sviluppando tre motivi di impugnazione.

2.1 Denuncia con il primo di essi la difesa ricorrente violazione della norma incriminatrice, così come novellata, dappoichè abolita con essa l’ipotesi colposa della condotta originariamente prevista, della quale pertanto erroneamente hanno fatto applicazione i giudici territoriali ritenendola norma più favorevole, con ciò ponendosi in palese contrasto con la lezione interpretativa di questa corte di legittimità di cui alla sentenza n. 37703 del 18 ottobre 2011, confermativa della precedente pronuncia del 30 novembre 2010, n. 9882.

2.2 Col secondo motivo di impugnazione denuncia la difesa ricorrente difetto di motivazione sull’elemento psicologico del reato, sul rilievo che la motivazione sviluppata sul punto dai giudici di merito fa riferimento all’elemento psicologico della colpa, escluso dalla normativa attualmente in vigore, per il quale la condotta di rilevanza penale deve essere connotata dall’elemento psicologico del dolo.

2.3 Col terzo motivo di ricorso denuncia infine la difesa ricorrente violazione degli artt. 99 e 69 c.p., dappoichè delibata la pena inflitta mediante bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche con la contestata recidiva, inapplicabile ai reati contravvenzionali in seguito alla L. n. 251 del 2005.

3. Il ricorso è fondato nei limiti che si passa ad esporre.

3.1 Giova prendere le mosse dal testo normativo il quale, come è noto, per quanto di interesse nel presente giudizio, al comma 10, vigente all’epoca dei fatti (ma l’attuale comma 12, novellato dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 5, comma 1 ter, aggiunto dalla relativa legge di conversione, nulla ha su tale punto specifico modificato nella descrizione della condotta) dispone: “il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, è punito….”.

La difesa istante in relazione alla figura di reato come innanzi tipizzata pone la questione giuridica della identificazione della condotta attualmente punibile attesa la trasformazione normativa del reato da contravvenzione a delitto, posto che nel caso in esame l’imputato è stato condannato a titolo di responsabilità colposa.

Orbene, quanto all’elemento psicologico del reato osserva il Collegio che al riguardo la Corte territoriale, preso atto dei fatti di causa pacificamente accertati nei sensi innanzi sintetizzati, ha esplicitamente valorizzato la natura contravvenzionale del reato previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma, 5, oggetto di contestazione, punito all’epoca dei fatti anche a titolo di colpa, non elisa dalla buona fede del datore di lavoro (cfr. tra le tante Cass., Sez. 1, n. 8661 del 08/02/2005, Pace).

I giudici del merito non hanno pertanto correttamente considerato che il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 5, comma 1 ter, convertito in L. 24 luglio 2008, n. 125 – volendo reprimere più gravemente il reato e sostituendo la pena dell’arresto da tre mesi ad un anno e dell’ammenda di Euro 5.000 per ogni lavoratore impiegato, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di Euro 5.000, sempre per ogni lavoratore impiegato – ha trasformato la contravvenzione in delitto, di guisa che allo stato, ai sensi dell’art. 42 c.p., comma 2, il fatto è ora punito solamente se commesso con dolo, non essendo nulla di diverso espressamente preveduto dalla norma incriminatrice. L’intervento normativo del 2008, pertanto, ha reso penalmente irrilevante la responsabilità colposa, risolvendosi, per tale ipotesi, in una abolizione parziale della fattispecie previgente (cfr. Cass., sez. 1, 30.11.2010, n. 9882, rv. 249867).

Tanto premesso, osserva il Collegio che, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, anche le condotte pregresse di impiego di stranieri privi del permesso di soggiorno valevole a fini lavorativi, possono dunque essere tuttora punite solamente se dolose, fermo, a mente medesimo art. 2, comma 4, che ad esse resta applicabile il trattamento sanzionatorio previgente, più favorevole (e quindi la pena dell’arresto e dell’ammenda) (Cass. 9882/2010 cit.).

Di qui il principio di diritto che l’errore, ancorchè colposo, del datore di lavoro sul possesso di regolare permesso di soggiorno da parte dello straniero impiegato, cadendo su elemento normativo integrante la fattispecie, comporta l’esclusione della responsabilità penale.

3.3 Nel caso portato alla delibazione di questa Corte di legittimità, considerato l’errore di diritto come innanzi collegato alla valutazione dell’elemento psicologico del reato da parte dei giudici territoriali, in applicazione dei principi innanzi esposti si impone l’annullamento della sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2013.

Redazione